1. I percorsi molteplici del pensiero di Calamandrei, fra diritto e letteratura
Piero Calamandrei fu persona con un pensiero esigente e articolato, a cui le parole del diritto non bastavano. Massimo Severo Giannini ebbe addirittura a definirlo come «uomo di lettere represso dall’invadenza del sapere giuridico» (Morbidelli 2007, p. 12). Da ciò una produzione di scritti sfaccettata, aperta a una pluralità di stili, in cui il registro letterario fu sovente strumento di un dire diversamente il giuridico; fu aprirsi altri sentieri per penetrare nell’intricato rapporto fra il diritto e la vita.
Non a caso, il fulcro del pensiero giuridico di Calamandrei è la considerazione della Carta costituzionale come programma eccedente e dinamico: una rivoluzione non compiuta ma solo iniziata, come egli soleva dire; un programma da attuare e rinnovare costantemente piuttosto che un progetto realizzato, che deve mantenersi aperto alla dimensione storica del reale nella quale sono calate le esistenze. Del resto egli fu particolarmente vicino a quei giuristi e letterati che più fortemente avvertirono la frattura determinatasi con la seconda guerra mondiale, che mandò in frantumi la tranquillizzante impalcatura del positivismo giuridico di stampo ottocentesco: egli subì in particolare l’influenza di Giuseppe Capograssi e della sua lungimirante teoria sul concetto di esperienza giuridica, per la quale il diritto «è innanzitutto esperienza, niente altro che vita [...] non è norma, non è comando, non è codice di legge», bensì «una forma particolare della vita concreta, una esperienza che gli uomini costruiscono vivono soffrono, che fanno e disfanno con la loro obbedienza e con la loro disobbedienza» (Capograssi 1940, pp. 24-25).
Tutto questo si riverberò profondamente sul pensiero di Calamandrei, aprendo un contrasto mai del tutto risolto fra l’aspirazione alla moralità del diritto e la presa d’atto delle sue ambiguità, tra la convinzione che l’unica democrazia possibile sia quella fondata sulla giustizia sociale e il disincanto circa l’ineliminabile ingiustizia umana. Questo contrasto generò peraltro un’inquietudine feconda che lo portò alla ricerca di linguaggi non tecnici per destrutturare la riflessione giuridica sul rapporto fra il diritto e la vita, facendone un precursore degli argomenti e del metodo che avrebbero contraddistinto decenni più tardi gli studi di Diritto e Letteratura. Proprio questo filone, affermatosi anche in Italia dopo le origini negli Stati Uniti degli anni ’70, restituisce oggi preziose chiavi di lettura a ritroso degli scritti di quanti - come Calamandrei - si sforzarono di costruire un umanesimo giuridico che ne abbattesse i formalismi più pericolosi.
Ebbene è qui, nelle intersezioni fra eccedenza dinamica del progetto costituzionale ed esperienza giuridica, che mi pare abbia senso tornare oggi a seguire la penna di Calamandrei, perché è in questi interstizi che il giurista e la persona si sdoppiano e si interrogano. Ed ha senso farlo affacciandosi sui suoi “scritti laterali”, riguardati non come vezzo a latere della produzione giuridica bensì come parte integrante di un pensiero intero e sua chiave interpretativa ulteriore.
Non il “Calamandrei letterato” accanto al “Calamandrei giurista”, quanto piuttosto il primo come interprete autentico del secondo. In un procedere che non può che accontentarsi di cenni e frammenti, data la vastità dei suoi scritti; e che vuol sommessamente imitare quella che fu la sua stessa passione, di ricercare nei testi d’altri tempi ciò «che par sia scritto anche per noi» (Calamandrei 2016, p. 45).
2. Il rapporto fra diritto e letteratura “dall’esterno”: l’importanza della letteratura nella formazione del giurista
Calamandrei non soltanto coltivò passioni letterarie - come molti intellettuali della sua epoca -, ma si spinse in più occasioni ad esplicitare il contributo che la letteratura può offrire al diritto. Già in uno scritto del 1924, ad esempio, si chiedeva
se sarebbe utile per gli studenti di giurisprudenza una raccolta di pagine letterarie in cui il fenomeno giuridico, che in iscuola si mostra disseccato e vuoto come uno di quegli involucri di crisalidi che restano attaccati ai rami quando la farfalla se n’è volata via, si riaprisse vivo ed operante nella realtà delle vicende umane in mezzo alle quali esso si svolge, per dare ai giovani, fin dai primi anni dei loro studi universitari, la coscienza che il giurista non è un perdigiorno pesator di parole, ma un austero depositario di tutte le passioni e di tutte le umane miserie (Calamandrei 1924).
Questo tipo di postura era certamente specchio di un’epoca, e dell’esplosione letteraria che caratterizzò il dopoguerra e la fase costituente: una nuova libertà di dire e di raccontare che andava reclamando la propria funzione civile di strumento per «tenere insieme moralità e istituzioni» (Bascherini, Repetto 2016, p. 221).
Con la riproposizione di testi letterari d’altri tempi Calamandrei andava in cerca di ciò che essi avevano da dire per il tempo attuale: una ricerca che egli considerava fondamentale per chi «al di sotto dei problemi tecnici cerca una più profonda e meno contingente sostanza di umanità e civiltà», cerca di «dar senso di umanità alle aride formule delle leggi» (Calamandrei 2016, p. 45).
