Introduzione
Ho intervistato Toti Scialoja nell’estate 1992, in vista di un articolo che apparve nella terza pagina del quotidiano genovese “Il Secolo XIX” il 21 agosto di quell’anno. A distanza di qualche tempo mi è capitato di riascoltare la registrazione di quell’incontro e sono rimasto colpito dalla fluidità dell’eloquio di Scialoja, dalla chiarezza del suo pensiero, doti che facevano di lui un insegnante particolarmente apprezzato dalla schiera dei suoi allievi. Anche in considerazione di ciò, a distanza di dieci anni dalla sua scomparsa (Toti Scialoja era nato nel 1914 a Roma, dove morì il 1 marzo 1998), mentre la Galleria “Il Segno” di Roma lo ha ricordato con una mostra omaggio di amici e allievi, mi è parso opportuno ridare a lui la parola, riproponendo il testo integrale di quella conversazione.
Scialoja mi ricevette nel suo studio all’ultimo piano di un antico palazzo di Piazza Mattei, nel centro storico di Roma: due stanzoni ampi e luminosi, dall’impiantito in legno, su cui il suo assistente stendeva le grandi tele, pronte per essere dipinte (l’anno prima la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma aveva allestito una grande mostra antologica della sua opera di artista dal 1940 al 1991). L’ingresso, attraverso il quale si accedeva allo studio del pittore (ma Scialoja è stato anche non occasionale scenografo di teatro), era tappezzato di libri e rimandava all’altra dimensione creativa di Scialoja, scrittore di libri, compositore di nonsense («Entrai nel Duomo:/ritto su un uovo/vidi il daemonium/danzare al suono/di un vecchio armonium/senza le calze/la polca e il valzer»). A differenza di Edward Lear, anche lui pittore e scrittore, che li scriveva per i nipotini del conte di Derby, Scialoja prese a scrivere nonsense per il proprio nipote James, nel 1961, quando si trovava a Parigi. Al loro arrivo a Roma quei versi, accompagnati da disegnini illustrativi, erano letti a parenti e amici e una sera capitarono in mano a Emanuela Bompiani, che decise di pubblicarli. Nacque così Amato topino caro, che Calvino salutò come «il primo vero esempio italiano di un divertimento poetico congeniale alla straordinaria tradizione inglese del nonsense e del limerick».
Sarebbe interessante parlare del suo rapporto con la scrittura, che mi sembra sia stato originariamente un rapporto con la poesia. L’attività di pittore infatti è subentrata ad una crisi creativa del poeta. Mi piacerebbe approfondisse questo rapporto con la scrittura inteso anche come teoria d’arte. Evidentemente c’è una consuetudine, una familiarità con la scrittura sia a livello teorico sia a livello di attività poetica, e si tratta di un’attività che corre parallela all’attività di pittore. Sarebbe interessante anche puntare l’attenzione su questo curioso fatto, e cioè che non c’è una tradizione italiana, come dice Calvino, di quel fenomeno appartenente completamente alla tradizione anglosassone, che sono i nonsense.
