Il tema del cambiamento climatico ha assunto nell’ultimo periodo un’importanza centrale nel dibattito scientifico e politico non solo in ragione delle crescenti mobilitazioni studentesche, ma anche dell’impatto sempre più devastante di alcuni fenomeni naturali sull’ambiente e sulla vita delle persone.
Sebbene la migrazione, quale risposta ad un mutamento del proprio ambiente di vita, ad un suo peggioramento o al suo degrado, abbia da sempre caratterizzato la vita dell’uomo (cfr. Behringer 2015), l’incremento di flussi migratori di individui o di gruppi umani dovuti alle catastrofi e ad altri eventi naturali o di origine antropica ha portato ad un progressivo aumento dell’attenzione della comunità politica e giuridica verso le connessioni esistenti tra cambiamento climatico e ambientale e migrazioni.
In termini di spostamenti di popolazione, i disastri naturali hanno infatti causato dal 2008 al 2014 più di 184 milioni di persone di sfollati con una media di 26 milioni di persone ogni anno, mentre il primo semestre del 2019 ha visto sette milioni di sfollati interni, che si aggiungono agli oltre 17 milioni del 2018 (IDMC 2019, pp. 6 -7).
Questi dati includono tuttavia solo le persone costrette a spostarsi in ragione di eventi naturali disastrosi all’interno del proprio Paese, ma non quelle costrette a migrare a causa dei grandi progetti di sviluppo o di altre attività umane, né quelle che hanno oltrepassato i confini nazionali.
Sebbene sia difficile stimare il numero delle persone costrette a compiere una migrazione internazionale in ragione di eventi naturali, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni entro il 2050 i rifugiati o migranti ambientali o climatici potrebbero essere 200 milioni.
Di fronte a questo scenario, appare fondamentale dotarsi di strumenti utili a comprendere meglio il fenomeno delle migrazioni ambientali anche al fine di individuare soluzioni utilizzabili a livello nazionale per offrire una protezione a chi ha lasciato il proprio Paese d’origine in ragione di eventi naturali, sviluppando la riflessione a partire da un caso concreto.
Di cosa parliamo quando discutiamo di migrazioni ambientali?
Sintetizzare la questione “migranti ambientali” risulta essere un’operazione quasi impossibile, in ragione della complessità del tema anche dal punto di vista scientifico e della possibilità di sviluppare progressivamente la ricerca.
Come noto non esiste una posizione unanime non solo riguardo alla soluzione giuridica da adottare per “disciplinare” le migrazioni ambientali, ma anche in termini di definizioni da utilizzare, quantificazione del numero di persone coinvolte ed eventi da prendere in considerazione.
Secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni, il cambiamento climatico può influenzare le migrazioni almeno in quattro diversi modi: l’intensificazione dei disastri naturali con conseguente aumento degli spostamenti interni e delle migrazioni; le conseguenze negative del riscaldamento globale, la variabilità del clima e gli altri effetti dei cambiamenti climatici incidono negativamente sui mezzi di sussistenza, la salute pubblica, la sicurezza alimentare e la disponibilità di acqua; l’aumento del livello del mare che rende inabitabili le zone costiere; la concorrenza per le risorse naturali che potrebbe condurre a crescenti tensioni e conflitti.
Questa elencazione consente di effettuare una distinzione tra eventi naturali a rapida insorgenza quali cicloni, tempeste tropicali o inondazioni ed eventi a lenta insorgenza come la siccità, la desertificazione e l’innalzamento del livello delle acque che possono impattare in modo molto diverso sulle vita delle persone e sulle migrazioni.
Il gruppo di lavoro dell’International Panel on Climate Change, che si occupa nello specifico di monitorare la vulnerabilità e l’esposizione dei sistemi umani e naturali, gli impatti e i futuri rischi del cambiamento climatico, evidenzia (cfr. IPCC 2014, pp. 758 - 770) come gli eventi meteorologici estremi o a rapida insorgenza hanno sempre portato a significativi spostamenti di popolazione e i cambiamenti nell’incidenza di questi eventi estremi amplificano le sfide e rischi di tali spostamenti.
