Introduzione
Affermare che la figura di Camillo Benso, conte di Cavour, sia ampiamente studiata equivale a un’ovvietà. Ma assai meno ovvio rimane il domandarsi in quale dimensione si possa riscontrare la sua vera cifra: leader politico? Stratega parlamentare? Imprenditore innovativo? Teorico liberale? Icona dell’unità nazionale? L’opinione di chi scrive è che il conte eccellesse in tutte le vesti citate, e in parecchie altre; tuttavia, la peculiarità della sua mission - per utilizzare un’espressione (molto) à la page - credo risiedesse nel legittimare una visione moderna e “laica” delle istituzioni politiche, cui egli diede ben più di un semplice contributo, tanto con la sua azione che con l’elaborazione concettuale che ne costituiva sempre la premessa. Alla luce di ciò, a mio parere, andrebbe reinterpretata la tensione tra liberalismo e democrazia che, indubbiamente, caratterizzò il suo magistero intellettuale e politico.
Tenterò di compiere tale percorso procedendo dapprima a una rapida ricognizione della filosofia liberale di Cavour, per poi soffermarmi sul rapporto Stato-mercato e quindi, più diffusamente, sulla sua concezione delle istituzioni politiche. In questa avventura privilegerò l’analisi delle fonti primarie: non che, sia ben chiaro, le interpretazioni storiografiche disponibili sul “mercato delle idee” non risultino soddisfacenti (e difatti ad esse ci si riferirà sin dal principio), ma desiderando che il nostro celeberrimo protagonista si esprima con le sue stesse parole.
Il liberalismo cavouriano
La costruzione del mito di Cavour è stata compiuta, del resto comprensibilmente, in primo luogo dai liberali che, a vario titolo, hanno successivamente tentato di raccoglierne l’eredità. Se per Giolitti Cavour era l’uomo che «fece il connubio del suo partito con la parte più avanzata della Camera; che prese accordi politici con gli uomini dei partiti più estremi, mandandoli a governare il paese nei momenti più difficili», cosicché le pretese dei conservatori di arruolarlo a difesa di «una politica reazionaria e violatrice delle libertà equivaleva a tentare una delle più audaci falsificazioni della storia» (Giolitti 1967, pp. 113, 195), con Croce diventava «l’uomo di genio che l’Italia aveva espresso dal suo seno e che, dopo una lunga preparazione di studi politici e di vita pratica» si era gettato nella mischia e il cui liberalismo non si esauriva nella pratica di governo, pur così benemerita, ma informava la sua intera visione dell’uomo e della storia (Croce 1995, p. 259).
Luigi Einaudi, ancor più esplicitamente, si mostrava sempre pronto a dipingere un ritratto assai lusinghiero di Cavour, mettendo in risalto il fatto che «in lui si cumulavano l’intuito fulmineo del politico, la conoscenza dell’economista teorico, la pratica dell’imprenditore di cose economiche concrete» (Einaudi 1973, p. 300), e potremmo continuare con giudizi analoghi formulati da De Ruggiero, Gentile (Panfilo), Maranini, Vinciguerra e parecchi altri intellettuali di area laico-liberale (nel senso più ampio della locuzione).
