1.
Confesso di non essermi mai posta il problema di riflettere sulla “filosofia italiana”, sul suo statuto, la sua vitalità o la sua crisi, se non attraverso i consueti momenti di scambio e interazione su temi specifici, che comunque non erano mai separabili dal contesto più ampio di una filosofia, per così dire, senza confini. Ciò non mi ha mai impedito ovviamente di esprimere di volta in volta un giudizio negativo su quella che mi sembrava la subalternità di una certa corrente nostrana di pensiero al dibattito internazionale, o di registrare con piacere l’originalità di quel/la particolare filosofo/a italiano/a rispetto all’ultima moda dominante; né di constatare la sempre più netta divaricazione (in Italia forse più accentuata che altrove) tra, da un lato, un’esangue e opaca filosofia accademica e, dall’altro, i cedimenti di presunti maîtres à penser alla seduzione dello spettacolo e della celebrità.
Tutto questo forse non basta a prendere posizione su un tema che non ho mai messo pienamente a fuoco nella sua eventuale, autonoma consistenza. Devo ammettere però che la mia difficoltà è compensata dalla tentazione di raccogliere la sfida, di cogliere l’occasione per vedere se è possibile pensare alla filosofia italiana come ad un’immagine, se non organica e compatta (nessuno si sognerebbe di sostenerlo), dotata comunque di senso e di una sua peculiare corposità.
La sfida è peraltro tanto più ardua e provocatoria in quanto di recente viene proposta con sempre maggiore convinzione l’idea di una Italian Theory (o Italian Thought), che, insistendo con cognizione di causa sulla specificità della filosofia italiana, sollecita vivamente alla riflessione e rende difficile sottrarsi al confronto. Non so se davvero esista una Italian Theory, data anche la mia scarsa familiarità con la tradizione di pensiero -moderna e contemporanea- di cui Roberto Esposito ci ha fornito di recente una brillante ricostruzione nel suo Pensiero vivente (che assumerò qui a punto di riferimento principale). Posso solo ammettere che un po’ mi piace pensarlo, visto che una prima incursione in quelli che parrebbero essere i suoi temi fondativi ha fatto emergere empatiche condivisioni e suscitato indubbie risonanze.
Condivido in primo luogo la presa di distanza dalle filosofie del linguaggio (filosofia analitica, ermeneutica tedesca, decostruttivismo francese) che hanno dominato il panorama internazionale degli ultimi decenni. Forse è eccessivo affermare che si possa registrare una loro “stanchezza” (basti pensare alla persistente egemonia della filosofia analitica in area anglosassone), ma ciò è a mio avviso irrilevante rispetto alla legittima necessità di denunciarne i limiti costitutivi: pur nelle loro radicali differenze, queste tradizioni di pensiero sembrano infatti essere accomunate dall’assenza di una prospettiva critica che consente di ricondurle ad un “pensiero della rassegnazione”, privo di mordente sull’attualità e sugli eventi del mondo. Una filosofia senza mondo, potremmo dire, sia che si areni nei paradossi del decostruttivismo, nelle sofisticate metodologie del pensiero analitico o nell’indifferenza postmoderna dell’ermeneutica.