Secondo alcuni studiosi (cfr. Zetter 2016, p. 81) la migrazione, soprattutto internazionale, non sarebbe mai determinata solo da fattori ambientali, ma sarebbe sempre risultato di una interconnessione di fattori sociali, economici e politici che incidono sulla scelta migratoria a seconda del livello di vulnerabilità, resilienza e adattamento della popolazione; in questo senso, definire il nesso di causalità tra evento naturale e migrazione non sarebbe sufficiente, risultando necessario anche valutare l’esistenza di una relazione causale tra cambiamento climatico, evento naturale disastroso e spinta migratoria (cfr. Kälin - Schrepfer 2012, pp. 4 - 9).
Altri studi (cfr. Altiero - Marano, 2018), invece, anche attraverso l’approfondimento di casistiche specifiche, mirano a mettere in evidenza non solo come gli eventi naturali estremi costringano interi gruppi di popolazione a spostarsi, ma anche come i cambiamenti climatici e ambientali abbiano carattere antropico, accentuino i conflitti esistenti o siano intensificati dalle politiche finalizzate al controllo delle risorse naturali, con la conseguente necessità non solo di considerare le migrazioni generate da tali eventi come migrazioni forzate ma di pretendere che gli Stati di destinazione dei flussi migratori adottino adeguati strumenti di protezione giuridica dei migranti ambientali.
In ragione di tali differenti posizionamenti, i termini utilizzati per definire chi si sposta in ragione di mutamenti climatici o ambientali sono numerosi: rifugiati climatici o ambientali (cfr. Myers 1999, p. 18), ecomigranti (cfr. Wood 2001, pp. 42 - 61), ecoprofughi (cfr. Calzolaio 2010) o ancora, guardando agli studi promossi dall’Unione europea o a quelli delle organizzazioni internazionali, migrazioni indotte da cause ambientali, migranti climatici o sfollati ambientali.
L’utilizzo del termine rifugiato, migrante o sfollato non solo evoca immagini diverse, ma ha ovviamente implicazioni politiche e giuridiche differenti, accentuando e riducendo la natura forzata dello spostamento e sollecitando in modo diverso la responsabilità tanto degli Stati d’origine quanto di quelli di destinazione.
Dal punto di vista politico, sia a livello internazionale che europeo, il riconoscimento dei cambiamenti climatici e ambientali come fattori di spinta delle migrazioni è ormai una certezza.
L’Agenda europea sulle migrazioni, presentata a maggio 2015, evidenzia come guerre civili, persecuzioni, povertà e cambiamenti climatici incidano direttamente nei processi migratori e come sia pertanto di capitale importanza per il dibattito sulla migrazione prevenire e attenuare queste minacce.
Il Global Compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare, adottato nel 2018 a seguito di negoziati intergovernativi svolti sotto l’egida delle Nazioni Unite, comprende tra i propri obiettivi anche quello di ridurre al minimo i fattori avversi e strutturali che costringono le persone a lasciare il proprio Paese d’origine con un focus specifico su disastri naturali, effetti negativi del cambiamento climatico e degrado ambientale.
In tale ambito vengono individuate diverse azioni che gli Stati dovrebbero promuovere a partire dal rafforzamento dell'analisi congiunta e della condivisione delle informazioni per tracciare, comprendere, prevedere e affrontare meglio i movimenti migratori che possono derivare da disastri naturali improvvisi e a lenta insorgenza, cambiamenti climatici, degrado ambientale e altre situazioni precarie, fino all’armonizzazione e sviluppo di approcci e meccanismi a livello subregionale e regionale per affrontare le vulnerabilità delle persone colpite da calamità naturali, garantendo loro l'accesso a un'assistenza umanitaria che soddisfi i loro bisogni essenziali nel pieno rispetto dei loro diritti, tenendo conto delle capacità di tutti i paesi coinvolti.
Sul piano delle soluzioni più strettamente giuridiche, le proposte formulate si distinguono a seconda del carattere interno o internazionale della migrazione, della natura forzata o volontaria della stessa, degli impedimenti al rientro nelle zone d’origine. La scelta oscilla tra l’adattamento degli strumenti giuridici già esistenti, utili a favorire il soggiorno regolare delle persone colpite da eventi naturali o a riconoscere loro uno status e la creazione di strumenti giuridici nuovi.