L’attività corre parallela nel senso che non ho mai smesso di scrivere, anche se ho smesso di scrivere poesie. Il tutto nacque da una delusione profonda. Oggi fa sorridere, ma allora i miei vent’anni erano degli “strani” vent’anni, come se ne avessi avuti quattordici perché non possedevo nessuna formazione su un piano etico o di pensiero o di esperienza umana. Ero proprio un ragazzino, non ero maturato con rapidità. Questo poi mi è giovato nella vita perché sono rimasto un po’ più giovane di quanto gli anni non dovessero farmi apparire. C’è stata una vera e propria lentezza nella mia maturazione, che dipendeva da tanti fattori, ambientali, di formazione mia personale, ormonica. C’era nel mio carattere una volontà di restare ancorato all’infanzia, di rimanere nel gioco, cosa che apparteneva proprio alla mia natura e che era alimentata anche dalla ripugnanza che avevo per il mondo che mi circondava, per tutta l’Italia di allora che era tutta fascista. Io ero profondamente antifascista, moralmente antifascista. Mi ero formato sul pensiero idealistico di Croce come tutti i ragazzini un po’ intellettuali di quel momento. Avevo il culto per la libertà e, di conseguenza, una assoluta ripugnanza fisica per le mostruose violenze, per la spettacolarità spettrale assurda, per la bestialità dei discorsi di Mussolini, per le azioni nefande, per le turpitudini grottesche come l’abolizione del lei e l’obbligo di darsi del voi; cose assurde, paradossali nella loro abiezione e nella loro stupidità. Da questa ripugnanza, scaturisce questa volontà di assentarmi, di isolarmi. E dove potevo isolarmi se non nella mia estrema giovinezza, nella mia infanzia, nel culto per la poesia infantile? C’è stato quindi un ritardo dovuto anche al fatto che avevo respinto il mondo sociale che mi circondava. Ero fragile interiormente e al tempo stesso appassionato -un bambino appassionato di un suo caro giocattolo. Amavo allora follemente il simbolismo francese, amavo follemente Mallarmé e Valery. Scrivevo una poesia molto raffinata ma evidentemente priva di quella sedimentazione che nasce dall’esperienza, dalla vera esperienza umana. C’era un elemento di letteratura in più rispetto a quello che ci deve essere nella vera poesia. Ed infatti ero insoddisfatto, scontento, tormentato: non finivo mai le mie poesie, non riuscivo mai a concludere, le modificavo sempre, apportavo variazioni continue.
Mi ricordo però che un’estate lavorai con molta intensità. Avevo esattamente vent’anni -era il ’35- e scrissi cinque, sei poesie a cui finalmente potevo credere. Le feci leggere a un poeta amico, molto più maturo di me, e lui mi disse che era tutto da buttar via. Oggi questa frase mi farebbe sorridere. Le soluzioni potevano essere due: o buttare via tutto, quindi credere alle sue parole e ricominciare da capo, oppure non buttare niente e non credere a quello che mi aveva detto. Fui colpito da questa critica negativa, così radicale. Decisi che non ero un poeta, che non potevo esserlo perché per essere un poeta bisogna essere un uomo e io non ero un uomo. D’altra parte pensai che non potevo abbandonare l’arte: ero nato per fare dell’arte e sarei morto se non avessi fatto l’unica cosa che amavo. Mi venne in mente che da ragazzino dipingevo ed ero anche abbastanza bravo. Per tanti anni poi avevo interrotto ma realizzavo le caricature dei miei compagni di scuola, riempivo quaderni di disegni, molto eleganti, molto spiritosi; avevo un bel tratto, avevo una certa inclinazione per la pittura. Così, dato che avevo “perso” la poesia, mi misi a fare il pittore. Pensavo di poterlo fare perché credevo ingenuamente che la pittura fosse meno pensata della poesia, che ci volesse meno esperienza umana. Pensavo che la pittura fosse un’arte più istintuale, più diretta, più sensuale, più immediata. Pensavo che il quadro sarebbe venuto fuori spontaneamente abbandonandosi al gusto.
E invece la pittura, come la poesia, è un fatto di esperienza umana, di pensiero. Nonostante tutto, mi sembrava più facile e così cominciai a dipingere. Smisi con la poesia e la trasformai in una cosa quasi sacra, che non poteva essere più toccata perché mi era negata. Seguitavo comunque a scrivere. Dopo la Liberazione in Italia diventai il direttore artistico di “Mercurio”, la prima rivista libera uscita dopo la Liberazione di Roma; là fui subito accolto perché avevo una bella penna e tutti allora apprezzavano molto il mio modo di scrivere: era un modo un po’ fantasioso, un po’ letterario, una prosa un po’ alla Bruno Barilli. In seguito divenni anche direttore artistico dell’“Immagine”, una rivista diretta da Cesare Brandi, dove scrivevano Giovanni Macchia e Giuseppe Raimondi di Bologna, uno scrittore oggi dimenticato. Ho quindi continuato la mia attività di scrittore.