D’altra parte, se così non fosse, non si spiegherebbe il recente successo del New Realism, che proprio in Italia trova il suo punto di forza nel Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris (Ferraris 2012). Il nucleo di questa proposta sta nel riportare alla ribalta, insieme alla necessità di aderire allo zoccolo duro del reale come ciò che non si lascia ridurre a interpretazioni o illusioni, l’importanza della critica: l’idea cioè che non solo la realtà non è emendabile e che da essa non si può prescindere, ma che può anche essere trasformata e migliorata laddove se ne vedono l’ingiustizia e le aporie. Affermazioni che, nonostante il linguaggio sofisticato con cui vengono argomentate, hanno nella sostanza un sapore naïf: a meno che non le si veda appunto nella prospettiva della critica alle derive di una certa ideologia postmoderna. Pur apprezzandone dunque la rinfrescante carica polemica, non posso tuttavia esimermi da almeno un paio di obiezioni: la prima è che non c’era bisogno del New Realism per recuperare una dimensione critica, visto che la tradizione della Teoria critica di origine francofortese non ha mai smesso di perseguire questo obiettivo. Basti pensare sia alla sua prima stagione (Horkheimer, Adorno, Marcuse) sia alla Filosofia sociale, rilanciata negli ultimi decenni da Axel Honneth come filosofia critica del presente (Honneth 1996), che ha trovato anche in Italia una certa risonanza (compresa chi scrive); e che va ben oltre affermazioni di principio, confrontandosi invece capillarmente con le principali patologie della modernità e del nostro tempo. La seconda riguarda la decisa equazione, francamente piuttosto old fashion, che il New Realism ripropone, tra realtà e ragione, tra la riabilitazione della realtà oggettiva nella sua indiscutibile autonomia e il ritorno alla ragione illuministica quale unico strumento di fedeltà alla realtà. Ciò che mi appare come l’ennesima conferma della prevalente ostinazione della filosofia a ignorare o svalutare tutto ciò che è “altro” dalla ragione.
Ed è proprio su quest’ultimo punto che vedo invece il merito peculiare della Italian Theory. La sua originalità, infatti, non sta tanto a mio avviso nel suo essere, fin dagli albori della modernità, “estroflessa sul mondo”, costitutivamente aperta al mondo della storia e della politica. Perché, è persino banale ricordarlo, questo orientamento appartiene a pieno titolo a diversi autori e filoni del pensiero europeo: basti solo pensare ad autori come Hobbes, Rousseau o Tocqueville che hanno costellato i grandi eventi della storia dell’Occidente come la fondazione dello Stato moderno, la nascita della società borghese e capitalistica, lo sviluppo della democrazia. Per non parlare del marxismo nelle sue molteplici edizioni e del neo-contrattualismo anglosassone, della Teoria critica tedesca cui accennavo sopra e della filosofia della tecnica. Esemplare in questo senso potrebbe essere quella “filosofia d’occasione” teorizzata e auspicata da Günther Anders come un pensiero che si pone in presa diretta sul mondo e sulla rovente attualità dei suoi eventi (Anders 2003). Che oggi peraltro ci sia particolarmente bisogno di ribadire questo aspetto per proporre quella che Foucault chiamava un’ontologia dell’attualità, o, come suggerisce Giacomo Marramao, un’ “ontologia del presente” (Marramao 2008), è fuor di dubbio, soprattutto di fronte alle sfide inedite dell’età globale.
Tuttavia, l’aspetto originale della filosofia italiana sta piuttosto a mio avviso in quella memoria dell’origine, che le impedisce di chiudersi nei confini angusti di un razionalismo tanto più sterile quanto più pericoloso: perché responsabile, in una parola, di aver rimosso l’oscura ma feconda potenza di ciò che Esposito riassume (da tempo) nel concetto di “vita”. Concetto quanto mai complesso e denso di molteplici implicazioni (su cui tornerò più avanti), tra le quali mi pare centrale quella di consentire la presa di distanza e la critica radicale della questione del soggetto: questione cruciale, che ha essenzialmente dominato il pensiero europeo attraverso la figura, cartesiana e kantiana, del soggetto autonomo e razionale, sovranamente padrone di sé e della propria vita. Si tratta di una presa di distanza in sé tutt’altro che nuova se guardiamo al dibattito europeo degli ultimi decenni e alla critica del paradigma coscienzialistico (da Foucault a Rorty, da Lévinas a Derrida); che però, in questo caso, non si traduce nell’inconcludente leit motiv postmoderno della morte del soggetto o della sua disintegrazione, e neppure si limita all’auspicio decostruttivista della sua destituzione, ma ne pensa, per così dire, la ricostruzione riannodandolo, appunto, alle sue origini vitali. “Il problema della filosofia futura -dice Esposito, attribuendo visibilmente a questo tema una rilevanza centrale- è, piuttosto, quello di pensare un soggetto libero dal dispositivo – antico ma continuamente riprodotto – che lo separa dalla propria sostanza corporea, e di riannodare, allo stesso tempo, il suo nesso costitutivo con la comunità” (Esposito 2010, p. 33).