La Convenzione dell’Unione Africana per la protezione e l’assistenza degli sfollati interni, nota anche come Convenzione di Kampala, ad esempio, impone agli Stati e ad altri attori non statali una serie di obblighi in materia di assistenza umanitaria, compensazione e sostegno nella ricerca di soluzioni durature per gli sfollati interni, anche in termini di effettivo riconoscimento dei diritti umani, e istituisce un quadro giuridico di riferimento per la prevenzione dello sfollamento interno, con un focus specifico su cambiamento climatico, degrado ambientale e impatto dei progetti di sviluppo (cfr. Abebe 2011).
Nell’area del Pacifico, sebbene al momento non vi sia stato un riconoscimento da parte degli Stati limitrofi dei migranti provenienti da Kiribati o dagli altri Piccoli Stati Insulari del Pacifico, particolarmente colpiti dal cambiamento climatico per effetto dell’innalzamento delle temperature e del livello del mare, come rifugiati climatici, è stato adottato, da parte della Nuova Zelanda, un meccanismo che prevede la concessione di visti di residenza agli abitanti di Kiribati, Tuvalu, Tonga e delle Isole Fiji. Tale sistema, noto come PAC (Pacific Access Category) prevede il rilascio di un numero limitato di visti, con requisiti obbligatori di accesso e basato su un meccanismo di selezione ad estrazione del tutto casuale e aleatorio che non offre quindi alcuna certezza.
A livello europeo è stato incrementato il loro impegno per definire possibili soluzioni politiche e giuridiche per tutelare i migranti ambientali individuando una molteplicità di diritti che possono venire violati a causa del cambiamento climatico come il diritto alla vita, il diritto all’acqua o il diritto alla salute senza che che si sia tuttavia trovato un accordo rispetto agli strumenti giuridici utilizzabili con il conseguente permanere di approcci differenti a livello di Stati membri (cfr. Brambilla 2017, pp. 11 - 15).
Quanto finora sommariamente descritto consente di comprendere la complessità del tema, accentuata dalla variabilità del percorso di ogni singolo migrante.
Nell’esperienza di chi scrive, spesso la consapevolezza di essere migranti ambientali è del tutto assente e in molti casi il fattore climatico viene riportato in modo confuso all’interno di una narrazione in cui i livelli di violenza, violazione di diritti umani e privazioni economiche e sociali si sovrappongono, emergendo in modo differente anche a seconda dell’interlocutore; a livello nazionale, come esemplificato nel successivo paragrafo, la soluzione giuridica adottabile appare essere influenzata da fattori quali la coerenza esterna ed interna della narrazione, i diritti che si ritengono violati, la possibilità di individuare agenti di persecuzione o i responsabili di un danno grave.
R. R. Storia di una migrazione ambientale dal finale incerto
R. R., nato a Dumnibari, nel distretto di Tangail in Bangladesh, nel 1998, è arrivato in Italia a marzo 2017, dopo aver lasciato il suo Paese d’origine a febbraio del 2016 e aver trascorso poco più di un anno in Libia.
Le ragioni che hanno costretto R. R. ad allontanarsi dal Paese d’origine appaiono attribuibili a fatti avvenuti nel 2015 diversi, ma tra loro collegati: il debito contratto per rilevare una piccola attività commerciale di vendita di prodotti alimentari all'interno di un mercato locale; la distruzione della casa familiare in ragione di un'alluvione avvenuta nel luglio 2015; l'aggressione subita da parte di alcuni componenti dell'Awami League, il danneggiamento della piccola attività e la conseguente impossibilità di proseguire con la stessa; l'impossibilità di far fronte al debito; la promessa di un lavoro in Libia.
Secondo la narrazione di R. R., l’inondazione del 2015 avviene di notte, senza nessun preavviso o allerta da parte delle autorità locali, spazza via la sua casa e porta via tutti gli averi familiari. La famiglia di R. R. riesce a salvarsim ma rimane priva di un’abitazione propria, sopravvivendo solo grazie all’aiuto di altre famiglie, senza sostegni economici diretti da parte del Governo. Il fiume Bangshi inoltre continua a mangiare la terra e a distruggere ogni cosa, si allarga di continuo e porta via quello che c’è intorno.