Ad esempio, il recupero del trattatello cinquecentesco di Francesco Sansovino, L’Avvocato e il Segretario, consente a Calamandrei di attaccare il giurista cortigiano e servo del potere. Egli dice attraverso le parole del Sansovino che «in fondo all’avvocatura ci può essere, fra i tanti imbrogli, qualcosa di santo e di eterno»; e che «per diventare buon avvocato quel che più conta non è la preparazione giuridica e procedurale ma è la cultura generale, la conoscenza approfondita delle buone lettere senza le quali io non so come l’uomo si possa dir uomo, nonché avvocato» (ivi, pp. 198 e 46).
La difesa della libertà come responsabilità, oltre che come diritto, si ritrova nel recupero del Discorso sulla servitù volontaria o Contr’uno, pamphlet politico giovanile di Étienne de La Boétie, pubblicato postumo nel 1576, nel clima delle guerre di religione in Francia. Ripubblicando questo scritto nel 1945, Calamandrei fa proprio l’interrogativo che il giovane La Boétie si poneva di fronte al delinearsi delle prime basi dello Stato assoluto: qual è il malencontre, il «malaugurato accidente» in seguito al quale l’uomo rinunciò alla propria natura, «l’esser nato propriamente per vivere libero», scegliendo invece la servitù e la rassegnazione alla sottomissione? La riproposizione del Contr’uno, dedicato a Leone Ginzburg, è un invito esplicito a riflettere sulle spiegazioni del fascismo, e di qualsiasi tirannide: salutando la sua ripubblicazione sulle pagine de “Il Ponte”, Calamandrei afferma che «Dopo vent’anni della più balorda e avvilente soggezione ad uno, che la storia d’Italia ricordi, la triste sorte ha messo oggi noi in condizione di dove rileggere il Contr’uno con l’animo di chi qualcosa ha già recuperato, ma più ancora gli spetta di recuperare della perduta libertà» (Carta 2016, p. 17).
In quella ricerca di ciò «che par sia scritto anche per noi», lo scritto di La Boétie appare all’indomani dell’esperienza del fascismo incredibilmente attuale nelle domande e nelle risposte: la tirannide dell’uno si regge tutta sul meccanismo subdolo del «dispotismo intermediario», cioè «su una piramide di miserabili tirannelli minori, ognuno dei quali, purchè gli si dia mano libera per asservir chi sta un gradino di sotto, è pronto a servir fedelmente chi sta in quello di sopra». La Boétie toccava un nervo centrale di quella che sarebbe stata la riflessione di Calamandrei durante i lavori costituenti, quella relativa alla solidarietà quale fattore emancipante che proietta le libertà dalla pericolosa dimensione egoistica a quella collettiva della comunanza di destino: «la tirannia alligna dove gli uomini non sentono che la libertà è sacrificio, senso di responsabilità, solidarietà umana, dovere politico». Le parole di La Boétie sono rilanciate da Calamandrei al suo tempo presente: «non c’è bisogno di combattere questo tiranno, di toglierlo di mezzo; egli viene meno da solo, basta che il popolo non acconsenta più a servirlo» [...]
Anche le prefazioni a testi letterari del suo presente divengono occasione cui volentieri Calamandrei si presta, quando gli consentono di affrontare in modo non tecnico temi che pur gli stanno a cuore come studioso e come giurista.
È il caso della prefazione al testo autobiografico di Marcella Olschki, Terza liceo 1939, in cui Calamandrei torna sul tema della scuola per ribadire il proprio pensiero circa l’importanza dell’istruzione quale condizione di democrazia sostanziale; ma qui lo fa a margine di una storia di vita, che immortala un frammento di scuola italiana durante il fascismo visto attraverso gli occhi di una classe di studenti, raccontato di una di loro, in seguito allieva universitaria dello stesso Calamandrei. Questo scritto acquista ai suoi occhi «il valore di un documento» grazie all’umorismo degli episodi raccontati, perché
essi testimoniano che nel 1939, anno XVIII, dopo quasi vent’anni di mortificazione delle coscienze, il “regime” non era riuscito a soffocare in quei ragazzi il senso del ridicolo di quel fascismo sotto il quale erano cresciuti: non era riuscito a convincerli che la propaganda e la disciplina fascista fosse una cosa da prendersi sul serio.
E chiedendosi, come già La Boétie, cosa poteva allora giustificare l’asservimento a quel potere, nel caso di specie «cosa aveva portato di nuovo il fascismo nella scuola», Calamandrei perviene a risposta analoga: «il conformismo incredulo e insieme servile [...] un conformismo senz’anima che cerca di mascherare sotto una ostentazione di stretta osservanza il gelo della propria sfiduciata indifferenza» (Calamandrei 2013a, pp. 15-16).
Nell’anno in cui scrisse questa prefazione, egli si domandava «se la decadenza della scuola sotto il fascismo [...] sia stata uno smarrimento temporaneo, effetto di una oppressione transitoria, o non sia stata piuttosto il sintomo rivelatore di una crisi profonda che tuttora perdura e s’aggrava» (ivi, p. 17). Vi è qui l’eco del pensiero espresso in molte occasioni: il problema della democrazia si pone innanzitutto come un problema di istruzione, e la scuola rappresenta un vero e proprio «organo costituzionale», paragonabile a uno di «quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue» (Calamandrei 2008a, p. 84-85). Corollario di questa consapevolezza è la considerazione della scuola come «completamento necessario del suffragio universale», perché - di là dal riconoscimento formale del diritto di voto - «solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali». L’istruzione democratica, quella «che ha un carattere unitario» perché è di tutti e «crea cittadini», è necessariamente l’istruzione pubblica: questa «è il prius, quella privata è il posterius. Per aversi una scuola privata buona bisogna che quella dello stato sia ottima» (ivi, pp. 87-88).
