Una lunga e straordinaria formazione politica
Alcide De Gasperi (1881-1954) è stato uno dei padri fondatori della Repubblica italiana e uno dei principali architetti della ricostruzione dell'Italia e dell’Europa. Con lui i cattolici sono arrivati alla guida del Paese. Il partito che ha fondato nel 1943, la Democrazia cristiana, è stato il fulcro della politica italiana per cinquanta anni. Quando, in clandestinità, aveva riunito alcuni amici per impostare la rinascita democratica del Paese aveva superato i sessant’anni e mai avrebbe pensato di dover affrontare un decennio così carico di responsabilità. Suddito dell’impero austroungarico per quaranta anni fino al 1918, una volta diventato cittadino italiano dovette subito confrontarsi da oppositore con il fascismo. Davanti alle esitazioni del Re Umberto II e di circoli monarchici, fu lui a pronunciare l’ultima parola in merito al referendum Repubblica/Monarchia del 2 giugno del 1946. Per tre settimane, nel giugno di quell’anno, concentrò nelle sue mani, caso unico nella storia europea, tutti i poteri e per otto anni resse ininterrottamente il governo nella fase della ricostruzione di un paese doppiamente sconfitto, dal punto di vista militare e civile. Ereditò una società lacerata e impaurita, una Chiesa e una cultura profondamente compromesse con il fascismo e un paese distrutto. Nel 1947, con la fine dei governi di liberazione nazionale, egli seppe, sia pure con fatica, contenere le ambizioni demiurgiche del suo partito e le pulsioni massimaliste di certe opposizioni così da intensificare una politica di ridistribuzione dei beni materiali e produttivi. Collocò rapidamente l’Italia al centro di nuove alleanze atlantiche ed europee, stabilendo un rapporto fecondo con gli Stati Uniti e aiutando la Germania occupata a riprendere la propria agibilità politica. Nel breve discorso che tenne alla prima riunione della Assemblea costituente il 25 giugno 1946 disse:
Con ardimento, con tenacia, con sforzo disciplinato abbiamo gettato un ponte sull’abisso tra le due epoche, riuscendo a compier l’opera lunga difficilissima senza perdita di uomini e di materiali. Quale popolo può richiamarsi a simile esempio di verace democrazia? Altrove furono i massacri, il terrore, la guerra civile. Operano nella Repubblica le tendenze universalistiche del Cristianesimo, quelle umanitarie di Giuseppe Mazzini, quelle di solidarietà del lavoro propugnate dalle organizzazioni operaie. Questa democrazia sarà chiamata ad una utilissima funzione nella ricostruzione internazionale.
De Gasperi, unico tra i grandi leader europei, ha esercitato il suo mandato politico in tre parlamenti, quello austriaco, quello del Regno d’Italia e infine, in quello repubblicano italiano. Passò da un Impero in decadenza ad un Regno molto più piccolo e fragile, ma ciò gli consenti di valutare con precisione i rischi che lo Stato italiano avrebbe corso qualora si fosse trovato impreparato, come in parte fu, nel costruire l’unità del Paese e soprattutto nel realizzare attraverso l’azione di governo quei principi di sussidiarietà che erano e sono tipici di una democrazia riformatrice.
La peculiarità della formazione politica di De Gasperi è rappresentata dall’intreccio di quattro esperienze: a) quella politica maturata in una dimensione internazionale complessa come quella dell’Impero di cui fu suddito fino al 1918; b) quella del cattolicesimo sociale che in Trentino aveva trovato un luogo di elezione e che aveva ravvivato la dimensione partecipativa ed operosa di una popolazione povera ma profondamente religiosa e fedele allo spirito comunitario alpino (era stata la terra di Antonio Rosmini); c) l’esperienza di leader assunta in Italia negli anni drammatici tra la fine della Guerra e l’avvento del fascismo di Mussolini, con cui si era scontrato per altro già nel 1908 e 1909 quando il capo del fascismo era vissuto a Trento da socialista e giornalista; d) infine la lunga e sofferta esperienza in Vaticano dove affinò le sue capacità diplomatiche e dove poté perfezionare la sua già spiccata passione per lo studio e l’esercizio delle relazioni internazionali.