La situazione di precarietà di R. R. viene aggravata, a pochi giorni dall’alluvione, da un’aggressione da parte di alcuni membri dell’Awami League, responsabili in precedenza di continue estorsioni, e dalla distruzione della piccola attività commerciale da parte degli stessi con conseguente impossibilità di far fronte alla restituzione dei soldi ricevuti in prestito proprio per avviare l’attività commerciale.
La promessa di un lavoro in Libia, con conseguente contrazione di un ulteriore debito, appare a R. R. l’unica soluzione possibile per salvare se stesso e i propri familiari da una condizione di assoluta e progressiva privazione di diritti umani.
In Libia, il lavoro promesso si rivela del tutto inesistente e R. R. si trova costretto a lavorare per diversi mesi senza retribuzione e a subire maltrattamenti e percosse.
Giunto in Italia, R. R. presenta domanda di protezione internazionale, ma la stessa viene rigettata dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale competente per la ritenuta insussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e di quelli per il riconoscimento della protezione sussidiaria. Nessuna valutazione viene effettuata circa la possibilità di riconoscere forme di protezione complementare, in particolare rispetto alla sussistenza delle condizioni per il rilascio di un permesso per motivi umanitari poiché l’audizione di R. R. avviene a gennaio 2019, dopo l’entrata in vigore del D. L. 113/2018 convertito con L. 132/2018 che, come noto, è intervenuta abrogando l’istituto della protezione umanitaria.
Sul piano della coerenza esterna, la narrazione di R. R., per quel che riguarda il profilo che più rileva in questa sede ovvero l’alluvione e i danni provocati alle comunità locali, trova pieno riscontro nei rapporti internazionali così come ricostruito nel ricorso proposto avverso il provvedimento di diniego.
In particolare, nel ricorso viene evidenziato come il Bangladesh, attraversato da più di 230 fiumi e ospitante uno dei più grandi delta alluvionali esistenti, sia una delle regioni al mondo più colpite da disastri naturali; oltre alle piogge monsoniche che provocano inondazioni tali da interessare tra il 20% e il 60% della sua superficie, nel Paese si registrano uragani e cicloni i cui effetti disastrosi si uniscono al fenomeno dell’innalzamento del livello del mare che provoca a sua volta una salinizzazione delle coste, causandone l’erosione e rendendo progressivamente le zone interessate inabitabili.
Tali minacce naturali ed eventi climatici estremi stanno aumentando in frequenza ed intensità a causa del cambiamento climatico la cui principale causa è l’attività umana, interessando maggiormente alcune zone del Paese tra le quali rientra il distretto di Tangail, luogo di provenienza di R. R..
In particolare, nel periodo 2015-2019, il distretto di Tangail, assieme ad altri, è stato interessato da inondazioni causate dai monsoni che hanno riguardato complessivamente circa 4 milioni di sfollati; a maggio del 2019 inoltre si è abbattuto sul Paese il Ciclone Fani che da solo ha provocato 1.600.000 sfollati, causando devastazioni anche nell’area di Tangail.
Sebbene negli ultimi decenni il Bangladesh abbia cercato di porre in essere politiche di prevenzione, la capacità delle autorità nazionali e locali di garantire una corretta e appropriata gestione di prevenzione del rischio ambientale appare essere condizionata negativamente dalle ridotte risorse economiche del Paese, dello scarso coordinamento e implementazione degli strumenti esistenti e di livelli di corruzione nella gestione e ripartizione dei fondi (cfr. Cook - Ne 2018, pp. 15 ss).
La corruzione nella fase di distribuzione dei soccorsi di emergenza è un fenomeno diffuso; in alcuni casi è stata riscontrata una discrepanza tra gli importi assegnati a danno delle classi sociali più povere (cfr. Mahmud 2012, pp. 933 - 943), mentre in altri casi la distribuzione dei generi di prima necessità rivolti alle vittime di disastri naturali è stata effettuata in maniera discriminatoria in base ai diversi legami politici (cfr. Gossman 2017).