Ma se desiderassimo sintetizzare in pochi cenni l’approccio liberale di Cavour, dovremmo ricordare che la genesi del liberalismo cavouriano va fatta risalire a quando il conte non era che un giovanissimo cadetto in cerca della propria posizione nella detestata società subalpina. Benché si dichiarasse inizialmente «seguace di Bentham (benthamiste)» (Cavour 1962-2012, I, p. 100) e manifestasse senza remore il proprio disgusto per la pratica assolutistica e le scelte politiche dell’aristocrazia torinese, ben presto, anche grazie alla lettura delle opere di Benjamin Constant, François Guizot e Alexis de Tocqueville, che resteranno sempre suoi punti di riferimento, in Cavour maturò «la preferenza per il progresso graduale e moderato, che ancora non esclude[va] la prospettiva di una rottura rivoluzionaria con il vecchio ordine di cose, ma che sin da ora si pone[va] come uno dei temi di fondo» che avrebbero segnato il suo liberalismo (Romeo 1969, p. 283). Fu soprattutto l’influenza dei doctrinaires, i liberal-moderati protagonisti della “rivoluzione di luglio” che instaurò in Francia la monarchia costituzionale di Luigi Filippo, a illuminare il cammino di Cavour, che così scriveva ad Auguste de la Rive nel 1833:
Quanto a me, sono rimasto a lungo indeciso in mezzo a questi sommovimenti di senso contrario. La ragione mi teneva dalla parte della moderazione; ma l’infinito desiderio di spingere avanti quanti avevano indietreggiato mi conduceva nuovamente verso il progresso; alla fine, dopo molteplici e violenti sussulti oscillatori, ho finito per fermarmi come il pendolo nel juste-milieu. Così vi metto al corrente del fatto che sono un buon juste-milieu che desidera, auspica e lavora con tutte le sue forze per il progresso della società, ma che è determinato a ottenerlo non al prezzo di uno sconquasso generale, politico e sociale (Cavour 1962-2012, I, p. 130).
In realtà non bisogna commettere l’errore di dipingere un Cavour troppo moderato: nella sua ottica poteva essere senz’altro lecito posporre la realizzazione di alcuni progetti in base a motivazioni di natura contingente, ma non era pensabile un sacrificio dei princìpi di libertà sull’altare della mera stabilità politica. Certo si trattava di una “liberté unie à l’ordre”, ma non per questo meno dirompente sugli equilibri politici piemontesi prima e italiani poi.
A testimonianza di ciò, basti ricordare quanto lo stesso Cavour ebbe ad affermare alla Camera subalpina, ossia che «quando i tempi sono tranquilli… i veri uomini di Stato, i veri uomini prudenti pensano ad operare le riforme utili» (Cavour 1932-1973, II, p. 71). Utili non solo per promuovere il progresso moderato nella libertà, ma anche per combattere le tendenze socialiste d’ogni tipo poiché sempre pronte a richiedere «il sacrificio del libero arbitrio e d’ogni specie di libertà individuale» (Cavour 1976-1978, III, p. 1120).
Coerentemente con quest’ottica Cavour, pur nutrendo un forte debito nei confronti della cultura francese (nonché di altri paesi francofoni quali Svizzera e Belgio) ed eleggendo la Francia, e soprattutto Parigi, a propria seconda patria, guardava bensì all’Inghilterra quale modello ideale di moderazione politica sposata al progresso economico e sociale. Ergendo ad esempio la figura di Robert Peel, «ad un tempo conservatore e riformista, energico e moderato, mantenitore imperterrito dell’ordine e amico sincero della libertà» (ivi, pp. 1557-58), tesseva un elogio della pratica di governo britannica che ci racconta molto della sua forma mentis:
Quale è dunque il solo paese che seppe preservarsi dalla bufera rivoluzionaria? È quell’Inghilterra a cui accennava il deputato Balbo. In quel paese, uomini di Stato i quali avevano caro il principio conservatore, che sapevano far rispettare il principio di autorità, ebbero pure il coraggio di compiere immense riforme, a petto delle quali quella di cui ci occupiamo è ben poca cosa, e ciò quantunque una parte numerosa dei loro amici politici le combattessero come inopportune. […] Vedete dunque, o signori, come le riforme, compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano; invece di crescere la forza dello spirito rivoluzionario, lo riducono all’impotenza (Cavour 1932-1973, II, pp. 83, 84).