Dopo molti anni, parlo ormai del ’61, andai a vivere a Parigi, dove avevo uno studio per lavorare, e lì ho vissuto per quattro anni. A Roma avevo un nipotino, a cui mandavo delle poesie, divertite e nonsensiche. Erano le poesie che io avevo amato da bambino. Nell’Enciclopedia dei ragazzi c’era una parte per i più piccini, in cui c’erano queste poesie di Lear e di Carroll, tradotte molto bene in italiano, con le illustrazioni; mi incantavano. Adoravo i versetti astratti, assurdi, gelidi e allegri, molto vitali, di quelle poesie inglesi. Perciò mi era rimasto questo amore per i nonsense. Amore che ho poi trasferito a questo nipotino, a cui mandavo delle poesie nonsensiche. Queste poesie si fondavano sulla parola italiana, che mi piaceva molto sillabare, sentire nel peso che ha la parola rispetto a quella francese. Io parlavo in francese, pensavo in francese, sognavo in francese, cominciavo a fare fatica a parlare in italiano addirittura con gli italiani che mi venivano a trovare. Quindi ero immerso nella lingua francese, nel fluire di questa lingua. Mi piaceva invece sentire sulle labbra questi ciottoli che sono le parole della lingua italiana. E mandavo queste poesie, disegnando vicino il pupazzetto. Se parlavo di una zanzara, facevo la zanzara, buffa. Se parlavo di un ippopotamo, c’era un ippopotamo, e così via. Erano disegni fatti perché piacessero al bambino, non certo dei disegni perché avessero delle pretese stilistiche proprie.
Queste poesie avevano un gran successo presso il nipotino di sei anni, presso sua madre, presso mia moglie che era rimasta a Roma e presso gli amici. Andavano letteralmente a ruba. Quando tornai a Roma definitivamente, avevo altre due nipotine. Pensai così di fare un libro e lo realizzai includendo tutte le poesie e tutti i disegni, tutti quanti scritti a mano da me, per lasciare loro questo ricordo. Era un libro molto carino che naturalmente subito passò di mano in mano, come al solito. Passando di mano in mano capitò una sera a casa mia in mano a Emanuela Bompiani, che dirigeva allora una collana di poesie per l’infanzia. Da qui è nato un forte apprezzamento di queste poesie non solo perché erano divertenti, infantili, ma anche perché avevano dei meriti linguistici al loro interno. C’era il gusto della parola, dell’allitterazione, della sillabazione allitterativa. Mi ricordo che entusiasmarono -con mia grande meraviglia, perché tutto pensavo meno di essere un poeta sul serio- il povero Antonio Porta, che le citò in un convegno internazionale di letteratura che si tenne ad Orvieto nel 1957. Mi propose come il miglior poeta italiano, anche in modo paradossale naturalmente, dicendo che la poesia è suono, è sonorità, è canto e quindi questo poeta suona più di tutti, ha il gusto della parola più di tutti, in modo esplicito, in modo clamoroso. Il primo ad essere stupefatto ero io. Mi ricordo che subito venne a trovarmi Balestrini e mi disse che se avessi avuto delle poesie nuove, me le avrebbe pubblicate. Ne avevo alcune ed erano un po’ meno infantili: c’era un’acidità maggiore, un’intelligenza un po’ crudele. Così nacque questo libro che si chiamava La stanza la stizza l’astuzia. Avevo già avuto delle rilevanti soddisfazioni; Calvino mi aveva scritto una lettera dicendo che amava molto le mie poesie, che sua figlia se ne era incantata e che le aveva imparate a memoria. Mi chiedeva anche se avevo un nuovo libro da pubblicare. Glielo mandai e così usci presso Einaudi con prefazione e quarta di copertina di Calvino.
La poesia mi ha dato sempre grandi soddisfazioni, mentre la pittura mi ha sempre creato degli ostacoli terribili. Ho lottato controcorrente, contro le mode, nella solitudine più spaventosa, nell’abbandono. Avevo intorno a me tanto disprezzo e un certo spregio. C’era il partito dello “Scialoja no” in pittura, mentre nel campo della poesia ho sempre ricevuto una grande accoglienza.
Potremmo quindi dire che si è assistito ad un rovesciamento della situazione.