Alla luce delle informazioni relative al contesto d’origine di R. R. e delle dichiarazioni rese dallo stesso in audizione riguardo agli altri eventi che lo hanno costretto prima alla migrazione interna, da Dumnibari - distretto di Tangail a Dhaka, e poi alla migrazione internazionale, la richiesta rivolta al Tribunale adito è stata, in via principale, quella di riconoscimento della protezione sussidiaria e, in via subordinata, di riconoscimento della protezione umanitaria con rilascio di un permesso di soggiorno per casi speciali.
Pur non potendo in questa sede analizzare in modo completo le richieste rivolte al Tribunale, appare di interesse evidenziare alcuni aspetti che possono rilevare anche in altri casi, con particolare riferimento alla richiesta di riconoscimento della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. b, D. Lgs. 251/2007 ovvero del riconoscimento della sussistenza di un rischio di danno grave nella forma di sottoesposizione alla tortura o a trattamento inumano o degradante.
In particolare, ciò che si è provato a sostenere è che i vari fenomeni ambientali e naturali (graduali o improvvisi) che colpiscono sistematicamente la zona di origine di R. R. hanno come effetto quella della compromissione di una vasta gamma di diritti, sia di natura civile (diritto alla vita, all’integrità fisica, alla salute e ad un ambiente salubre) che socio-economica (diritto al cibo, alloggio e a condizioni esistenziali minime), con conseguenze negative di maggiore intensità per coloro che appartengono a una classe sociale svantaggiata.
Se infatti gli eventi meteorologici e l’inquinamento riguardano indiscriminatamente la popolazione di un Paese, i loro effetti e gli impatti devastanti dipendono dalle vulnerabilità specifiche dei segmenti della popolazione interessata, colpendo maggiormente le fasce di popolazione i cui mezzi di sostentamento dipendono dall'agricoltura e dall’acquacoltura e che vivono in abitazioni costruite con materiale povero (fango e foglie), provocando morti, feriti, problematiche sanitarie (infezioni, mancanza di acqua potabile) e distruzione dei raccolti con cui si esacerbano negativamente le preesistenti condizioni di vita (cfr. IDMC 2006).
In sede di ricorso è stato sostenuto che R. R., nel subire gli effetti negativi delle inondazioni e dei fenomeni atmosferici si è trovato e, in caso di ritorno, si troverebbe a vivere in condizioni di grave privazione dei mezzi di sussistenza.
Giunti a tale conclusione occorre tuttavia chiedersi quali siano i presupposti necessari a qualificare tale condizione di privazione come una condizione di degrado esistenziale tale da costituire un trattamento inumano o degradante.
A tal fine, è possibile fare riferimento, oltre che ad altre fonti, alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e all’evoluzione giurisprudenziale della Corte EDU che ha ricollegato, sulla base di determinati presupposti, situazioni di seria privazione dei diritti di natura sociale (causati anche da fenomeni naturali) a trattamenti inumani e degradanti ex art. 3 CEDU (Sufi and Elmi v. The United Kingdom, 28 June 2011, 8319,11449/07; M.S.S. v. Belgium and Greece, [GC] 21 January 2011, 30696/09; N. v. The United Kingdom, 27 May 2008, 26565/05).
In particolare, per ciò che concerne il danno grave nella forma del trattamento inumano e degradante (art. 14, lett. b, D. Lgs. 251/07), la sentenza della Corte EDU resa nel caso Sufi e Elmi ci indica un duplice parametro per valutare il raggiungimento della soglia-livello di trattamento inumano o degradante in tale contesto. Con tale pronuncia, la Corte EDU, pur riferendosi al caso di due cittadini somali condannati per gravi reati nel Regno Unito e a rischio di espulsione in Somalia, formula importanti considerazioni rispetto alle possibilità di protezione interna nel Paese d'origine e ai rischi in caso di rimpatrio.
In particolare, la Corte afferma che, se le condizioni umanitarie in Somalia fossero del tutto o in maniera predominante attribuibili alla povertà o alla mancanza di risorse dello Stato per fronteggiare un fenomeno naturale, allora si potrebbe affermare (come in N. c. Regno Unito) che tali condizioni potrebbero essere considerate come violazione dell’art. 3 CEDU solo in casi estremamente eccezionali. Secondo questo parametro la soglia di gravità richiesta per rilevare ai sensi dell’art. 3 CEDU deve essere estremamente alta in quanto in questi casi il pregiudizio futuro allegato non proverrebbe da atti o omissioni intenzionali da parte delle autorità pubbliche o organi indipendenti dello Stato, ma da situazioni verificatasi per cause naturali ed esacerbate dalla mancanza di risorse sufficienti per farvi fronte nel Paese di origine.