Un soggetto riannodato dunque, non più riduttivamente identificato con la sua parte razionale né ottusamente chiuso nel proprio individualismo, ma attraversato da un fascio di vincoli e legami, aperto sia alla carne e al sangue della propria corporeità, sia all’alterità che costitutivamente lo attraversa: capace di rompere i confini immunitari che lo separano dal mondo. Soffermiamoci allora, sia pure brevemente, sui due lemmi fondamentali, corpo e comunità, perché questo mi consente anche di proporre un passaggio ulteriore che sembra restare del tutto fuori dallo statuto e dagli obiettivi della Italian Theory, e che al contrario ritengo decisivo: vale a dire la necessità di una prospettiva etica.
2.
Che la condanna del corpo sia un topos del pensiero occidentale fin dalle sue origini platoniche è un aspetto troppo noto per aver bisogno di ulteriori spiegazioni. Nonostante momenti fondativi e tutt’altro che trascurabili di riabilitazione, come nella filosofia europea tra 800 e 900 (da Schopenhauer a Husserl, da Merleau Ponty a Foucault), l’esclusione, il controllo e persino il dominio del corpo sono evidentemente lo strumento fondamentale di quella maîtrise de soi, per dirla con Foucault, che ha profondamente segnato la parabola del soggetto occidentale. Non a caso il problema del corpo è stato assunto dal femminismo contemporaneo -basti pensare in Italia al “pensiero della differenza” (Cavarero, Muraro), al tema del corpo sessuato e al recupero della materialità dei corpi- come il nucleo sul quale fondare la critica del soggetto moderno: del suo atomismo, della sua astratta razionalità e della sua presunta neutralità.
In Pensiero vivente c’è tuttavia un’enfasi, sia pure fugace, sulla dimensione emotiva che lo stesso femminismo (in particolare quello italiano) ha essenzialmente trascurato, e che ritengo di primaria importanza. Nel “magma effervescente” delle passioni si annida infatti la vita, l’ineliminabilità dell’origine: in altri termini quell’ “oscura potenza vitale” che, se rimossa, provoca non solo l’immiserimento unilaterale della soggettività, ma il ritorno del rimosso in forme particolarmente violente; come accade, mi preme aggiungere, nel revival di atrocità e barbarie che attraversano oggi il pianeta e che da convinti illuministi, credevamo superati per sempre. Insomma, nelle passioni risiede quell’energia vitale dalla quale non è solo penalizzante, ma anche pericoloso separarsi.
Bisognerebbe, tuttavia, spingersi oltre in questa direzione, dialogando, più di quanto la filosofia italiana non sembri disposta a fare - a differenza per es. di quella francese (si pensi al Collège de Sociologie) o tedesca (si pensi alla prima Teoria critica francofortese) - con la psicoanalisi e con le sue intuizioni, ancora ben lungi dall’essere del tutto assimilate e digerite, nonostante qualche sporadico riconoscimento. Da questo dialogo potrebbe infatti scaturire, tra le altre cose, una visione più complessa e meno generica delle passioni. Potrebbe emergere la consapevolezza che le passioni non sono solo un “magma effervescente”, caotico e indistinto che, sia pure con un positivo rovesciamento di segno, finirebbe ancora una volta per opporsi alla chiara e distinta ragione. Sono invece costrutti di senso, dotati di una fondamentale funzione cognitiva, che orientano il nostro agire e le nostre scelte e danno forma di volta in volta alle nostre relazioni con l’altro. Ciò vuol dire che esse richiedono accurate e appropriate distinzioni: ci sono passioni negative e passioni emancipative, passioni egoistiche e passioni sociali, passioni fredde e passioni calde, passioni distruttive e passioni nobili.