Naturalmente -non dico spinto, ma certamente favorito da questa ammirazione- mi sono sempre più sentito a casa mia nella poesia. Pian piano sono scomparsi gli animaletti e sono apparsi dei paesaggi, dentro i quali io potevo entrare e dentro i quali il mio sentimento umano, la mia totalità poteva espandersi. Nel ’79 cominciai a scrivere delle poesie, raccolte in Paesaggi senza peso, che sono già poesie non più per l’infanzia. E sono andato avanti così. Un rapporto tra pittura e poesia sicuramente c’è perché sono io che tanto dipingo e tanto scrivo e quindi pongo in entrambe il mio gusto, il mio modo di essere. Certamente la pittura è servita alla poesia perché mi faceva muovere dentro uno spazio da inventare e mettere a fuoco, uno spazio astratto. La poesia non può essere astratta perché la parola è sempre indicativa di un oggetto, ha sempre un significato e un referente; c’è però una percezione della forma della parola, come un grumo di sillabe, che può essere sentita nel suo peso formale, nel suo valore formale puro, archittetonico-pittorico. La parola si utilizza sempre come un’entità a sé, come il colore di un quadro, come una pennellata cromatica su una superficie. Si fonda sul suo essere forma, sul suo valere come forma in sé. È chiaro che poi essa ha anche un significato; ma esso riguarda anche ciò che appartiene al sentimento e a questa dimensione si perviene in seconda istanza, come ad una scoperta. Non è che io ho una cosa nel cuore e cerco la parola per esprimerla. È al contrario la parola che emerge, carica di simbolo, di peso, di un rapporto che intrattiene con il mio intimo proprio in quanto parola; solo successivamente scopro che in realtà ha anche un altro messaggio, che io porto a me stesso. È un messaggio di me a me stesso. Intanto però la parola si è già formata, si è riunita con una forma. In questo senso certamente la mia pratica di pittore è servita alla poesia.
Ci sono infatti delle poesie in cui si scorge il gusto dell’allitterazione, della parola che diventa sonorità pura. Le parole hanno un grado di incandescenza tale da essere paragonabili alle pennellate nella pittura.
Penso che tutta la parola della poesia sia così. Si pensi a Dante: «Quale ne’ plenilunii sereni trivia ride tra le ninfe etterne». Ogni sillaba dantesca ha questo suono straordinario. Il valore della poesia non è dato tanto da ciò che racconta e descrive, ma dalle parole che utilizza per farlo. Se non ci fossero quelle parole, non sarebbe la poesia di Dante. La poesia, secondo me, vale sempre per questo motivo. È ovvio, la poesia è canto e quindi nel canto vale la sonorità della sillaba perché la parola è fatta di sillabe. Ogni sillaba si esprime con un soffio di voce. Tutta la poesia è così, se no non è poesia, è versificazione, è un’altra cosa. La versificazione è mettere della prosa nelle condizioni di essere memorizzata, ritmata, ritmizzata. Il ritmo e la prosa sono due cose diverse. Io li distinguo nettamente, sbagliando dal punto di vista di estetica pura.
Come sue frequentazioni poetiche, mi faceva venire in mente Sergio Tofano, Bonaventura, il cui teatro è tutto in versi. Penso a questo gusto che aveva Tofano per la parola: ad esempio “Bassotto è nato per l'esigenza di una rima in otto”, una frase completamente astratta. Tofano dice che quando cominciò a scrivere per il teatro queste filastrocche, andava per la strada in tram e traeva ispirazione dalle insegne delle vetrine, raccogliendo tutte le parole che riusciva a vedere e mettendole in rima. Mi incuriosiva sapere se c’era stato tra di voi qualche punto di contatto.