Diversamente, qualora invece le condizioni umanitarie dovessero essere in maniera preponderante attribuibili a un comportamento (volontario o negligente) dello Stato, allora si dovrebbe applicare il parametro meno stringente delineato in M.S.S., secondo il quale è necessario considerare la possibilità per il ricorrente di soddisfare i propri bisogni primari, la sua vulnerabilità e la prospettiva di un miglioramento della sua situazione in un tempo ragionevole (§ 283).
Delineati i due possibili parametri di riferimento e tornando a Sufi and Elmi, la Corte EDU, pur ammettendo il ruolo della prolungata siccità in Somalia, ritiene che le disperate condizioni umanitarie in cui versavano i ricorrenti derivassero in maniera preponderante dal comportamento dello Stato e dalla situazione di conflitto e quindi, nel valutare se un suo ritorno nel Paese di origine potesse comportare la violazione del diritto a non subire trattamenti inumani o degradanti, adotta il parametro M.S.S., concludendo che le disperate condizioni umanitarie in Afgooye e in Dadaab (estreme limitazioni nell’approvvigionamento di acqua e servizi sanitari, situazione di vulnerabilità) e le condizioni ambientali sofferte nel paese di origine hanno raggiunto la soglia livello di trattamenti inumani e degradanti.
In base a tale principio dunque è possibile ritenere che le condizioni di estrema povertà dovute anche a fenomeni naturali e tali da mettere a rischio i bisogni primari di una persona, qualora aggravate dall'azione di attori statuali o di soggetti privati in presenza di un'omissione di protezione da parte delle autorità statuali ben potrebbero costituire un danno grave nella forma del trattamento inumano e degradante di cui all'art. 14 lett. b) D. Lgs. 251/07.
L’opportunità, sussistendone i presupposti sopra enunciati, di provvedere al riconoscimento della protezione internazionale sembra essere in linea con la risoluzione del 20 gennaio 2009, Environmentally induced migration and displacement: a 21st century-challenge, con cui l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa prende una chiara posizione sulla necessità di protezione, da parte dei Paesi membri, delle persone costrette a migrare a causa degli effetti del cambiamento climatico ed eventi ambientali, invitando gli Stati membri a elaborare strumenti normativi, anche domestici, che riconoscano i migranti ambientali e le loro necessità di protezione non solo attraverso il principio del non respingimento (ex artt. 2 e 3 CEDU), ma anche attraverso la protezione sussidiaria, concedendo loro, ad esempio, uno status per motivi umanitari (temporaneo oppure permanente) in caso di impossibilità di ritorno.
Per quanto riguarda la tutela del diritto alla vita, all’interno del Consiglio d’Europa si è assistito ad un’evoluzione giurisprudenziale della Corte EDU che riconosce la violazione del diritto alla vita (art. 2 CEDU) in occasione di eventi ambientali di origine antropica o naturale (inclusi disastri naturali improvvisi come un terremoto o un’inondazione) qualora, a seguito di un opera di bilanciamento degli interessi, lo Stato non sia in grado di dimostrare di aver adottato le misure atte a salvaguardare le vite di coloro che erano sottoposte alla sua giurisdizione o non abbia adottato misure volte a ridurre al minimo gli effetti e i rischi di un inaspettato e violento fenomeno naturale (cfr. CEDU: M. Özel and others v. Turkey,17 November 2015, 14350/05, 15245/05 and 16051/05; Budayeva and others v. Russia, 20 March 2008, 15339/02, 21166/02, 20058/02, 11673/02 and 15343/02; Öneryildiz v. Turkey, 30 November 2004 [GC], 48939/99; Kolyadenko and others v. Russia, 28 February 2012, 17423/05, 20534/05, 20678/05, 23263/05, 24283/05 and 35673/05).