È vero dunque che riannodare il soggetto alle proprie origini corporee ed emotive significa romperne la chiusura immunitaria e restituirgli quelle che sono le ormai smarrite fonti di senso. Ma è vero anche a mio avviso, che questo non può avvenire senza mettere in atto la capacità di orientare e distinguere le passioni, di vederne le ambivalenze e le potenzialità.
Entrare nel merito di questa distinzione vuol dire anche aprire la possibilità di un ruolo etico e societario delle passioni: prendendo le distanze dalla tradizione europea, indubbiamente egemone, che le ha identificate con le motivazioni egoistiche e utilitaristiche, e rivitalizzando un altro filone di pensiero, più carsico ma altrettanto interno alla modernità. Alludo alla tradizione del sentimentalismo morale (da Hume e Smith fino ad alcune voci della riflessione contemporanea, come Amartya Sen e Martha Nussbaum) che in aperta rottura con il modello razionalistico, pone l’accento sull’esistenza di motivazioni simpatetiche o empatiche (Sen 2010, Nussbaum 2004). Ne è evidente testimonianza la recente riscoperta, anche da parte delle scienze, del tema dell’empatia, appunto, come l’atto basilare che spinge l’Io a “mettersi nei panni dell’altro”, a partecipare alle sue emozioni e al suo vissuto. Riscoperta che vede coinvolta anche la filosofia morale italiana (Boella 2006; Lecaldano 2013) e che consente di pensare un soggetto non più atomistico e mosso unicamente dal calcolo razionale dei propri interessi, ma aperto all’altro e capace di riconoscerlo come dimensione costitutiva del sé.
Senza empatia in altri termini, non si dà la possibilità della comunità, dell’essere-in-comune. Non solo perché essa è l’atto aurorale dell’apertura al mondo, ma anche perché da essa hanno origine le differenti passioni che danno forma di volta in volta alla relazione con l’altro. Siamo dunque approdati al secondo lemma, quello della comunità. Anche in questo caso ha ragione Esposito (1988) a proporre, in sintonia con una parte della riflessione francese (da Bataille a Nancy) un’ontologia del cum che prenda le distanze dal concetto organico e “operativo” di comunità prevalente nella tradizione europea: non solo, evidentemente, dall’ideologia nazista del Blut und Boden, a onor del vero già scongiurata nella riflessione di F. Tönnies (1979), ma anche dalle sue rivisitazioni contemporanee, come quelle del comunitarismo anglosassone (da MacIntyre a Taylor a Etzioni) o delle ambigue accezioni postmoderne. Ripensare la comunità a partire dalla struttura ontologica del munus e del debito reciproco che ci costituisce, significa senza dubbio liberarla della zavorra ideologica e organicistica che da sempre le appartiene, scongiurandone sia gli esiti distruttivi e regressivi, sia le visioni statiche o avalutative; consentendo allo stesso tempo di scalfire il granito dell’individualismo egemone e di riaffermare l’importanza del legame sociale.
Penso tuttavia che se si vuole riannodare il soggetto alla comunità, bisogna interrogarsi sulle motivazioni che ne sono a fondamento, proprio per distinguere forme emancipative da forme distruttive o aprioristicamente vincolanti, di comunità e di legame sociale. Da un lato, infatti, assistiamo oggi al proliferare di un comunitarismo endogamico ed esclusivo (come quello delle comunità etnico-religiose di matrice fondamentalista), fondato sull’opposizione Noi/Loro; e ispirato dal risentimento verso l’altro visto come incarnazione del nemico e del male. Dall’altro rinascono invece aggregazioni collettive, ispirate dalla legittima indignazione verso i responsabili dell’ingiustizia e dello sfruttamento o dalla difesa di un’identità umiliata (come donne, omosessuali). Porre l’accento sulle motivazioni (e passioni) che stanno a monte del bisogno di comunità ci consente di declinare, così come ho suggerito per le passioni, la dimensione del cum: calandola, per così dire, dalla dimensione ontologica a quella antropologica e sociale, così da mettere a fuoco la differenza tra le sue molteplici ambivalenze e derive, e, all’opposto i possibili esiti costruttivi. Se dal risentimento non può scaturire altro che ostilità e violenza, dall’indignazione e da un’ira giusta possono nascere forme emancipative di legame sociale.