Come Cavour, cento anni dopo e da cattolico
La cifra della sua azione di statista fu quella dell’ampliamento dello spazio di azione diplomatica ed economica entro il quale l’Italia poteva risorgere. Come Cavour un secolo prima di lui, De Gasperi capì che il futuro della nazione richiedeva solide alleanze e un chiaro profilo politico occidentale che permettesse all’Italia, esposta su più fronti, di non ricadere nell’autarchia o nell’anarchia. Anche il suo anticomunismo fu di natura strategica, ispirato non soltanto dal rifiuto di un’ideologia atea, ma anche dalla necessità di coinvolgere le opposizioni in un intenso processo di inclusione democratica. Il suo stile di comando fu quello di deliberare sulla base di una conoscenza approfondita dei problemi e, soprattutto, della realtà sociale. Tutto ciò senza indietreggiare dinnanzi a decisioni anche difficili e impegnative. Si prescrisse, come metodo, di non governare mai da solo, privilegiando alleanze politiche ampie e comunque introducendo nel costume della politica nazionale il principio del rifiuto della autosufficienza, sul quale si era invece basato il fascismo. La sua stagione politica passa sotto il nome di Centrismo degasperiano, ma potrebbe essere ridefinita la stagione delle alleanze liberaldemocratiche.
Uno statista così coinvolto sul piano del governo non avrebbe mai potuto essere il teorico di un pensiero politico astratto. Le idee di De Gasperi avevano origini solide e ramificate in una cultura cattolico liberale temprata nella esperienza sociale. Si era formato ben prima della caduta del fascismo e anche prima della sua apparizione sulla scena politica romana nel 1919, deputato del Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo. Nel 1909 era stato eletto deputato al parlamento di Vienna come rappresentante della minoranza italiana trentina del grande impero austroungarico. Prima di allora era stato uno dei principali esponenti di una nuova generazione di cattolici che animarono la vita politica in nome di un impegno sociale ispirato dalla nuova dottrina sociale della Chiesa che, con la enciclica Rerum novarum del 1891, aveva aperto la strada ad una nuova fase dell’azione civile dei cattolici italiani i quali, con l’avvento del Regno d’Italia e alle prese con la "questione romana" e con il non expedit del 1870, si trovavano in una situazione di sudditanza politica nei confronti del mondo laico e liberale. Diverso era stato il caso del Trentino, che apparteneva ad una dimensione politica dove i rapporti tra Stato e Chiesa erano più evoluti e dove le idee del cattolicesimo liberale e sociale si erano diffuse ben prima che nel resto della Penisola. De Gasperi si trovò così giovanissimo, non ancora laureato (frequentava la Facoltà di filologia a Vienna) a dirigere il giornale diocesano La Voce cattolica, il primo dei giornali trentini che guidò. Delle sue abilità di giornalista e di animatore sociale si accorse il principe arcivescovo di Trento mons. Endrici che divenne il suo riferimento e il suo sostegno fino a quando morì, nel 1940. Endrici lo sostenne nei momenti più duri della sua vita. Con l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria la popolazione trentina fu coinvolta in un pesante processo di controllo e perfino di deportazione da parte del governo austriaco. De Gasperi aveva cercato in tutti i modi di intervenire a Roma sia sul piano politico sia su quello ecclesiastico affinché il conflitto potesse essere scongiurato e negli anni della guerra si adoperò in sostegno dei suoi compatrioti deportati e sottoposti al terribile travaglio bellico. Quindici anni più tardi, mons. Endrici si adoperò affinché potesse essere accolto da rifugiato politico in Vaticano. De Gasperi, che nel 1924 aveva preso il posto di don Sturzo come segretario politico del Partito popolare, dovette guidare l’opposizione dei popolari a Mussolini, sostenere la scelta dell’Aventino, dirigere nel 1925 l’ultimo mesto congresso del Partito popolare e assistere alla deriva clerico fascista di una parte dei suoi amici.