Il liberalismo di Cavour, pur riproponendo talvolta motivi di natura tattica, appare comunque ispirato alla tradizione intellettuale europea sua contemporanea e ben inserito in essa, pur su un versante moderatamente riformatore. Un approccio reso peculiare dal contesto politico nel quale il Conte si trovò costretto a muoversi, ma capace di produrre riflessioni cruciali sulla natura delle istituzioni. Il che emerge con grande chiarezza qualora si prenda in considerazione uno dei grandi dilemmi con i quali dovette misurarsi: il ruolo dello Stato nel processo di stimolo della crescita economica nel regno sardo prima e nel (quasi) intero territorio nazionale poi.
Le istituzioni e il mercato: un liberalismo pragmatico
Cavour attribuiva alle istituzioni, quantomeno nell’ambito italiano, un ruolo propulsivo per lo sviluppo economico. Una simile impostazione, piuttosto logicamente, portava con sé evidenti ricadute politiche, dal momento che soltanto istituzioni libere avrebbero potuto svolgere al meglio quella fondamentale funzione. Ciò risulta immediatamente manifesto qualora si prenda in considerazione una questione di policy che lo tenne impegnato a lungo: la costruzione di una efficiente rete ferroviaria piemontese - e in prospettiva nazionale. Cavour, infatti, credeva fortissimamente che la diffusione della rete ferroviaria dovesse rappresentare una priorità per qualsiasi governo, costituendo un eccezionale volano per la crescita economica. E infatti, sotto il profilo commerciale e turistico, l’Italia intera avrebbe avuto tutto da guadagnare dallo sviluppo di un efficiente sistema ferroviario collegato alle tratte europee.
Ma, anche qui, presto si affacciavano preoccupazioni (e speranze) di carattere politico: per quanto grandi fossero i «benefici materiali che, grazie alle ferrovie, [erano] destinati a ricadere sull’Italia», Cavour si dichiarava convinto che sarebbero restati «decisamente al di sotto degli effetti morali che dovranno produrre», cioè aiutare i popoli della penisola a superare «le divisioni interne, gli antagonismi, direi quasi le ostilità che armano le une contro le altre le diverse fazioni della famiglia italiana, e in seguito la diffidenza che esiste tra i prìncipi della nazione e la parte più energica del popolo». I viaggi e le comunicazioni, resi entrambi più rapidi ed economici, avrebbero portato con sé «un incessante spostamento di persone in tutte le direzioni», mettendo in contatto «popolazioni rimaste sinora estranee le une alle altre» e contribuendo così a «distruggere le meschine passioni campanilistiche, figlie dell’ignoranza e dei pregiudizi, che già sono minacciate dagli sforzi di tutti gli uomini illustri d’Italia» (Cavour 1976-1978, pp. 950-51).
La ratio eminentemente politica di tale posizione diventa più chiara una volta considerato quanto, di lì a qualche anno, venne sostenuto da Cavour, diventato ministro delle finanze del regno sardo, ossia che, seppur in presenza di deficit e debito elevati, lo Stato avrebbe comunque tratto vantaggio dall’investimento diretto nelle infrastrutture. Certo, «se fosse [stato] possibile svolgere l’industria privata, al punto che essa si potesse incaricare delle grandi opere pubbliche», egli avrebbe dato «di buon grado la preferenza a questo sistema», ma in caso contrario «piuttosto che non farle, sarebbe sempre meglio se venissero eseguite dal Governo col mezzo di prestiti» (Cavour 1932-1973, IV, p. 98). Ecco, insomma, svelato che il Conte, liberista e antiprotezionista, ammiratore di Francesco Ferrara, le cui lezioni ebbe modo di ascoltare all’università di Torino, non concepiva lo Stato alla stregua del classico “guardiano notturno” né escludeva che potesse esercitare un ruolo propulsivo, specie in settori particolarmente delicati, anche attraverso la leva fiscale .