La preoccupazione che egli esprime nel descrivere la «ricetta» di chi intende coltivare le forze disgregatrici dell’istruzione pubblica, e che egli tratteggia con estrema concretezza perché «bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina», lancia moniti che arrivano intatti all’oggi.
3. Il rapporto fra diritto e letteratura “dall’interno”: quando l’autore si sdoppia e l’uomo interroga il giurista
3.1. Le fiabe e le storie
Le favole di Calamandrei, in gran parte giovanili, sono attraversate da un filo rosso che le connette strettamente: l’irrisione del potere e la messa in ridicolo della sua arroganza miope; le tattiche popolari di aggiramento del potere.
Dalla burla di cui rimane vittima lo stolto re che voleva imprigionare la Primavera a quella del re condannato a veder tutto a rovescio perché soleva affermare che «il diritto è quale lo vedono gli occhi del re anche se il re vedesse tutto a rovescio», lo sfondo è quasi sempre quello di un potere ridicolo che viene messo in scacco dalla sua stessa stoltezza. Oppure è il malinteso senso di “vittoria” quando questa è fine a se stessa e a sancire un primato di pura forza, laddove l’astuzia non è dote ma vile profittamento dell’imparità delle armi: così ne La trovata del principe Francesco, che, dopo aver ucciso con l’astuzia di un’armatura irta di rasoi il serpente vecchio e stanco, «tornò glorioso e trionfante alla reggia ove decise che colla pelle del serpente, ricucita a modino, ci si sarebbe fatto fare un bel paio di pantofole; decisione che fu giustamente lodata dagli storici come indizio di profonda saggezza politica» (Calamandrei 2006, pp. 32 e 42).
L’aneddoto e il racconto segnano il passo dell’Elogio dei giuridici scritto da un avvocato. Il filo rosso è qui, più esplicitamente, il rapporto fra giustizia e politica, fra umanesimo giuridico e formalismo legalistico. E il termine “elogio”, che egli sa bene esser poco gradito alla terminologia giuridica, non è servilismo bensì «lode con discrezione, sorridendo senza offesa e con indulgenza sulle debolezze umane»; è termine di cui occorre «conservare una certa sua sorridente e distaccata serenità letteraria e si potrebbe dire umanistica», quasi «poesia, se non paresse presunzione scomodar la poesia per queste faccende di giudici e di avvocati» (Calamandrei 1999, p. XXII).
Interessante è l’evoluzione fra la prima edizione e la terza. Se nelle prime due edizioni (1935 e 1938) prevale l’aneddotica, fra ironia e pamphlet, le “aggiunte” della terza edizione (1956) mostrano un cambio di passo che si apre al racconto più riflessivo e talvolta amaro, all’uso della storia comune e del frammento di vita per guardare in controluce al tema della giustizia. E nella carrellata di storie e frammenti tutti gli individui compaiono insieme, sulla stessa scena, quasi spogliati dei vari panni che ne fondano le distinzioni sociali, osservati e raccontati nella propria accomunabile umanità: avvocati, giudici, clienti, parti offese, parenti, ecc. Alla fine tutti sembrano comparse di un’unica vicenda corale che non è indolore per nessuno: l’applicazione del diritto e la ricerca della sua ragionevolezza, di cui il processo è solo il momento figurativo più visibile.
Qui Calamandrei mette davvero in atto ciò che diceva Capograssi parlando di esperienza giuridica, cioè guarda il diritto “dal di sotto in su”: il piccolo non è solo specchio in miniatura del grande ma ne è anche motore, ingranaggio imprescindibile, origine e insieme conseguenza, sempre chiave di lettura autentica, non aggirabile.
La preoccupazione di mantenere il diritto vicino alla vita fa guardare con struggente compassione la figura del giudice, quale uomo che deve giudicare altro uomo per le proprie stesse fragilità e debolezze, come nel caso del giovane pretore che gli confidò «lo smarrimento in cui si dibatteva ogni volta che gli toccava giudicare come magistrato reati che egli stesso, come cittadino, commetteva ogni giorno», ad esempio l’acquisto a mercato nero di viveri tesserati per sfamare il proprio bambino: «le leggi son fatte per i figli degli altri, ma la fame dei propri figliuoli, anche per il giudice, non conosce legge» (ivi, p. 230). O la figura dell’avvocato, con la sua vita di «tristezze e di eroismi», che svolge una «professione di carità» perché ha il compito di «tener compagnia a chi si trova a tu per tu col dolore», immergendosi nella comprensione del «caso» del cliente affinché diventi il «suo» caso.
Ma il sentimento si tramuta in indignazione quando giudici e avvocati si fanno portavoce della crudeltà dei formalismi e degli automatismi, come nella tristissima storia dei figli naturali di un barone latifondista che, in forte stato di povertà, alla morte del padre si decisero a chiedere l’assegno vitalizio in loro diritto; ma dopo dieci anni di causa si videro riconoscere una cifra irrisoria perché calcolata sulla base del principio nominalistico della moneta e del debito di valore anziché di valuta (cfr. ivi, pp. 181 ss.).