Un cristianesimo amico della democrazia
De Gasperi appartenne alla pattuglia di quei grandi statisti europei, ad esempio De Gaulle, Adenauer, Churchill che si erano formati nella prima metà del secolo e che avevano vissuto due guerre mondiali e l’avvento dei totalitarismi. In più portava sulla scena europea la responsabilità, da leader del più grande partito di ispirazione cristiana, di coniugare i principi liberali e sociali della democrazia europea con la fedeltà al dettato evangelico e cristiano, senza disporre dell’appoggio della istituzione ecclesiastica, ancorata ad una visione teocratica del potere, ed anzi lottando contro la sua diffidenza verso tutte le forme di partecipazione democratica. L’alleanza, fondata su una profonda stima ed amicizia, con il Sostituto della Segreteria di Stato, mons. Montini, poi divenuto papa Paolo VI, fu una delle circostanze che lo misero nella condizione di poter svolgere un servizio su entrambi i fronti, quello religioso e quello civile. Con l’effetto di essere non soltanto il protagonista della storia repubblicana, ma anche dell’approdo della dottrina della Chiesa alla democrazia.
Il cammino di un cristianesimo amico della democrazia nel Novecento era stato lungo e difficile. Alcide De Gasperi si è incamminato su questa strada fin da giovane ed è tra coloro che, a livello nazionale ed europeo, maggiormente hanno contribuito a svilupparlo. In occasione del primo Congresso dei cattolici organizzato a Trento dal 28 al 31 agosto 1902, il giovane De Gasperi, allora presidente dell’Associazione Universitaria Cattolica Trentina - nata come la Fuci nel 1896 - condensava gli ideali degli universitari cattolici nelle seguenti parole:
Esprimerò i nostri ideali più concretamente: Cattolici, italiani, democratici! Ruskin disse una volta: “Noi adoperiamo uomini, che considerino come loro prima conquista saper governare sé stessi, come seconda il saper giovare alla patria ed alla società”. Colla nostra formola noi vogliamo quello che desiderava Ruskin.
Proprio per la specificità del suo profilo di politico cristiano e mitteleuropeo il pensiero politico degasperiano non è riconducibile ad una delle posizioni classiche del liberalismo e/o del pensiero democratico ottocenteschi, emersi dopo la Rivoluzione francese come alternativi. Il suo pensiero, fondato sulla compenetrazione tra l’universalismo cristiano incarnato nella dimensione cattolico-romana e le specialità di minoranze nazionali, rappresentò un unicum sulla scena novecentesca e produsse un’idea di democrazia originale molto poco schematica, dove la dimensione delle libertà, personali e collettive, era sottoposta in maniera stringente al controllo di una vocazione alla responsabilità che aveva radici in una visione comunitaria e cristiana della società. De Gasperi ha sottolineato l'importanza della libertà e della democrazia come valori fondamentali per il benessere e la prosperità delle società. La libertà era un valore fondamentale non tanto per una questione di principio, ma perché era la precondizione minima fondamentale per l’esercizio delle responsabilità nei confronti della dimensione privata e della dimensione pubblica della cittadinanza. Non considerava la libertà come un valore assoluto, ma come un principio di liberazione dall’egoismo e come fattore di apertura alla dimensione solidale comunitaria. La dimensione autonomistica trentina operò in De Gasperi nel mitigare ogni pretesa di centralismo sia sul piano politico sia su quello istituzionale. L'importanza di una democrazia rappresentativa fondata sulla centralità del Parlamento fu sempre considerata da De Gasperi la premessa per il buon funzionamento della forma repubblicana.
Per De Gasperi la libertà senza democrazia avrebbe comportato una riduzione del principio liberale a pura forma. La partecipazione democratica alla vita collettiva necessitava di una chiara visione dei fini a cui aspirava la democrazia, i quali dovevano essere sufficientemente forti per sostenere la fatica del suo esercizio. In sintesi, per De Gasperi la libertà e la democrazia erano fattori complementari e interdipendenti, che dovevano essere bilanciati per garantire il benessere e la prosperità delle società. La sua visione della libertà come libertà responsabile e della democrazia come sistema politico della rappresentanza ma anche della partecipazione rimane un importante contributo alla riflessione politica e filosofica sulla società contemporanea.