Tuttavia tali posizioni non vanno fraintese: Cavour vedeva lo sviluppo degli investimenti pubblici quale parte integrante di una strategia di buongoverno basata sul coinvolgimento finanziario diretto dei ceti medi, che già in piccola parte partecipavano alla gestione politico-amministrativa del Regno. In questo senso, non costituivano una deroga ai principi della libertà economica, cui pure egli non attribuiva la patente di dogmi immutabili, ma piuttosto un indispensabile complemento per far emergere quel ceto produttivo che già, in nuce, svolgeva un ruolo progressivo, e liberarne appieno le energie imprenditoriali, commerciali e politiche.
Cavour aveva infatti istituito uno stretto legame tra libertà economica e libertà politiche e civili e credeva che l’interrelazione tra progresso politico e crescita economica fosse così stretta da portarlo ad affermare, in un saggio apparso sul primo numero del Risorgimento, che «in tutti i paesi dove dal cadere degli ordini feudali non vi furono progressi politici, o l’industria non sorse o languì appena sorta, e non di rado indietreggiò». Al contrario, nei paesi in cui «le sorti politiche andarono migliorando, in cui la nazione fu chiamata a partecipare all’opera governativa, l’industria crebbe di continuo [e] in alcuni ingigantì a segno da riempire il mondo delle sue meraviglie» (Cavour 1976-1978, II, p. 1011). Ecco sintetizzato il programma di riforme che egli avrebbe di lì a poco promosso in Piemonte (e che lo distanziava dalla vulgata liberal-moderata allora in auge).
La singolarità dell’approccio cavouriano non dovette sfuggire neppure a Piero Gobetti, che non a caso ascrisse il merito di aver «saputo incominciare il processo moderno di una rivoluzione liberale, pur disponendo soltanto di un esercito e di una dinastia» precisamente alla visione, insieme economica e politica, del Conte:
La libertà economica fu il perno educativo su cui egli impostò la sua azione popolare. Perché la rivoluzione trionfasse contro la reazione bisognava che sulla libertà si venisse fondando la vita privata e pubblica; combattendo il protezionismo egli apriva il Piemonte a una diretta comunicazione con l’attività economica europea e creava un movimento di attività e di iniziative che permise allo Stato di affrontare vent’anni di politica avventurosa. il liberismo di Cavour mirava a far entrare nella vita nazionale nuove forze operose: senza giungere alle pratiche corruttrici della politica di beneficenza, il suo filantropismo s’opponeva apertamente all’indifferenza dei governanti per le classi inferiori (Gobetti 1995, pp. 23-24).
Come spesso accadeva, Gobetti interpretava i “suoi” autori con lenti del tutto personali, ma sul punto in questione aveva colto nel segno. Il grande obiettivo di Cavour consisteva nella modernizzazione politica ed economica del paese; ma per far sì che ciò avvenisse compiutamente e nel minor tempo possibile, entrambe le dimensioni dovevano progredire in parallelo. Questo significava - in ultima analisi - intervenire in maniera diretta sulla dimensione propriamente costituzionale e politica, operazione resa ancor più delicata da una serie di fattori peculiari della situazione italiana.
Per un governo rappresentativo autenticamente liberale
Cavour si mostrò sempre convinto, sin dai primi passi mossi nella vita pubblica, che una pratica di governo liberale non potesse svolgersi all’interno di istituzioni che liberali non erano. Questo, tuttavia, non significava che guardasse con eccessivo fervore ai processi di democratizzazione che, negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, parevano in atto in alcuni paesi “occidentali” (Stati Uniti in testa). Nell’anno di pubblicazione del primo volume della Démocratie en Amérique di Alexis de Tocqueville (1835), così scriveva ad Auguste de La Rive:
La società procede a grandi passi verso la democrazia; può darsi che non sia possibile immaginare le forme che assumerà, ma quanto alla sostanza non ci sono dubbi, almeno ai miei occhi… Voi credete alla possibilità di ricostruire un qualche tipo di potere aristocratico? La nobiltà si sgretola da tutte le parti, tendono a distruggerla tanto i prìncipi quanto i popoli; il patriziato, potere municipale e moderatore, non ha più alcun posto nell’organizzazione della società di oggi. Cosa resta, dunque, per lottare contro le folle? Nulla di solido, di efficace e di sostenibile. É un bene o un male? Non saprei, ma secondo me è questo l’inevitabile avvenire dell’umanità. Prepariamoci; o almeno prepariamo i nostri discendenti, poiché li riguarda molto più di quanto non riguardi noi (Cavour 1962-2012, I, p. 202).