Certamente c’è stato un contatto perché io ero un lettore accanito del “Corriere dei Piccoli”. Ricordo la gioia legata alla domenica in cui arrivava il “Corriere dei piccoli”. Adoravo le poesiole: «Fortunello mesto dice: “sono un povero infelice. Cari amici, arrivederci parto con il treno merci”». Questa è una cosa che mi è entrata nel sangue. E come adoravo quelle poesie, quei versetti graziosissimi fatti da Rubino e anche da Tofano, adoravo anche le immagini e i disegni. Rubino mi ha fatto sognare. Un suo disegno era un incantesimo assoluto: i disegni di Capitan Cocoricò, con le palme, le lontane isole del Pacifico, i tramonti, i colori del cielo. Erano dei paradisi che mi facevano veramente sognare. Mi sono formato su questa rivista così come mi sono formato sui nonsense, nella stessa misura. «Per un guasto del niente trovato in un battente, dopo improperi e grida era accorsa una sfida. Ma una vecchia cornacchia, sbucata da una macchia, tanto li spaurì che la lite finì». Questa è la traduzione di un nonsense. Si vedeva la cornacchia con la cuffia che usciva da una macchia. Spaccavento e Spaccafumo che avevano l’insegna sulla loro porta. Uno si chiamava Spaccavento, l’altro Spaccafumo: due individui con la pancetta, vestiti all’inglese, stile fine ’800, che si agitavano...
Un’altra cosa che mi incuriosisce, invece, è la sua attività, anche questa parallela, di scenografo, e quindi il rapporto con il teatro, la realizzazione di cose significative quali ad esempio “L’opera da tre soldi” di Pandolfi.
Semplicemente, io amavo il teatro. Amavo tutte le arti, ad esempio la musica: ero un fanatico della musica, un ascoltatore inesauribile, abbonato a tutti i concerti, seguivo la musica come una cosa di cui avevo bisogno per vivere. La mia passione per Stravinskij è al centro della mia giovinezza.
E amavo molto il teatro. Mia mamma voleva che io diventassi un uomo di teatro perché lei aveva tentato questa strada da giovinetta, ma poi glielo avevano proibito dati i tempi. Le era rimasta questa nostalgia e allora mi mandava da ragazzino a teatro. Mi comprava il biglietto di una poltroncina in seconda fila, secondo ordine, per tutte le prime che c’erano. A quei tempi c’era ancora Zacconi che recitava, la Melato, la Galli, con il suo teatro comico, Ruggeri che mi ricordo era bravissimo. Andavo a tutti gli spettacoli; avrò avuto dodici, tredici anni. Mi sono formato con il gusto del teatro.
Lo adoro come forma e perché il mezzo espressivo è l’uomo. In pittura il mezzo espressivo è il colore, in musica è il suono, in teatro è l’uomo, l’uomo che appare agli altri. Adoro questa sua straordinaria umanità. Il teatro è voce e apparizione, è arte visiva. Tutte le arti che partecipano a questa spazialità devono avere, mantenere la loro autonomia -la pittura deve essere una bella pittura- però devono anche assumere contemporaneamente, parallelamente, una funzione nuova, diversa. È qui la vena dell’umanizzazione, della presenza umana. Lo spazio pittorico quando diventa spazio di teatro deve servire a tirar fuori il più possibile questa apparizione, questa maschera che è l’uomo, senza perdere i suoi valori. Della bella pittura che diventa della bella scenografia, della buona scenografia, senza perdere la sua bellezza di pittura. Questo è il concetto. Pittura è movimento, è costume, le forme cromatiche, i modi dello spazio del cromatismo nell’insieme del palcoscenico; quindi la scenografia non come contenitore, come è intesa volgarmente da tutti, come una scatola il più possibile prospettica per illudere di una profondità spaziale che non c’è, per dare più respiro. Non c’è scenografia che non sia simmetrica, prospettica, cioè che non ripeta meccanicamente la forma del boccascena, di quello che è il teatro. Il teatro è prospettico e simmetrico. Allora dentro questa bocca, il boccascena, in questo spazio che dovrebbe essere lo spazio del dramma, dell’apparizione del dramma ancora si ripete la prospettiva e la simmetria. È grottesco. Lo spazio scenografico dovrebbe essere libero e fluente, come lo spazio di un quadro.