La Corte EDU, nei casi sopramenzionati, fonda le decisioni di responsabilità sul presupposto che una piena tutela del diritto alla vita non si esaurisce nel solo obbligo negativo di astenersi dal provocare l’evento morte attraverso l’uso della forza da parte degli agenti dello Stato, ma richiede di adempiere ad una serie di obblighi positivi volti a prevenire il rischio o l’evento morte (cfr. Öneryıldız v. Turkey, cit., § 71; Budayeva and others v. Russia, cit., § 128; Kolyadenko and others v. Russia, cit., § 151)
È quindi richiesto a ciascun Stato parte l’obbligo primario di porre in essere un quadro legislativo e amministrativo volto a fornire appropriate deterrenze contro le minacce al diritto alla vita, come l’obbligo di porre in essere pianificazioni territoriali e urbanistiche laddove necessario o l’obbligo di realizzare valutazioni di rischio ambientale (cfr. Budayeva, cit., §§ 129 e 132; Öneryildiz §§ 89-90).
Inoltre, la piena conformità ai precetti imposti dall’art. 2 impone allo Stato un obbligo di informazione delle persone interessate di ogni emergenza possibile e dei potenziali rischi ambientali derivanti da fenomeni o attività umane naturali che potrebbero influenzare il diritto alla vita (cfr. Öneryildiz, cit., § 90; CEDU Guerra and others v. Italy, 19 February 1998, 14967/89§ 60; CEDU)
La Corte, nell’attribuire o meno la responsabilità ad uno Stato per la violazione del diritto alla vita, chiarisce che non può chiedersi allo stesso un onere sproporzionato e impossibile, ma vi è la necessità di prendere in considerazione un certo margine di apprezzamento nella scelta delle priorità (in base risorse disponibili) di ciascun Stato. In particolar modo, il giudizio sulla conformità all'obbligo positivo può dipendere da tre elementi: l’origine della minaccia, la misura in cui il rischio poteva essere limitato e l’imminenza del rischio naturale chiaramente identificabile, soprattutto nei casi in cui riguarda una calamità che si abbatte sovente su una data area (cfr. Budayeva, cit., §135 e 137; Özel cit., §171)
Nel caso di R. R., si ritiene che tali profili siano dirimenti posto che i Monsoni sono un evento prevedibile e ricorrente e che risulta dimostrato come il sistema di prevenzione dei disastri naturali sia ad oggi inefficace in molte zone del Bangladesh.
Per quanto riguarda la protezione umanitaria, fatta la premessa in sede di ricorso della necessaria applicazione della disciplina previgente all’intervento modificativo posto in essere dalla L. 132/2018, la richiesta di tale forma di protezione complementare è stata basata sul necessario riconoscimento della situazione di vulnerabilità di R. R. provocata dalle condizioni politiche, sociali, ambientali e naturali del Paese di origine.
A tal fine si è fatto riferimento, oltre che ad alcune pronunce della giurisprudenza di merito, anche alla sentenza della Corte di Cassazione n. 4455/2018.
La Corte di Cassazione nella sentenza n. 4455/2018 afferma infatti che la condizione di vulnerabilità «può avere ad oggetto anche la mancanza delle condizioni minime per condurre un'esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze minime ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standard minimi per un'esistenza dignitosa. L'allegazione di una situazione di partenza di vulnerabilità, può, pertanto, non essere derivante soltanto da una situazione di instabilità politico-sociale […]», ma può «discendere da una situazione geo-politica che non offre alcuna garanzia di vita all'interno del Paese d'origine (siccità, carestie, situazioni di povertà inemendabili)».
Per ciò che concerne la giurisprudenza di merito, una pronuncia del Tribunale dell’Aquila del 16 febbraio 2018 ha avuto il pregio di motivare in maniera succinta i riferimenti normativi a cui ricondurre la necessità di offrire protezione umanitaria in presenza, nel Paese di origine, di fenomeni ambientali e naturali avversi, ricordando come l’Italia sia vincolata al rispetto del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali e del Patto Internazionale relativo ai diritti civili e politici (ratificati con L. n. 881/1997). I due Patti prevedono che gli Stati aderenti riconoscano il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia, che includa un’alimentazione, un vestiario, un alloggio adeguati, nonché il miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita, nonché impegnano gli Stati a riconoscere il diritto fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla fame, adottando, individualmente e attraverso la cooperazione internazionale, tutte le misure adeguate, rilevando che tali principi internazionali trovano riscontro nella Carta Costituzionale artt. 2 e 32.