Perciò nel 1848, quando venne finalmente annunciata la concessione dello Statuto ed enunciati i principi fondamentali cui la carta si sarebbe ispirata, egli ne apprezzò l’impianto complessivo, che andava ad affiancarsi alle caute concessioni operate negli ultimi anni nel regno di Sardegna. «Le riforme di Carlo Alberto - scrisse sul Risorgimento riferendosi soprattutto all’azione precedente del sovrano - comunque ristrette nelle loro applicazioni, hanno tra noi inaugurato su larghe basi i veri principii che dominano le società moderne, i veri principii delle libertà civili» (Cavour 2010, p. 43).
Ma ciò non significa che il documento lo soddisfacesse appieno. Al contrario, sin dai primi momenti tentò di fornire una lettura dei princìpi costituzionali assai più liberale di quanto il testo stesso consentisse, mettendone peraltro in luce, pur con necessaria prudenza, i limiti e le carenze. In un breve articolo pubblicato il 10 marzo, ad appena sei giorni dalla promulgazione, Cavour lodava lo Statuto per introdurre «l’elemento elettivo largamente e potentemente in tutte le parti dell’edificio sociale» e per «circoscrive[re] il circolo d’azione del potere esecutivo in giusti e severi limiti, in modo da non potersi più oltre restringere, senza indebolire soverchiamente la forza governativa»; persino «l’indipendenza del potere giudiziario… la libertà di stampa, la libertà individuale» parevano «solennemente guarentite». Infine venivano abolite le discriminazioni fondate sull’appartenenza cetuale, come richiesto dai «gran princìpi… proclamati dalla nazione francese nel 1789, che costituiscono le vere basi del vivere libero» (Cavour 1976-1978, III, p. 1113).
Certo, rispetto alle aspettative Cavour ammetteva che «la libertà dei culti non [fosse] pienamente riconosciuta» e in effetti l’art. 1 recitava testualmente che «la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato», pur aggiungendo al comma secondo che «gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi». E inoltre, come alcuni lamentavano, venivano preservati «i titoli e gli ordini cavallereschi, cose contrarie all’indole dei tempi» (ivi, p. 1114). Ma, tutto sommato, si trattava di pecche che non inficiavano troppo seriamente l’impianto generale.
Com’è agevole notare, la preoccupazione principale di Cavour consisteva nell’assicurare alla società civile e al regime politico in formazione la necessaria elasticità per adattarsi ai cambiamenti e assorbire le innovazioni in corso. D’altro canto, come si anticipava poco sopra, appare evidente la sua preoccupazione di accreditare sin dal principio una lettura schiettamente liberale, costituzionale e parlamentare del sistema politico disegnato dallo Statuto. In particolare, spicca l’insistenza sulla centralità del parlamento, suo luogo d’elezione, inteso quale contropotere alla volontà autocratica del sovrano e della corte oltre che come istituto principe del governo rappresentativo.