La modernità del messaggio degasperiano appare oggi meglio di un tempo. Il parlare ossessivo della crisi della «nostra» democrazia gira intorno ad un principio tipicamente degasperiano che non si ha più il coraggio di enunciare: che le basi morali della democrazia non stanno nei suoi effetti, ma nelle intenzioni profonde di chi la costruisce e la vive, perché per fare della democrazia qualche cosa di veramente significativo è necessario che gli individui da un lato si associno in nome di principi universali, ma dall’altro che chi li guida sappia tradurre quei principi in azioni migliorative delle condizioni di vita. Un uso asfittico e sciatto delle regole democratiche si era rivelato alla lunga più pericoloso dell’assolutismo di regimi autoritari contro cui il vecchio liberalismo e il socialismo avevano combattuto. La fiducia che alla fine della Prima guerra mondiale i popoli europei avevano posto nella pace e nel benessere non poteva essere di nuovo impunemente tradita da un ritorno a forme oligarchiche di potere né a forme tecnocratiche di gestione dell’economia che avrebbero paralizzato ogni dinamismo personale e collettivo necessari per voltare pagina. Ciò valeva anche per il progetto europeista. Nel discorso a Strasburgo del 1951 alla Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa disse:
Se noi costruiremo soltanto amministrazioni comuni, senza una volontà politica superiore vivificata da un organismo centrale, nel quale le volontà nazionali si incontrino (...) rischieremo che questa attività europea appaia, al confronto della vitalità nazionale particolare, senza calore, senza vita ideale e potrebbe anche apparire ad un certo momento una sovrastruttura superflua e forse anche oppressiva.
D’altro lato, come disse il 9 ottobre 1949 al Convegno nazionale democristiano della scuola
in democrazia non bisogna scoraggiarsi: lo scoraggiamento è il pericolo principale delle democrazie. Non occorrono mezzi artificiosi, promesse mirabolanti, per infondere coraggio, questi sono mezzi degli assolutismi. Basta la coscienza profonda e la certezza di attuare il proprio proposito. La pazienza è la virtù dei riformatori; riformare vuol dire superare il passato e la pazienza è virtù dei forti, virtù di chi ha fede, di chi ha coscienza dei problemi e li segue con tutta l’attenzione.
Le basi morali della democrazia
In uno dei suoi discorsi più profondi, Le basi morali della democrazia, pronunciato nel 1948 a Bruxelles, De Gasperi legò strettamente la dimensione religiosa e quella politica all’idea dell’amore civile. Dopo aver indicato le condizioni virtuose necessarie perché la democrazia diventasse davvero un fatto di coscienza e non soltanto una forma di governo, si spinse fino a chiamare in causa quell’amore che «si chiama socialmente fraternità ed esige lo spirito di sacrificio nel servizio della comunità». L’amore era la «forza propulsiva» della democrazia, il fondamento di quella filosofia concreta che, assimilata dal popolo, doveva guidare le sorti di un Paese e senza la quale la democrazia non poteva crescere. Nell’amore stavano le «origini evangeliche» dell’aspirazione democratica che avevano permeato gran parte della storia politica della modernità, fino a plasmare le parole d’ordine - liberté, égalité, fraternité - della più importante di tutte le rivoluzioni moderne. Secondo De Gasperi, per prima cosa, ci vuole il riconoscimento della possibilità di mettere in atto uno “sforzo verso la perfezione”, ovvero uno «sforzo di liberazione interiore» fondato su un’aspirazione alla libertà che è al contempo un dono e un compito: qualcosa che si riceve, ma anche una responsabilità. Il primo contenuto di questa filosofia democratica è il riconoscimento del fatto che gli esseri umani “agiscono come liberi e non come schiavi”. Riconoscimento fondato - dice De Gasperi - «sul concetto dell’uomo come “persona umana”»: ovvero, come diceva il Maritain, sul fatto che l’uomo è «più un “tutto” che una parte».