Insomma, tutto dipende dalla forma della relazione con l’altro: che, mi preme precisarlo, può anche essere conflittuale. A questo proposito, trovo particolarmente rilevante e condivisibile la rivalutazione del conflitto proposta da alcuni voci della filosofia italiana (da Esposito e Marramao), peraltro già introdotta da Pizzorno alcuni anni fa (Pizzorno 1993) e convergente con alcuni autori europei (da Axel Honneth a Chantal Mouffe). Ma il problema è quello di distinguere tra conflitto e violenza, tra forme di agonismo che presuppongono comunque il riconoscimento dell’altro e la capacità di negoziazione, e forme di radicale antagonismo che tendono invece alla neutralizzazione o demonizzazione dell’altro. Solo il conflitto, come mostrano le legittime lotte per il riconoscimento e per la giustizia può evidentemente essere ispirato da una prospettiva etica e da motivazioni eticamente orientate che tendono alla cooperazione (Honneth 2000).
3.
Infine, vorrei tornare su quello che è, come abbiamo visto, il concetto che viene assunto a fondamento della Italian Theory: vale a dire il concetto di vita, inteso come quella dimensione “intrattabile” (Esposito 2010, p.29), mai del tutto riassorbibile nella storia, nella quale essa permane e resiste con la forza dell’origine: a contrastare sia il suo ritorno in forme barbariche sia l’isterilimento della civiltà moderna.
Tuttavia, se vogliamo restare fedeli alla prospettiva di un’ontologia del presente, non possiamo non chiederci: di cosa parliamo oggi quando parliamo di “vita”? Quali sono le inedite e possibili declinazioni di questo concetto? Il termine assume infatti delle risonanze che non consentono di esaurirlo nell’idea, sia pure feconda e affascinante, di quella “oscura potenza” germinale da cui tutto ha appunto origine; perché la vita oggi è ciò che, per la prima volta nella storia dell’umanità, è esposto al pericolo di un irreversibile degrado e persino alla sua stessa estinzione.
Non solo, per dirla con Judith Butler (2004), per la precarietà di quella parte dei viventi sempre più esposta all’umiliazione, alla povertà e alla morte: perché in questo caso, siamo ancora una volta tristemente testimoni di un déjà vu che ricorre ciclicamente nella storia, sia pure assumendo nel presente forme planetarie. E neppure solo per le molteplici forme di manipolazione biotecnologica che ci interrogano, per dirla con le audaci parole di Jurgen Habermas di qualche anno fa, sul futuro della stessa “natura umana” (Habermas 2002). Ma anche e soprattutto per l’emergere di quella sfida ecologica che getta un’ombra inquietante sul destino dell’intero mondo vivente e sulle sue stesse chances di sopravvivenza.
Questo problema, intuito da Hans Jonas e dalla filosofia tedesca del ‘900 (Jonas 1990), ha assunto oggi proporzioni globali che impongono con urgenza una risposta. La crisi ecologica, di cui vediamo peraltro manifestazioni sempre più diffuse e inquietanti (dal global warming, all’esaurimento delle risorse energetiche, alla gestione dei beni comuni), proietta ormai da tempo la sua ombra inquietante sul destino delle generazioni future e sul loro diritto ad una vita degna di essere vissuta. Sarebbe dunque auspicabile che una filosofia che si cala nella storia e nel presente e che della vita fa il suo nucleo cruciale, ne riconoscesse lo spessore politico e teorico, data anche la prevalente indifferenza della politica istituzionale e la generale tendenza delle persone alla rimozione e al diniego.