Ho anche insegnato scenografia per trent'anni all’Accademia di Belle Arti ed ho insegnato questo. Lo spazio scenografico è lo spazio tout court, è lo spazio dell’arte, della pittura che poi diventa scenografia, che non perde nulla ma si arricchisce di un senso ulteriore, di una funzione ulteriore che è quella di far apparire il tempo del dramma. Il dramma vuol dire il tempo: c’è un primo, un secondo e un terzo atto. Si svolge nel tempo ed è sempre tragico perché ha un termine. In un certo modo c’è sempre una storicità nel racconto perché è una storia che comincia, si sviluppa e poi finisce. Può non starmi bene ma finisce: è questo conchiudersi che dà il senso della tragedia del destino. Anche in una pochade dell’800 c’è questa tragicità. Questo rende proprio l’idea del teatro. Allo stesso modo la pittura deve avere questo senso tragico, questo senso ulteriore oltre la sua bellezza, questa forza apparitiva che si imbeve di umano e diventa umana. In questo senso ho insegnato scenografia; sono molto legato alla vera scenografia, che è quella di Appia -che ha capito Wagner in questo senso proprio, geniale- di Craig, che ha capito anche lo spazio shakespeariano. Gli screens di Craig sono degli spazi in movimento perché se la scenografia è spazio che segue il dramma, che non contiene passivamente, ma che è il dramma stesso dal punto di vista visivo, ecco che gli screens sono forme in movimento che si stringono, si allargano, si perdono, arretrano, si girano continuamente per dare il senso della trasformazione. D’altronde la scenografia è sempre in movimento, perché anche una scena immobile dopo mezz’ora è diversa da come era al principio: si carica, si riempie di tutto l’elemento psichico del dramma che si svolge e modifica pian piano quella seggiola o quel rosso di fondo. Il rosso del fondo, al termine del dramma, non è il rosso che c’era al principio.
Poi c’è anche il gioco delle luci. Gli effetti di luce sono a centinaia e passano un po’ inosservati al pubblico, ma non al loro animo. Rimango impressionato da questa cosa. Mi ricordo un avvenimento divertente che mi successe da bambino. Andavo spesso a villeggiare in Piemonte, dove c’era la famiglia Trompeo, di Pietro Paolo Trompeo, il grande francesista, studioso di Stendhal, e di suo fratello che era un ottimo avvocato. Volevo loro molto bene. Quando andavo mi facevano il teatro dei burattini. Siccome ero un bambino intelligente, buono, appassionato di queste cose, una volta rappresentarono il Faust di Goethe. Mi ricordo che mi emozionai molto a questa storia di Mefistofele, Faust e la povera Margherita. Ad un certo punto, nel finale, c’era un fondalino azzurro e lo scambio di battute: “Sei persa”; e la voce dall’alto del Padreterno: “Sei salva”. Finisce così: lei grida “Enrico, Enrico”. “Sei persa”. “Sei salva”. Dissi che il finale era stato stupendo per via del celeste del fondo che si illuminava un po’ alla volta fino a diventare così abbagliante e chiesi loro come erano riusciti a fare questo effetto. Mi risposero che in realtà non c’era nessun effetto e che il celeste era rimasto quello che era. Ero io che avevo visto il celeste modificarsi nella mia emozione di spettatore: avevo caricato il colore di quel significato celestiale che doveva avere, legato a lei che torna in cielo e si salva. Allora quel cielo era diventato il cielo della salvezza nei miei occhi: si era modificato il cromatismo del celeste. Questo avviene in tutti gli spettatori.
È certamente vero. È l'intera atmosfera del teatro che si carica di emozioni...
Sono andato ultimamente ad uno spettacolo, ma sono rimasto estremamente deluso. Che insensibilità, che grossonalità! Non sanno cosa sia il teatro, non sanno cosa sia la scenografia, anche i grandi. Ronconi, ad esempio, è certamente un grosso regista, è un creatore di teatro, perché è il regista che crea il teatro e non certo il testo. Ma com’è insensibile allo spazio! Certamente c’è il senso del movimento, dell’affiorare, dello scomparire, del girarsi sul cardine; però vi è una insensibilità alla spazialità espressiva, che è la scenografia. Vi è una difficoltà a comprendere l’astrazione della forma, l’espressività astratta della forma. Anche lì sempre la prospettiva, la simmetria.