Da un lato l’umanità del diritto, rispetto al quale «il processo è di per sé una pena», è «lotta comune contro il dolore», e il giudice è «il diritto fatto uomo» (ivi, p. 11); e dall’altro il suo rovescio, con gli effetti distorcenti e disumani che si generano quando la certezza del diritto e l’uniformità della sua applicazione divengono fini a sé stesse anziché valori al servizio dell’uomo.
Del resto, ancora attraverso una piccola storia - quella del suo amico chimico -, Calamandrei ricorda a sé stesso la differenza fra il giurista e lo scienziato: il primo non potrà mai sperare in risposte certe, perché il diritto non può liberarsi della dimensione umana che sotterraneamente vive e si dibatte nelle coscienze di chi il diritto lo scrive e lo applica.
Ma nella lotta tra volontà e ragione, tra la volontà di difendere il volto nobile del diritto e la ragione che gli impedisce di ignorarne gli inciampi di ingiustizia, egli testardamente riafferma la prima: «la giustizia c’è, bisogna che ci sia, voglio che ci sia. Voi, giudici, dovete ascoltarmi. Lasciamo gli astri nel loro cielo; aiutiamoci tra noi, qui in terra, a raddolcire da vicino, con un po' di giustizia umana, la ingiustizia lontana e impassibile delle stelle» (ivi, pp. 15-16).
3.2. Gli scritti autobiografici
Negli scritti a carattere più marcatamente autobiografico Calamandrei coltiva un uso già moderno della memoria, in cui il “parlar di sé” non è mai fine a sé stesso ma atto che assume un «senso comune e collettivo»: scritture operate in privato per offrire «riparo dal mondo» (Scrivano 2014, p. 18) ma che tuttavia rispondono al bisogno umano di comprendere la propria relazione col mondo stesso, e che pertanto su questo riflettono e in questo si innervano.
La valenza etico-valoriale della dinamica narrativa, che si esprime nel carattere di possibile estensione universale dei suoi significati, si coniuga in Calamandrei con una chiara inclinazione al modello “testimoniale”, che sfocia a sua volta in posture di protesta e resistenza:
io scrivo tutte queste osservazioni [...] perché se questo periodo passerà prima che io muoia, e se io vedrò il tempo in cui poter fare la storia sincera di questi anni, tutti i piccoli episodi che registro potranno servire a ricostruire l’atmosfera in cui oggi soffochiamo [...] E poi e poi: scrivo tanto per protestare, tanto per far sapere a me stesso, rileggendo quello che ho scritto, che c’è almeno uno che non vuol essere complice! (Calamandrei 2015, p. 32).
Il Diario di Calamandrei è particolarmente noto, tanto da essere considerato - nonostante l’arco temporale circoscritto (1939-1945) - un «attraversamento d’epoca su di un crinale della storia, traiettoria di un paese grazie a un capitolo cruciale dell’autobiografia pubblica e privata di un io narrante d’eccezione» (Isnenghi 2015, p. V). E tuttavia si tratta dello scritto di un Calamandrei che rischia, appunto, «di essere più noto che conosciuto»: in queste pagine emerge infatti una trama minuziosa di fatti, nomi, incontri e spostamenti, nei quali Calamandrei disvela la sua disposizione ad ancorarsi ad una minuta «quotidianità messa a verbale, disinteressata a mettersi in traccia di ragioni più complesse di quelle che spesso si mettono a tema nella riflessione su di lui» (Tonnellato 2016, p. 91).
Anche qui il pensiero procede per frammenti, attraversando lo spaesamento del tempo presente; e l’uomo attiva un dialogo serrato col giurista, ponendo domande esistenziali ad una giuridicità arresa, che giace sullo sfondo, nuda e indifesa.
Uno dei passaggi più significativi nella prospettiva che qui ho scelto (affacciarsi sul pensiero giuridico di Calamandrei attraverso la finestra degli scritti laterali) è quello in cui egli racconta di un discorso tenuto due giorni prima alla Federazione Universitaria Cattolica Italiana, intitolato Fede nel diritto. Si tratta di un testo divenuto poi molto noto, pubblicato postumo con lo stesso titolo.
Nel testo ufficiale del discorso, Calamandrei parla al suo auditorio della «grande virtù civilizzatrice e educatrice del diritto, del diritto anche se inteso come pura forma indipendentemente dalla bontà del suo contenuto» (Calamandrei 2008b): ma questa apologia della legalità si sgretola nelle pagine del Diario di fronte al dilemma della legge ingiusta.
Pubblico strano: cattolici, ebrei, antifascisti, magistrati, professori. Ho detto nei limiti della più stretta legalità, cose che possono dare un certo orientamento. Era presente l’arcivescovo; e il segretario del GUF, Giglioli, che mi salutò prima, ma non dopo. Mi pare però, dal lato politico, di aver sentito intorno a me un caldo consenso. Ma siamo poi nel vero a difender la legalità? È proprio vero che per poter riprendere il cammino verso la “giustizia sociale” occorre prima ricostruire lo strumento della legalità e della libertà? Siamo noi i precursori dell’avvenire, o siamo i conservatori di un passato in dissoluzione? (Calamandrei 2015, p. 149).