Libertà, uguaglianza e fraternità sono i fattori portanti della democrazia in qualsiasi sua forma. Non c’è democrazia senza il sinolo, la unione profonda, tra queste tre dimensioni. Senza amore non c’è democrazia. L’affermazione è forte e in qualche modo paradossale se la si legge con gli occhi smaliziati dell’attualità. Con tutta evidenza, l’amore a cui De Gasperi fa riferimento non è qualche cosa di passionale o di sentimentale, ma qualche cosa di meditato e di pubblico: è l’amore che «si chiama socialmente fraternità ed esige lo spirito di sacrificio nel servizio della comunità». Condizione di possibilità di una democrazia è dunque - secondo De Gasperi - un amore inteso come capacità di sacrificio e di impegno. Ciò di cui De Gasperi parla è la capacità, concretissima, di spendersi per un’idea e una concezione dell’uomo. È De Gasperi stesso ad offrirci la chiave interpretativa di un amore per l’umanità che in democrazia diviene rispetto per le forme non meno che per i contenuti, e in questo caso essa è di estrema attualità:
Nei momenti più decisivi quando l’elettore democratico è chiamato ad esercitare il diritto di voto, egli deve essere incorruttibile in confronto alle lusinghe dei demagoghi e dei ricatti dei potenti e quando agisce nella manifestazione collettiva deve vigilare perché la sua coscienza morale non venga sommersa dalla marea spesso istintiva e irrazionale della massa.
Con singolare preveggenza storica, quasi anticipasse il Concilio Vaticano II, concludeva il suo pensiero affermando che «non abbiamo il diritto di disperare dell’uomo, né come individuo né come collettività, non abbiamo il diritto di disperare della storia, poiché Dio lavora non solo nelle coscienze individuali, ma anche nella vita dei popoli».
L’antifascismo degasperiano
La generazione di De Gasperi aveva ben chiaro il significato dei fallimenti dei vari esperimenti democratici che a partire dal XVIII secolo avevano accompagnato la storia europea. In un testo privato del 1943, che va sotto il titolo di Testamento politico, reso pubblico solo nel 1977, De Gasperi scrisse:
Veder chiaro una propria meta fondata sulla propria concezione della vita sociale e aver ferma la volontà di raggiungerla, questo importa soprattutto; e poi studiare, elaborare i provvedimenti sociali concreti e i modi possibili di attuarli, nelle condizioni di fatto lasciateci all’interno dalla guerra, e condizionati all’esterno dall’economia mondiale di cui faremo parte. Né può essere nostra l’illusione di un totalitarismo materialista che cerca la giustizia sociale soltanto ed essenzialmente in nuovi provvedimenti legislativi di più equa distribuzione della ricchezza. Le forze elettriche si possono trasportare e distribuire ovunque, ma le forze umane sono libere nel cuore dell’uomo. È la coscienza morale che alla fine decide anche dei rapporti sociali e della buona o cattiva amministrazione e oggi alla fine di un periodo che porta seco tanta corruzione, sentiamo, che nessuna riforma, nessuna legge ci salverà, nessuna giustizia sociale sarà possibile, se tutti e specie le classi dirigenti, cioè gli amministratori dei beni e gli esecutori delle leggi, non diventeranno personalmente più giusti. Qual riforma vorreste tentare con una generazione che ricorda quella biblica: “Generatio quae prodentibus gladios habet ut comedat inopes de terra et pauperes ex hominibus”? (Prov. XXX, 14). Le energie che rinnoveranno la terra dovranno venire dal di dentro, cioè dallo spirito dice Pio XII nella Summi Pontificatus. Oggi tutti sentono che il senso di giustizia personale, evangelico “tratta il prossimo come te stesso”, è il principio vitale dell’Italia e del mondo e la premessa indispensabile di quel solidarismo sociale, che deve ispirare popoli e governi e che noi opponiamo ai miti di razza, di classe, o di partito del totalitarismo statale. Solo a queste condizioni di fraternità “vos in libertatem votati estis” dice S. Paolo (Galat. V, 13).