Pur dichiarandosi, e rimanendo, fedele alla dinastia Savoia e alla monarchia, Cavour non nutriva grande fiducia nell’azione dei sovrani all’interno dell’agone politico, come testimonia emblematicamente il rapporto tormentatissimo che lo avrebbe legato a Vittorio Emanuele II. Più in generale, e pur sempre gelosissimo della propria autonomia politica, egli non credeva affatto all’utilità di concentrare i poteri pubblici in due sole mani – una convinzione che lo accompagnò lungo tutte le stagioni del suo percorso politico, come ci conferma una celebre missiva inviata nel 1860 ad Anastasie de Circourt:
Per quanto mi riguarda, non nutro alcuna fiducia nelle dittature, specie nelle dittature civili. Credo che con un Parlamento si possano fare molte cose che sarebbero improponibili in un regime assoluto. L’esperienza di tredici anni mi ha convinto che un governo onesto e capace, che non ha nulla da temere dalle rivelazioni dei singoli parlamentari e che non ha certo voglia di lasciarsi intimidire dalla violenza dei partiti, ha tutto da guadagnare dalle lotte parlamentari. Io non mi sono mai sentito tanto debole come quando le camere erano chiuse. D’altronde non potrei tradire la mia natura o rinnegare i princìpi di tutta una vita. Sono un figlio della libertà, a lei devo tutto quello che sono. Se si dovesse mettere un velo sulla sua statua, non toccherebbe certo a me farlo. Se qualcuno arrivasse a persuadere gli italiani della necessità di avere un dittatore, sceglierebbero Garibaldi e non me. E avrebbero ragione (Cavour 1962-2012, XVII, pp. 3073-74).
Le considerazioni legate allo scenario parlamentare sono fondamentali anche per comprendere la strategia politica complessiva di Cavour, a partire dal tanto celebrato “connubio”. Pure questa operazione, infatti, va inquadrata alla luce della sua fiducia nella centralità del parlamento e nell’opportunità di allargare le basi del regime rappresentativo a forze favorevoli al “progresso moderato”: nel 1852, quando iniziò a maturare la decisione di dar vita a quell’inedita alleanza, il debole ministero d’Azeglio non riusciva a liberarsi dell’ipoteca della destra e quindi a implementare pienamente le riforme che avrebbero potuto allargarne la base del consenso, guadagnandogli il supporto, almeno su alcuni temi, della sinistra moderata di Urbano Rattazzi.
Così Cavour si mise all’opera per tessere la tela. In un famoso discorso alla Camera, anticipando velatamente ciò che stava per accadere, affermò che «i partiti estremi non rappresentano mai che una piccola minoranza della nazione» e divengono temibili soltanto quando riescono, nascondendo i loro veri intenti, a «presentarsi al pubblico come i più ardenti apostoli delle riforme che la maggior parte del paese reclama» (Cavour 1932-1973, V, p. 267), salvo poi rivelare la propria natura e andare in direzione opposta. Leggendo tra le righe, e nemmeno con grande sforzo, si intravede in queste riflessioni un appello alle forze liberali e riformatrici per unirsi in un fronte comune al fine da un lato di isolare la destra contraria al progresso, dall’altro a «frenare il partito radicale, che mirava a niente meno che fondare sulle istituzioni municipali una costituzione ultra democratica» (ivi, p. 55).
Com’era lecito attendersi, il connubio è stato variamente giudicato in sede storiografica. C’è chi vi ha scorto la nascita di un meccanismo destinato a segnare profondamente l’evoluzione del sistema politico italiano, ossia l’«affermazione di un leader che, conquistata la maggioranza in Parlamento, tendeva a riprodurla attraverso il controllo e la manipolazione delle successive elezioni» (Cafagna 1999, p. 228); ma anche chi lo ha considerato un accordo tra «due aree della stessa, comune matrice liberale, semmai di estrazione sociale diversa» che ebbe il merito di condurre Cavour «verso una più ampia visione dei compiti che spettavano al Regno sabaudo nel contesto del moto nazionale» (Viarengo 2010, pp. 226, 234).
Lo stesso Cavour, rievocando ad alcuni anni di distanza la natura e le circostanze in cui il connubio prese forma, rivendicava che «quell’atto ha avuto per effetto di mantenere il nostro Governo in quella via di regolare e progressiva libertà in cui cammina dopo l’avvenimento al trono del prode Re Vittorio Emanuele», rimarcando altresì quanto «non fosse solo opportuno, ma necessario, indispensabile di costituire un grande partito liberale chiamando a farne parte tutte le persone che, quantunque avessero potuto differire sopra questioni secondarie, consentivano però nei grandi principii di progresso e libertà» (Cavour 1932-1973, XI, p. 267).