Il titolo che egli infine aveva scelto (scartando “Esame di coscienza di un giurista” e “La certezza del diritto”) doveva indicare un atto di fede nel «tranquillante manto della giuridicità», in quanto separata dalla politica. Ma si trattava di un atto di fede che conteneva in sé anche la propria contraddizione. Calamandrei ammetteva infatti subito dopo che «l’apparenza delle leggi scritte» non può essere l’unico orizzonte del giurista: egli può e deve permettersi «quel tanto di politica» necessaria affinché il diritto mantenga i contatti con la storia «attraverso quei varchi che le leggi volutamente lasciano all’apprezzamento, al potere discrezionale, all’equità del giudice, cioè a quella sola politica che i giudici e in generale i giuristi si possono permettere senza tradire la loro missione».
Quello che nel testo ufficiale appare come inciampo contraddittorio, nel Diario si colora di sfumature più articolate e diventa testimonianza del «travaglio che avrebbe portato a ben altri sbocchi» (Zagrebelsky 2008, p. 20). Con l’esperienza costituente e l’apertura ai valori della Resistenza, il pensiero sulla legalità si arricchirà della dimensione sostanziale del diritto e si aprirà a un concetto di “legalità costituzionale” che egli aggancerà saldamente ai «fini di giustizia sociale, dai quali la libertà individuale non può scompagnarsi senza rimanere una vuota parola» (Calamandrei 2008b).
Non è un caso che Calamandrei non avesse pubblicato questo testo, spiegando in una lettera all’amico filosofo Guido Calogero che lo avrebbe forse trasformato in un dialogo con lui: una forma che di certo gli avrebbe consentito un argomentare diverso da quello che aveva dovuto imbracciare in quella sala affollata, aperto al dubbio, alle domande che non trovano risposte, forse anche ai ripensamenti.
Non è casuale neanche la comparsa, negli scritti di quegli stessi anni, del riferimento alle leggi di Antigone, a quelle «”leggi dell’umanità” che furono fino a ieri una frase di stile relegata nei preamboli delle convenzioni internazionali», e che ora sembravano prender corpo «nella funebre aula» del processo di Norimberga. Quelle leggi, così diverse dalle norme generali e astratte dello Stato cui pure egli aveva guardato con fiducia, appaiono ora come espressione di valori superiori e più solidi cui anche lo Stato deve sottomettersi: «l’“umanità”, da vaga espressione retorica, ha dato segno di voler diventare un ordinamento giuridico» (Calamandrei 1946, p. 934).
Sono questi i valori che egli richiamerà dieci anni dopo, poco prima di morire, nella nota difesa di Danilo Dolci, attraverso il riferimento alle leggi di Antigone quale insieme dei valori che devono alimentare le leggi per mantenerle materia viva, e lasciar entrare in esse «il pensiero del nostro tempo, l’aria che respiriamo, i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue, il nostro pianto. Altrimenti, le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei» (Calamandrei 1956, p. 536).
In realtà, negli scritti laterali questo tipo di sentire è presente fin da quelli più giovanili, e poi più esplicitamente in quelli autobiografici: è visibile in controluce nel suo rivolgersi alla natura non in chiave estetica bensì proprio nel suo incarnare le “leggi dell’umanità”.
Talvolta sembra trattarsi di tregue che Calamandrei si concede dall’ansia del registrare la stremata quotidianità della guerra.
Questa impassibilità della natura, del mare, degli uccelli. Vanno per conto loro: cantano sulle sciagure umane che sono su un’altra dimensione. Si accorgono di questi aeroplani che rigano il loro cielo? Questa calma, che parrebbe fatta per dare conforto e coraggio, è fatta apposta per isolare, per mettere a nudo, come carne viva, il dolore. Qui si sente tutta la sconsolata impotenza di questo nostro dolore: questa assoluta balìa del destino in cui ci troviamo (Calamandrei 2015, p. 134).
Altre volte prevale il ricordo nostalgico dei luoghi dell’infanzia, come nell’Inventario della casa di campagna, ove tuttavia l’osservazione della natura e delle sue leggi è continua occasione di riflessione sui limiti di quelle umane e sulle miopi logiche del potere quando questo si allontana dai valori fondamentali dell’esistenza.
Si pensi al godibile capitolo in cui egli riflette sulla «società delle cicale» e le ragioni della «stabilità raggiunta dai loro pubblici ordinamenti», che consente a «questi cittadini» di
dedicare al canto tutta la loro breve vita, senza distrarsi nelle rivoluzioni. Il governo della loro società ha per essi la stessa necessità delle leggi fisiologiche: come a nessuno di noi verrebbe in mente di fare una congiura contro la tirannia del cuore che ci impone il suo ritmo, così non accade che in mezzo al popolo delle cicale sorga un apostolo a predicar come ideale di vita la silenziosa disciplina del formicaio (Calamandrei 2013b, pp. 198ss.).
O si pensi al ricordo del grosso diario rilegato in pergamena, ritrovato nello studio del nonno a Montepulciano, «sul quale un nobile abitatore di quel palazzo, negli anni tra il 1785 e i primi dell’800, segnò giorno per giorno le vicende della stagione» ma anche eventi eccezionali, additati da una manina coll’indice teso disegnata a inchiostro sul margine esterno della pagina: la penna ironica di Calamandrei si diverte a suscitare lo stupore del lettore riportando i motivi di quella eccezionalità, ben diversi da quelli che la data “storica” lascerebbe supporre.