È piuttosto sconcertante che si sia dovuta attendere l’Enciclica del Papa (Papa Francesco 2015) perché questo tema ottenesse, se non ancora la dovuta attenzione, perlomeno la visibilità che merita e il suo statuto prioritario nell’agenda delle sfide globali cui l’umanità è chiamata a far fronte. Anche perché porre attenzione a questo aspetto vuol dire aprire ulteriori orizzonti per l’idea stessa di soggetto e per quella di comunità. L’età globale trasforma infatti la vulnerabilità del soggetto, a cui alludevo sopra, in una dimensione concreta perché pone le condizioni oggettive per il riconoscimento non solo ontologico ma antropologico e contestuale della fragilità del soggetto, esposto a minacce planetarie inedite. Allo stesso tempo, essa apre la possibilità di una comunità-mondo in quanto accomuna potenzialmente gli individui nella condivisione di uno stesso destino e nella consapevolezza di essere membri di un’unica umanità. Sono interessanti in questo senso proposte come quella di Jeremy Rifkin o di Peter Singer che vedono nell’età globale i presupposti per una “civiltà dell’empatia” fondata sull’estensione a cerchie sempre più ampie del legame empatico tra gli uomini (Rifkin 2010, Singer 2011).
Nella consapevolezza della vulnerabilità e nella capacità di costruire un legame empatico tra gli esseri umani possiamo presumibilmente individuare le risorse per un inedito compito etico: vale a dire l’assunzione di responsabilità verso il futuro stesso del mondo vivente. Se, come già Jonas ci ammoniva nel secolo scorso, la vita non è più data in quanto esposta al pericolo di degrado o addirittura di estinzione, ciò vuol dire che riannodarsi alla vita, come giustamente auspica l’Italian Theory, vuol dire oggi, in prima istanza, prendersi cura della vita: farne l’oggetto per eccellenza della nostra preoccupazione e della nostra sollecitudine (Pulcini 2009).
Forse, come qualcuno potrebbe obiettare, i tempi della filosofia e del pensiero sono a questo punto troppo lenti perché si possa ottenere un’inversione di tendenza la quale richiederebbe l’urgenza della politica e l’immediatezza della decisione; ma è anche vero che una politica senza riflessione e senza pensiero non sarà mai in grado di rispondere alle sfide del presente.
Riferimenti bliografici
Mi limito qui a citare gli autori per i quali nel testo c’è un riferimento più preciso
Anders G. (2003), L’uomo è antiquato (1956), Bollati Boringhieri, Torino.
Boella L. (2006), Sentire l'altro, Cortina, Milano.
Butler J. (2004) Vite precarie (2004), Meltemi, Roma.
Esposito R. (1988), Communitas, Einaudi, Torino.
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Ferraris M. (2012), Manifesto del Nuovo Realismo, Laterza, Roma-Bari.
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Honneth A. (1996), Patologie del sociale (1994), “Iride”, Il Mulino, n.18.
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Jonas H. (1990), Il principio responsabilità (1979), Einaudi, Torino.
Lecaldano E. (2013), Simpatia, Cortina, Milano.
Marramao G. (2008), La passione del presente, Bollati Boringhieri, Torino.
Nussbaum M. (2004), L’intelligenza delle emozioni (2001), Il Mulino, Bologna.
Papa Francesco (2015), Laudato sì, San Paolo Edizioni.
Pizzorno A. (1993), Come pensare il conflitto, in Le radici della politica assoluta, Milano, Feltrinelli.
Pulcini E. (2009), La cura del mondo. Paura e responsabilità in età globale, Bollati Boringhieri, Torino.
Rifkin J.(2010), La civiltà dell’empatia (2009) Mondadori, Milano.
Sen A. (2010), L’idea di giustizia (2009), Mondadori, Milano.
Singer P. (2011), The Expanding Circle. Ethics, Evolution and Moral Progress, Princeton University Press.
Toennies F. (1979), Comunità e società (1887), Ed. di Comunità, Milano.
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