D’altra parte, Cavour aveva messo in guardia da tempo sui rischi dell’eccessiva frammentazione partitica, associata ai benefici prodotti dalla libertà politica:
La libertà, non conviene illuderci, susciterà tra noi, come suscitò altrove, vari partiti politici; questi saranno in generale diretti da alcuni uomini di opinioni decise, di spiriti ardenti, di volontà determinata. Questi uomini, qualunque sia il numero dei deputati e il modo d’elezione, saranno sempre chiamati a far parte della Camera elettiva. E ciò è regolare, ragionevole, desiderabile, affinché la Camera rappresenti esattamente lo stato dell’opinione pubblica. Ma, se il costoro numero, senza eccezione di partiti, fosse nelle Camere soprabbondante, se venissero a costituire in certo modo la maggiorità di essa, allora ne potrebbero risultare gravi inconvenienti. Allora le passioni politiche, invece di stimolare ed animare soltanto l’assemblea, ne infiammerebbero a dismisura gli spiriti; e ciò alla lunga sarebbe cagione di pericolose e inevitabili perturbazioni (Cavour 1976-1978, III, p. 1096).
Visto che alla libertà non si poteva, né tantomeno doveva, rinunciare - anzi, il suo governo aveva ricevuto dal re «la missione di far trionfare, con mezzi legali, la causa del progresso e della libertà» (Cavour 1962-2012, XI p. 8) - la formazione di un blocco liberale moderato e riformatore appariva come la migliore garanzia di stabilità, governabilità e progresso nell’ordine. Ecco il tanto decantato pragmatismo di Cavour, da non intendersi esclusivamente in senso deteriore, quanto piuttosto quale capacità di adattare i propri principi, senza tradirli, alle situazioni drammatiche che dovette affrontare. Cavour fu, infatti, sempre chiaro nel dichiarare utili e anzi necessarie «le riforme organiche, le riforme che tendono a provvedere al futuro», ma, allo stesso tempo e «salvo in caso di rivoluzione», ad «aver presenti e tenere a calcolo le posizioni acquistate», alle quali sarebbe stato poco prudente «così per ragioni di giustizia, come per rispetto politico, portare una troppo grave perturbazione» (Cavour 1932-1973, VII, pp. 82-83).
Un pragmatismo, tuttavia, che rappresenta, senza dubbio, una dipartita dalla pur ammirata filosofia dell’alternanza, all’epoca già tipica del sistema bipartitico inglese e che ha fatto sì che talvolta Cavour venisse stimato, sia dagli avversari che dai sostenitori, l’alfiere di una spregiudicata realpolitik - e non a caso negli ultimi anni è ritornato in auge, nella migliore letteratura, un certo interesse per il parallelo Cavour-Bismarck e per le analogie tra unificazione italiana e State-building tedesco, già rilevate a suo tempo da Heinrich von Treitschke e da altri nazional-liberali tedeschi (cfr. Rusconi 2011). Proprio a Treitschke, peraltro, si deve una felice intuizione, una volta depurata da alcune considerazioni assai meno condivisibili: l’importanza del milieu aristocratico per comprendere la natura del realismo e del pragmatismo cavouriano. Forgiato dalle istituzioni di un paese che poteva vantare «l’unica nobiltà politica, che l’Italia possedesse ancora», per lo studioso tedesco era inevitabile che «l’uomo che doveva spingere l’aristocratico Piemonte per gli erti sentieri di una politica rivoluzionaria, dove[sse] anch’egli essere un aristocratico». Di più: Cavour aveva sanato una situazione potenzialmente esplosiva, riuscendo a «piegare sotto la disciplina della monarchia i fanatici della rivoluzione», mentre lo Stato sabaudo, poiché «figlio dell’idea nazionale» non avrebbe potuto «tentare di arrestare la corrente dell’entusiasmo popolare» senza perdere in autorevolezza e prestigio (Treitschke 1921, pp. 25, 27, 218).