“Anno del Signore 1786 – 1° gennaio... neve [...] 1789 – 28 agosto... grosso temporale [...] 1790 – 26 marzo... cominciano a fiorire gli alberi da frutto...”. Poi venne il 1793, l’anno dei patiboli più grandi, quando, a sentir gli storici, incalzavano al galoppo sugli orizzonti degli uomini gli uragani del terrore. Anche questo diario registra infatti straordinari eventi in quell’anno: alla data del 18 ottobre 1793 (attenzione! Dice la manina) si legge: “bel tempo: eccezionale nascita di funghi”. Questi erano, secondo l’onesto annotatore, gli eventi che contavano in quegli anni: e par di sentirlo commentare: -Esiste proprio una regola fissa per stabilire quali sono nel mondo gli eventi che veramente importano? E davvero credete che la storia delle guerre e dei patiboli meriti più considerazione di quella delle nuvole e delle semente? Passano i re e crollano gli imperi; ma i fiori e i funghi e gli uccelli, come se nulla fosse cambiato, tornano sempre al loro tempo. Questa mia storia è dunque più consolante della vostra: perché vi racconta che esistono leggi le quali non mutano col mutar dei regimi. Ad ogni volger di stagione si riaffacciano in cima ai rami gli occhi virginei delle gemme, guardano intorno a sé il mondo devastato dalle guerre degli uomini, e dicono con un fresco sorriso: niente di nuovo! - (ivi, pp. 252-255).
Lo stesso tipo di sguardo, mai strettamente individuale ma sempre coinvolto dal sentimento di una comunanza di destino, è nei brevi racconti autobiografici: più aulici quelli giovanili, ove prevale il senso di un’ironica tenzone fra uomo e natura, in cui le leggi di questa puntualmente smascherano e sbeffeggiano i limiti e le pochezze delle leggi umane; più cupi quelli del periodo di allontanamento durante le persecuzioni fasciste, dove la natura sembra condividere la durezza del destino degli umani. Ad esempio il racconto sui Tormenti dei pini, con la descrizione minuziosa e raccapricciante del procedimento cui essi sono sottoposti per estrarne la resina.
Son due anni, mi dice il boscaiolo, che questo “lavoro” è stato portato di fuori. Prima non c’era, è stata la guerra: pare che con questa ragia ci facciano qualcosa che serve alla guerra, bombe, esplosivi, non so... E poi, guardando anche lui i pini alla tortura: “Anche loro, come noi: gli prendono il sangue a goccia a goccia”. Ora questo bosco che mi pareva asilo e rifugio, mi appare come un popolo di creature torturate: anche loro come noi vivi e doloranti con questa grande ferita che mette a nudo la carne, con questa incisione tatuata nella carne: e il sangue che stilla giorno dopo giorno, ora per ora, con accorgimenti perché venga fuori tutto, ma il pino non muoia e resti vivo languente per ricominciare un altr’anno (Calamandrei 2008c, p. 166).
3.3. Gli epistolari
Fra i molti dialoghi epistolari di cui Calamandrei fu autore, un cenno meritano qui quelli familiari, tanto più in ragione del peculiare tornante storico in cui presero forma. La letteratura sui rapporti familiari (in particolare padri-figli) che ha trovato spazio nella storia italiana della prima metà del Novecento, intersecandone le esperienze istituzionali e costituzionali, è infatti lente di ingrandimento di un «irrisolto intergenerazionale» che riporta l’attenzione su un elemento centrale: la difficoltà di gestire il rinnovamento e di fare i conti col passato (Bascherini 2022, p. 137).
Una famiglia in guerra, che raccoglie le lettere tra Piero e Franco Calamandrei scritte fra il 1939 e il 1956, è certamente fra questi: una vicenda privata ma anche profondamente politica. Di fatto «un dossier storiografico», da cui emergono fonti peculiari perché forniscono non solo informazioni ma anche chiavi per interpretarle; ma anche, a suo modo, uno dei tanti scritti sulla Resistenza, però scritto «dal basso e dal dentro», laddove raccontare è chiarire a sé stessi la vita (Casellato 2008, pp. XII ss.). Emerge qui quella dimensione della Resistenza come “questione privata” che altri indagarono in romanzi fortunati (Ginzburg, Fenoglio), e che in questo caso vede non solo l’uomo ma anche il giurista alla ricerca di coerenza e compromessi con i propri riferimenti valoriali.
Uno dei contributi più significativi di queste lettere è il chiarimento ulteriore della latitudine e dei percorsi del travaglio coincidente con gli ultimi anni della guerra. La legalità fu punta di un’iceberg che affondava la propria base più ampia, meno visibile e forse anche meno nobile perché intrisa di umane contraddizioni, nella iniziale incomprensione delle modalità della lotta partigiana (e quindi delle scelte di Franco), in contrasto con la propria precedente lotta per la legalità: «quell’antifascismo crociano e attendista tipico di tanti intellettuali borghesi dell’epoca», come lo definisce Franco, che reclama un’idea di resistenza come immersione nella vita – pur anche violenta -, quella vita che la resistenza stessa intendeva recuperare alla libertà (P. e F. Calamandrei 2008, p. 203). Un contrasto che Piero Calamandrei pur soffrì profondamente, come si evince dalle pagine in cui descrive il senso di impotenza e di «asma psichica» nelle dimore-rifugio di Poveromo in Toscana e Colcello in Umbria.