Queste parole fanno il paio con la sua riflessione sul fascismo di cui fu fiero e saldo oppositore, memore dell’errore compiuto nel 1922 quando il Partito popolare diede un giudizio attendista su Mussolini e dell’errore dell’Aventino, vale a dire il ritiro, dopo l’assassinio di Matteotti, dal confronto politico in Parlamento. Sul fenomeno fascista ebbe modo di riflettere nei lunghi anni di esilio in Vaticano: sulla sua occupazione del potere, sulla potenza di leadership populiste e manipolatrici, sulla debolezza delle classi politiche liberali e, soprattutto, sulla trasformazione negativa della politica in tecnica di persuasione. Il suo antifascismo fu dunque articolato e soprattutto non ideologico, perché, come scrisse in un’importante lettera dell’ottobre 1943 al giovane economista cattolico Sergio Paronetto, doveva essere «una pregiudiziale ricostruttiva» e non doveva ricadere sulle spalle di un intero popolo che era stato ingannato da un uomo spregiudicato e mentitore, ma anche tradito da chi avrebbe potuto opporvisi:
Senza dubbio - scrive De Gasperi - l’immediato domani esige lavoro ricostruttivo, ma l’antifascismo a cui dobbiamo ancora tenere non è quello impastato di rappresaglie, di bandi e di esclusioni, ma è il criterio che ci serve a identificare, misurare e giudicare gli stessi antifascisti e non fascisti: la mentalità antilibertaria della dittatura borghese-repubblicana, la passione rivoluzionaria, militare-monarchica o proletario-comunista, la passione rivoluzionaria dei comitati di salute pubblica, l’ambizione giacobina d’improvvisare riforme, la suggestione del nuovo, dell’ardito a qualunque costo. Lei sa che queste sono mie preoccupazioni vecchie; ma forse non sa che si sono radicate ancora più profondamente nell’animo mio, in questi ultimi mesi di cospirazione (passi la presuntuosa parola) antifascista. Sventuratamente mi persuado sempre più che il fascismo è una mentalità quasi congenita alla generazione più giovane, una mentalità del resto atavica, nella quale riaffiorano molti fermenti del Risorgimento. Noi siamo un po’ nella situazione di Cesare Balbo e (un po’ più sinceri) di Gioberti in confronto degli insurrezionisti alla Mazzini; ma questa volta abbiamo il vantaggio di patrocinare la libertà in contrasto coll’esempio più esiziale dell’antilibertà demagogica: il fascismo. Ed ecco perché, in tale senso, l’antifascismo è una pregiudiziale ricostruttiva. Lei capisce, quest’antifascismo non riguarda la tessera, ma l’animus, i metodi della vita pubblica. [...] Che cosa si sarebbe dovuto fare, come e perché si è peccato, quale e quanta la nostra parte di colpa? Poiché nella dialettica umana il modo polemico suole essere il più efficace per ritrovare se stessi, ecco che l’antifascismo dovrà offrire a noi ancora per un pezzo un vasto campo di ricerche e orientamenti. Aggiungo che politicamente ne abbiamo bisogno anche per difendere la relativa bontà della democrazia e far tacere i cercatori del bene assoluto.
In un comizio a Torino il 24 marzo del 46 pronunciò le seguenti parole:
Prima vi era un dittatore che pensava egli solo per tutti... E poi il cittadino italiano veniva chiamato con la cartolina per approvare semplicemente quello che già era in atto. Il cittadino italiano, per venti anni era diventato una figura, un semplice numero nella grande massa. Era completamente inutile che esso avesse una opinione. Noi, rovesciato il fascismo, abbiamo ridato ad ogni singolo cittadino una personalità umana.