Tuttavia, a differenza di quanto sembrava credere Treitschke, l’approccio “aristocratico” di Cavour non si sostanziava tanto nel riconoscimento di un particolare set di valori (anche politici) propri della nobiltà, sia pure intesa in senso largo (quasi inglese, diremmo); al contrario egli, come già notava Adolfo Omodeo, incarnava l’archetipo del nuovo ceto altoborghese, decisamente insofferente nei confronti dell’aristocrazia tradizionale, dei suoi modi e della tradizione politica che tramandava, tant’è che il suo «spirito innovatore d’uomo d’affari» veniva guardato con grande sospetto: per gli aristocratici d’antan, Cavour rimaneva «il conte speculatore» (Omodeo 2012, pp. 12-13). Ma erano certamente aristocratici sia il suo senso della missione che sentiva affidatagli, la liberalizzazione del Piemonte e, infine, dell’Italia intera, quanto il suo impegno a promuovere la creazione e l’allargamento di una élite composta dalle migliori energie dell’epoca.
Ed è proprio questa, in ultima analisi, la cifra del liberalismo cavouriano: la costruzione di istituzioni costituzionali e rappresentative capaci di produrre i migliori risultati se gestite da una classe dirigente selezionata nel corso dei lavori parlamentari e dell’esperienza amministrativa, ma a loro volta palestra della medesima classe dirigente. Certo, se cercassimo in Cavour un antesignano delle moderne istituzioni democratiche e repubblicane resteremmo delusi. Ma non andrebbe sottovalutata la portata della tradizione cavouriana del buongoverno, se è vero, come ha sostenuto Giuseppe Maranini, che «l’Italia, da Cavour a Giolitti, poté godere di mal definite, e peggio garantite, ma tuttavia abbastanza effettive e consistenti libertà, all’ombra delle quali fu possibile la sua parziale trasformazione in un paese di livello europeo» (Maranini 1995, p. 246).
Riferimenti bibliografici
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Cavour C. B. conte di (1962-2012), Epistolario, a cura di C. Pischedda et al., 21 voll. in 30 tomi, Bologna, Zanichelli/Firenze, Olschki.
- (2010), Scritti e discorsi politici, a cura di P. Barrotta, M. Bertoncini e A. G. Ricci, Ravenna, Libro Aperto editore.
- (1976-1978), Tutti gli scritti, a cura di C. Pischedda e G. Talamo, 4 voll., Torino, Centro Studi Piemontesi.
- (1932-1973), Discorsi parlamentari, a cura di A. Omodeo, L. Russo e A. Saitta, 15 voll., Firenze, La Nuova Italia.
Croce B. (1995), Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi.
Einaudi L. (1973), Il Buongoverno. Saggi di economia e politica 1897-1954, a cura di E. Rossi, Roma-Bari, Laterza.
Giolitti G. (1967), Memorie della mia vita (1922), con uno studio di O. Malagodi, Milano, Garzanti.
Gobetti P. (1995), La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia (1924), introduzione di P. Flores D’Arcais, a cura di E. Alessandrone Perona, Torino, Einaudi.
Maranini G. (1995), Storia del potere in Italia 1848-1967 (1967), prefazione di A. Panebianco, Milano, Corbaccio.
Omodeo, A. (2012), L’opera politica del Conte di Cavour 1848-1857 (1940), prefazione di G. Galasso, Milano, Mursia.
Romeo R. (1969), Cavour e il suo tempo (1810-1842), Bari, Laterza.
Treitschke, H. von (1921), Cavour, (1869), trad. it. di G. Cecchini, Firenze, Editrice La Voce.
Viarengo A., (2010), Cavour, Roma, Salerno editrice.
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