La scenografia è concepita come un arredamento. Mi ricordo che quando insegnavo scenografia c’era anche una cattedra di arredamento scenografico. Dissi che non ero d'accordo. La scenografia è certamente fatta di oggetti, ma non è arredamento. Altrimenti per mettere in scena una rappresentazione settecentesca, basterebbe sfruttare la storia della sedia del '700...
Questa sarebbe una faccenda da trovarobe...
Sì, sarebbe un fatto da trovarobe. La sedia del '700 la si deve inventare, in falegnameria; il '700 lo si deve inventare. Non si può prendere una sedia dall’antiquario e portarla in scena come faceva, ad esempio, Visconti, che considerava la scenografia come un fatto di arredamento. Tutto diventa maschera in teatro.
Mi ricollego per un attimo al gusto per l’espressività, di cui si parlava prima, al gusto del teatro perché è il corpo dell’attore che è in scena. Si tratta di un fatto che associa immagine e parola. Quanto ha contato tutto questo nella scelta dell’action-painting?
In questo caso non c’è un accordo perché la spettacolarità dell’action-painting, dell’espressionismo astratto, è qualcosa che appartiene alla pittura. La pittura è pura in sé. Dietro la pittura non si vede l’uomo, il personaggio. Il quadro deve vivere per una sua forza interna, per i suoi rapporti cromatici, i suoi rapporti di forma, il movimento, il ritmo che ha all’interno. Guai, secondo me, se il personaggio-pittore appare più di quanto non debba apparire; egli deve scomparire nella pittura. Pollock fu frainteso, fu considerato il pittore della violenza americana, il pittore che scardina tutti. Ed invece è una persona gentilissima nella sua pittura. C’è un flusso, un movimento fluidificante proprio dello spazio che lo rende lirico. Pollock è uno dei più grandi lirici della pittura contemporanea. In realtà il vero artista scompare nell’opera.
Allo stesso modo il vero attore scompare: il privato personaggio che fa l’attore deve scomparire, deve essere solo l’attore. Gassman è sempre Gassman, qualunque cosa faccia è Gassman ed infatti è un pessimo attore. Il vero attore è quello che si perde, che è cancellato dalla parte. È così calato nella sua parte che è cancellato dalla parte stessa. Questo è il grande attore. Un vero Amleto, non Pinco Pallino che fa Amleto. Io devo vedere Amleto, dimenticarmi chi sta recitando in quel momento. Questo annullamento dell’ego, secondo me, avviene anche in teatro. Rientra nell’idea del teatro, così come diceva Stanislavskij: “Oggi Amleto, domani servo di scena”. Lo stesso attore deve poter fare l’Amleto oggi e domani il servo di scena. Questo è il vero attore, cosa dimenticata.
Vorrei chiederle un’ulteriore impressione, del tutto esterna. Ho notato che adesso anche in pittura, ma secondo me non solo in questo campo, ci sono delle nuove generazioni tecnicamente molto valide e preparate, tra le quali però nessuno eccelle. Formalmente ineccepibili ma che si trovano tutti in una specie di livello uniforme. Sembra che si stia vivendo un momento -questo anche nel cinema, con la vocazione minimalista dei giovani registi- in cui si sono perse di vista le personalità artisticamente forti. Se si pensa a Nanni Moretti, alle generazioni di prima, ad Antonioni: c’erano delle personalità di un’originalità assolutamente maggiore.
Sì, è possibile. Devo dire che tendo a non rivolgermi più molto all'esplorazione di altre impostazioni. Nell'insieme sono piuttosto deluso. Ho visto dei giovani cominciare bene e subito poi commercializzarsi, non credere nella propria ricerca ma credere più che altro nell’effetto possibile della propria ricerca, nei risultati immediati come mostre, contratti, prospettive economiche. Ho constatato purtroppo un inaridimento della passione, di quell'elemento essenziale per fare arte che deve essere l’assoluto senso della inutilità di quello che si fa, l’inutilità pratica.