La vulnerabilità dei migranti costretti a lasciare il proprio Paese d’origine per motivi ambientali e/o climatici è stata riconosciuta anche dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) attraverso due pareri recentemente pubblicati.
In particolare, i pareri dell’UNHCR evidenziano che i migranti che si trovano in uno Stato diverso dal proprio a causa di disastri naturali rientrano nella categoria di persone vulnerabili (Migrants in vulnerable situation UNHCR’s perspective) e che alcune delle persone sfollate oltre i confini del proprio Paese di origine a causa del cambiamento climatico e disastri possono rientrare nella definizione di rifugiato in linea con le linee interpretative dell’UNHCR (Climate change, disaster and displacement in the Global Compacts: UNHCR’s perspectives del 2017).
Il permesso di soggiorno per calamità: risorsa o limite?
Come noto, il D.l. 113/2018 convertito con L. 132/2018 ha introdotto una nuova tipologia di permesso di soggiorno denominato permesso di soggiorno per calamità.
Secondo quanto disposto dall'art. 20 bis c. 1 D. lgs. 286/98: «Fermo quanto previsto dall'articolo 20, quando il Paese verso il quale lo straniero dovrebbe fare ritorno versa in una situazione di contingente ed eccezionale calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza, il questore rilascia un permesso di soggiorno per calamità». Il permesso di soggiorno ha durata semestrale, è rinnovabile, consente lo svolgimento di attività lavorativa, ma non è convertibile in lavoro.
Ad una prima lettura ed in assenza di casistica specifica, tale disposizione appare essere solo una protezione temporanea contro l'espulsione, idonea ad intervenire nei confronti di cittadini stranieri, già presenti in Italia in una situazione di irregolarità, che, a seguito di situazione di contingente ed eccezionale gravità, si trovano impossibilitati a far rientro nel Paese d'origine in condizioni di sicurezza.
I limiti di questa disposizione appaiono essere piuttosto evidenti laddove, appunto, si pone come condizione per il rilascio l'eccezionalità della calamità e l'assenza di sicurezza in caso di rientro, risultando così apparentemente irrilevanti soprattutto gli eventi naturali a lenta insorgenza non aventi natura contingente e incidenti non tanto sulla sicurezza, quanto più sulle condizioni minime di esistenza.
In generale, non può inoltre non osservarsi come, nel contesto politico attuale, caratterizzato da processi di esternalizzazione delle frontiere e progressivo svuotamento dell’effettiva tutela offerta dalle categorie giuridiche nate per proteggere, un simile strumento appare essere eccessivamente soggetto al rischio di valutazioni politiche e del tutto inutile ad evitare alle persone viaggi mortali che potrebbero invece essere evitati se si adottassero altri tipi di misure.
In questo senso, se da una parte si ritiene utile richiamare l’attenzione su strategie come quelle finalizzate a garantire una minima formazione educativa e professionale alle persone maggiormente esposte ai cambiamenti climatici per offrir loro la possibilità di inserirsi più facilmente nel mercato del lavoro in un Paese estero, e ribadire la necessità di adottare misure nazionali ed internazionale utili ad affrontare il cambiamento climatico e a proteggere i diritti delle persone più vulnerabili, dall’altra appare imprescindibile affermare con forza che l'allontanamento dalle aree colpite dai cambiamenti climatici, attraverso canali di migrazione sicuri e regolari, è un diritto fondamentale che può offrire ai singoli e alle comunità l'opportunità di evitare gli impatti climatici e migliorare la resilienza.
Se oggi la libertà di circolazione appare un miraggio, offrire misure per facilitare la migrazione con dignità, anche attraverso il rilascio di visti in deroga alle condizioni normalmente previste dalla normativa così come previsto, nell’ambito dell’Unione europea, dall’art. 25 del cd. Codice visti Schengen, potrebbe essere una soluzione da richiedere agli Stati di destinazione che, in molti casi, risultano essere tra i principali responsabili del cambiamento climatico.
Bibliografia
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