Solo dopo il confronto costituente, che legittima e consente l’irrompere dei diritti sociali nel discorso pubblico traghettando la legalità verso valori più alti che rimettono al centro la dignità dell’esistenza, può cominciare per Calamandrei la ricucitura pacificante che ne farà uno dei più strenui cantori dell’eredità della Resistenza, quale patrimonio da continuare a difendere contro le forme di «desistenza».
Anche gli scritti autobiografici di Franco Calamandrei contribuiscono a comprendere in controluce, oltre alla figura complessiva del padre, il senso del loro scrivere. Di là dal modo in parte diverso di intendere la funzione civile della letteratura, ciò che essi ebbero in comune può ben considerarsi sintetizzato dalle parole di Franco: «il senso del farsi della Storia come continua trama di biografie individuali e di eventi collettivi, un incessante svolgersi del passato nel presente, dove il passato sopravvive sempre tutto nel presente per il bene e per il male, e il presente dunque - ecco il punto - rimane indecifrabile se non si è decifrato il passato» (Casellato 2008, p. LXXVIII).
4. Il “senso costituzionale” della letteratura e la matrice resistenziale della scrittura autobiografica
Attraverso il suo scrivere così prolifico e variegato, Calamandrei non soltanto allenò lo sguardo all’osservazione della realtà ma sferrò un duplice attacco al formalismo giuridico: dal di fuori e dal di dentro.
L’attacco dall’esterno riconduce a una questione di metodo. Gli scritti laterali di Calamandrei offrono ennesima conferma di come il riferimento alla letteratura sia per il giurista occasione per ampliare la conoscenza delle forze che muovono la realtà, che ne determinano certi sviluppi, che premono sugli equilibri instabili tra il diritto e la vita.
Nei suoi suggerimenti di introdurre raccolte letterarie nelle facoltà di giurisprudenza, Calamandrei anticipò l’opportunità di un accostamento fra diritto e letteratura che già aspirava a farsi metodo: un modo di accostarsi al diritto in cui il fenomeno giuridico potesse vedersi «vivo ed operante nella realtà delle vicende umane in mezzo alle quali esso si svolge». Come si sa, questo suggerimento lungimirante è oggi realtà, con l’istituzione dei numerosi insegnamenti di Diritto e Letteratura.
E tuttavia Calamandrei non si limitò ad attingere dai testi letterari argomenti e rappresentazioni della realtà, ma assunse lo strumento della narrazione fin dentro le maglie della riflessione stessa, assumendolo come parte integrante del suo comprendere e argomentare. Mettendo in atto quella unitarietà dell’esperienza giuridica di cui parlava Capograssi, quale insieme di struttura e contenuto che può essere conosciuto solo nella sua integrità, Calamandrei suggerì di fatto un metodo: un particolare tipo di postura e di strumenti di riflessione che disegnano un modo del giurista di stare nella realtà e nel diritto, nella propria storia e in quella collettiva. Un metodo che mostra di estendersi oltre il piano formale dell’esposizione, per coinvolgere in profondità il modo stesso del pensare, del comprendere la realtà, di attribuirle significati, di tradurli giuridicamente. Un metodo in cui la grammatica emotiva integra il ragionamento pubblico: «quando il giurista è un uomo», egli non può non «acquistare, quasi in una perpetua confessione, esperienza di sé» (Satta 2004, p. 36).
Anche quando Calamandrei utilizza il racconto delle piccole storie anonime per lasciar emergere il contrasto sofferto fra l’uomo privato e l’uomo pubblico, non solo disegna un ponte fra la teoria capograssiana dell’esperienza giuridica e gli studi contemporanei di Diritto e Letteratura, ma più in generale anticipa alcuni profili peculiari che si sarebbero sviluppati negli anni a venire rispetto all’uso delle storie. Gli esempi sono ormai numerosi (a partire da Rocco Scotellaro e Danilo Dolci). Ma si pensi per tutti, richiamando un ambito apparentemente fra i più distanti da quello giuridico, agli scritti di Oliver Sacks, che fece delle storie dei propri pazienti un modo di raccontare i meandri meno conosciuti delle malattie neurologiche, avvicinandoli e umanizzandoli. Nei racconti di Sacks, il paziente invisibile la cui mente ha traslocato altrove diventa protagonista di un’altra storia, di una nuova cittadinanza abitabile, capace di esserci nonostante tutto: un po' come i sudditi maltrattati delle fiabe di Calamandrei, che una natura imprevedibile e complice puntualmente riscatta; o le anime che si aggirano nelle aule dei tribunali in cerca dei sempre parziali risarcimenti della giustizia umana.
A fronte di quanti continuano a ravvisare nell’apertura alla dimensione narrativa una pericolosa evasione dalla razionalità del discorso giuridico, gli scritti laterali di Calamandrei dimostrano che l’esperienza giuridica intesa anche come esperienza di sé mette a disposizione del giurista un serbatoio prezioso, da cui attingere «per riflettere sui problemi umani e sociali che sono alla base delle valutazioni operate dal legislatore e dalla giurisprudenza del nostro tempo» (Cervati 2006, p. 19).