L'artista deve, a mio avviso, muovere dall'idea di fare qualcosa che serve alla mente, al cuore dell’uomo e che, praticamente, non serve a nessuno. Questa indifferenza e indipendenza dal risultato sociale, questo disinteresse manca, a mio avviso, ai giovani, perlomeno a quelli che vedo intorno a me senza molto occuparmene. C’è un gusto un po’ televisivo che induce ad apparire. Anche la mancanza di coraggio interiore, il non sopportare la solitudine. Ma l’arte si fa in solitudine, è fatta dai solitari. A mio avviso, tutta l’arte moderna nasce da Cézanne, il quale viveva in una provincia sperduta e di cui nessuno si occupava. Egli lavorava perché ci credeva (ed anche certamente perché aveva i soldi per potersi dedicare tutti i giorni a dipingere). Accanto a Cézanne metterei Van Gogh; egli non lavorava di certo per ottenere qualcosa, perché non aveva nessun tipo di risultato né economico né di successo. Ma da questi due personaggi nasce tutta l’arte moderna. Tutta l’arte moderna, il pensiero dell’arte moderna, la pittura nascono da Cézanne e da Van Gogh. Allora dovremmo guardare un po’ come hanno vissuto. Questo discorso forse fa sorridere i giovani che vogliono immediatamente un contratto, il mercante, la mostra a Zurigo, la mostra in Germania. Certo, non voglio dire che l’artista debba essere un martire perché deve comunque trovare un modo per vivere. La cosa preferibile è che il pittore possa vivere con un altro mestiere. Io ho insegnato per trent’anni. Chi me lo ha fatto fare viste tutte le energie che ho perso nel mio insegnamento? Però mi permetteva poi di lavorare indipendentemente. Trovarsi una moglie ricca oppure restare in famiglia fino a tardi, qualunque cosa perché tu possa lavorare. Forse la mia idea è un po’ ottocentesca, ma pretendere di poter vivere col proprio lavoro è molto difficile. Sarebbe molto bello vivere in una società sensibile all’arte, intelligente, illuminata.
In ogni caso è difficile trovare chi accetti di investire sui giovani; in genere si preferisce investire su dei valori consolidati, su artisti, anche contemporanei, ma già affermati. È difficile trovare chi sia disposto a dar credito a dei giovani pittori.
Oppure a dar credito a dei pittori che sono controcorrente, che non sono alla moda. Quando c’era la moda pop io facevo una pittura concettuale, ritmicamente astratta, come le impronte. Mi ricordo che avevo una bella sala alla Biennale di Venezia, proprio nel ’64, l’anno del trionfo della Pop, con il primo premio a Rauschenberg. La mia sala passò inosservata: la gente entrava e non vedeva i quadri, perché erano così fuori dai gusti di quel momento, dalla moda, dalla voce che si sparge. Per cui mi ricordo che non fui neanche nominato. Erano apparsi degli articoli critici in cui si parlava dei pittori italiani che avevano una sala alla Biennale di Venezia -era anche una cosa importante avere una sala- ed io non ero nominato. Non stavo nell’elenco. Questo per dire che non è solo un fatto che riguarda i giovani, perché io allora non ero neanche più giovane, è un fatto determinato anche dal gusto, introdotto dal mercantilismo, dalla pubblicità.
Occorrerebbe che a degli artisti disinteressati, come diceva prima, corrispondesse un pubblico altrettanto disinteressato, interessato cioè alle ragioni dell’arte gratuitamente, che non si accosta a un quadro perché pensa di investire su un talento e, quindi, di fare in qualche modo un buon investimento, oppure sotto il condizionamento delle mode.
Ho fatto recentemente una mostra di arte moderna che ha avuto molto successo. Non solo nella stampa, perché i giornali ne hanno parlato a lungo, ma specialmente -e questa è la cosa che mi regala maggiore soddisfazione- un successo presso le persone, il pubblico che mi ha scritto le lettere e mi ha telefonato per comunicare la loro commozione di fronte alla mia pittura. Ho avuto delle bellissime risposte; le ho avute ora però, a 78 anni. Gli stessi quadri che trent’anni fa non erano visti adesso danno delle emozioni. È un aspetto misterioso.
Intervista realizzata nell’agosto 1992