Il racconto del vissuto diventa una «forma di attualizzazione dell’esistenza» che si fa a sua volta «orizzonte di verifica»: un «discorso di verità» che non ha a che fare con lo scavo interiore fine a se stesso (Castorina 2013, p. 177), ma è piuttosto espressione di quella eccedenza dinamica del vivere che Calamandrei aveva saputo vedere riflessa nel programma costituzionale. Il racconto dei vissuti contestualizza gli eventi per ricercarne le radici e costruire anticorpi.
È qui, in questo orizzonte di verifica in cui la narrazione conduce il diritto, che il linguaggio di effettività dell’esistenza pone le domande più esigenti. E l’attacco al formalismo giuridico si trasferisce al suo interno. Le domande che le vite lanciano al diritto si rivelano canti all’unisono dei temi della dignità, della giustizia, dell’eguaglianza, della solidarietà; e dimostrano come i temi dell’esistenza siano fisiologicamente connessi alle vicende del costituzionalismo, in un circolo virtuoso fra i vissuti e i valori della democrazia sociale che restituisce costantemente attualità al racconto costituzionale. Guardando al diritto “dal di sotto in su” si inverte la relazione fra l’individuo e i fatti che si oppongono al diritto, confermando che l’individuo è «veicolo determinante del fatto giuridico e costituzionalmente rilevante» (Cortese 2022, p. 102).
È questo l’umanesimo giuridico che fu caro a Calamandrei: quella dimensione in cui il diritto può recuperare il «proprio carattere strumentale, al di là del quale il giurista non può più ignorare la realtà sociale che preme e travalica attraverso le maglie delle formule legali. La scienza pura del diritto, di cui Kelsen è stato il grande profeta, non è più sugli altari». Al contrario, il giurista deve aprirsi alla vocazione di reciprocità solidaristica del diritto, in quanto fondato su un patto di «correlazione reciproca» (Calamandrei 2008b, pp. 182 e 104), che non si esaurisce nella difesa dei tradizionali diritti civili e politici contro l’arbitrio del potere ma si fa strumento emancipante di giustizia sociale.
Si può ben dire che la letteratura di Calamandrei assume un vero e proprio «senso costituzionale» (Mastropaolo 2022, p. 203) non tanto e non solo per la coincidenza del momento storico e il suo ruolo nei lavori costituenti, quanto per il tipo di sguardo che essa rivolge alla “transizione” nel suo arco più ampio e complesso, che connette trasformazioni formali e mutamenti sostanziali, scelte politiche e scelte esistenziali, alla luce dell’unica domanda sensata: «da dove si viene e dove si deve andare» (Cortese 2022, p. 100).
Il fatto, poi, che Calamandrei sia stato anche tra coloro che la Costituzione la scrissero difendendone la matrice resistenziale, rileva ulteriormente sul piano qualitativo del rapporto fra il suo diritto e la sua letteratura, perché esprime la tensione costante verso i valori di dignità, libertà, uguaglianza e limitazione del potere che il costituzionalismo era tornato a difendere con la Resistenza antifascista. Nella narrazione che predilige il registro biografico e autobiografico come modo di riflessione giuridica può ravvisarsi una tensione resistenziale che si distende ben al di là del contesto storico della lotta partigiana, e diventa elemento strutturale: una calligrafia democratica che mette a nudo il sistema dal di dentro, che rimette in gioco criticamente il ruolo del giurista nella lotta per la democrazia sociale, che non teme il dialogo del diritto con la confusione turbolenta della vita, delle storie inudite dei più deboli.
È grazie a questo arricchimento proveniente dagli scritti laterali che il pensiero di Calamandrei offre oggi indicazioni non solo ancora attuali, ma addirittura innovative sull’interrogativo di fondo che ieri come oggi attanaglia il costituzionalismo: come mantenere in connessione le politiche di governo delle vite e i bisogni reali delle persone situate, le dinamiche del potere con quelle dell’esistenza? Ha ancora un senso interrogarsi sull’origine resistenziale della Costituzione? Quanto a lungo nel tempo può distendersi il manto chiarificatore di un imprinting valoriale?
Il peculiare angolo visuale della letteratura rivela il persistere di una tensione spesso misconosciuta dalle narrazioni ufficiali, svelando come i temi e i valori di carattere resistenziale continuino a rivendicare un proprio spazio tanto nelle vicende esistenziali quanto in quelle dell’attuazione costituzionale.
Ecco, si potrebbe dire che Calamandrei ha raccolto l’invito del Sansovino, e ha portato «la narrazione al suo proprio luogo»: quello del rapporto fra la giuridicità e la vita nei suoi andirivieni fra passato e presente, fra esistenze individuali e Storia collettiva.
Negli scritti laterali Calamandrei ha dato voce ad una letteratura dei bilanci sempre aperti e della «decostruzione permanente»: una letteratura che lascia emergere «l’insoddisfazione di un’esigente e ostinata soggettività individuale» (Cortese 2022, 106), che tuttavia non si chiude in chiave autoreferenziale ma assume la narrazione come reagente continuo e necessario delle condizioni di salute della democrazia.
Addentrarsi in questi percorsi apre a forme di ascolto della realtà di cui la riflessione giuridica ha drammaticamente bisogno, oggi come ieri; disvela i punti di snodo di un presente in eterna costruzione, come il Ponte che Calamandrei volle a simboleggiare la sua rivista, da lasciare perennemente accessibile fra un passato che non cessa mai di dire e un futuro che ha costante bisogno di imparare.
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