Il patrimonio di una civiltà europea e cristiana
De Gasperi fu tra coloro che avevano un’idea larga e complessa della democrazia, alla quale attribuiva una funzione architettonica fondamentale nella costruzione di una possibile convivenza tra i popoli. La condivisione di principi e regole democratiche era la premessa per la ricostruzione dell’Europa, ma più in generale per lo sviluppo di una «Patria europea» che si presentava come l’occasione irripetibile per assicurare ai popoli europei una lunga prospettiva di pace e di sviluppo. Ma proprio perché la democrazia rappresentava soltanto il minimo comun denominatore nella storia della ricostruzione democratica di un continente di fronte al blocco sovietico, essa andava messa al servizio di un movimento ideale e sentimentale profondo che riuscisse a compensare i limiti delle singole matrici ideali della politica moderna: il liberalismo, il solidarismo socialista operaio e il cristianesimo sociale, tutte in qualche modo responsabili della grande crisi politica e morale degli anni Venti e Trenta del XX secolo. In uno degli ultimi suoi interventi pubblici, nell’aprile 1954, a Parigi in occasione della Conferenza parlamentare europea, De Gasperi sintetizzò in questo modo la questione delle tradizioni storiche concorrenti nell’esercizio della democrazia:
Certo, per l’unità europea lo slargamento del mercato comune è un argomento che offre la sua importanza, ma la libera concorrenza che ne sarebbe la conseguenza presenta anch’essa degli aspetti negativi che possono esser ridotti soltanto dalla forza di un sentimento o di un’idea capace di stimolare la coscienza e la volontà. Questo sentimento, quest’idea, appartengono al patrimonio culturale e spirituale della civiltà comune. Se con Toynbee io affermo che all’origine di questa civiltà europea si trova il cristianesimo, non intendo con ciò introdurre alcun criterio confessionale esclusivo nell’apprezzamento della nostra storia. Soltanto voglio parlare del retaggio europeo comune, di quella morale unitaria che esalta la figura e la responsabilità della persona umana col suo fermento di fraternità evangelica, col suo culto del diritto ereditato dagli antichi, col suo culto della bellezza affinatosi attraverso i secoli, con la sua volontà di verità e di giustizia acuita da un’esperienza millenaria. È vero che queste forze spirituali rimarrebbero inerti negli archivi e nei musei se l’idea cessasse di incarnarsi nella realtà viva di una libera democrazia che, ricorrendo alla ragione e all’esperienza, si dedichi alla ricerca della giustizia sociale; è vero anche che la macchina democratica e l’organizzazione spirituale e culturale girerebbero a vuoto se la struttura politica non aprisse le sue porte ai rappresentanti degli interessi generali e in primo luogo a quelli del lavoro. Dunque, nessuna delle tendenze che prevalgono nell’una o l’altra zona della nostra civiltà può pretendere di trasformarsi da sola in idea dominante ed unica dell’architettura e della vitalità della nuova Europa, ma queste tre tendenze opposte debbono insieme contribuire a creare questa idea e ad alimentarne il libero e progressivo sviluppo.
All’obiezione che questo appello ad una sintesi delle grandi idee politiche dell’Europa contemporanea fosse per De Gasperi solo l’approdo dell’ultima fase della sua vita, quando si aprì la pagina dell’Unione europea, si può rispondere ricorrendo ad altri documenti degasperiani di molto precedenti, i quali mostrano bene che egli maturò presto una visione originale del valore architettonico del confronto politico attraverso forme di cooperazione rafforzata di diverse famiglie politiche intorno ad istituzioni democratiche. Un confronto puramente ideologico sui massimi sistemi o su parole d’ordine rivoluzionarie e/o mitologiche, come quello proposto anche dal comunismo, avrebbe messo in seria difficoltà il cattolicesimo politico, il quale se non poteva appropriarsi della forza dell’istituzione ecclesiastica, pena il cadere nel clericalismo, non poteva nemmeno dissociarsene, pena il vedersi allontanato. De Gasperi fu sempre consapevole che «l’arretratezza e le contraddizioni di cui il mondo cattolico e(ra) portatore» ricadevano inevitabilmente sul progetto politico democristiano della «ricomposizione nazionale su base cattolica» o, in altre parole, della formazione di un “partito della maggioranza” capace di impedire la ricostruzione di una destra antidemocratica e di contenere la pressione di una sinistra antisistema. Solo una chiara presa di coscienza dei limiti di ogni ideologia, tanto più di una impossibile ideologia cattolica, poteva consentire di inserire il cattolicesimo politico sulla scena attraverso il ricorso a scelte politiche di rilevanza costituzionale, distinguendo tra la dimensione religiosa e la dimensione civile della dignità della persona umana promossa dal cristianesimo (cfr. La nostra patria Europa).
È sempre una lunga vigilia
Molto interessante è rileggere la premessa Al Lettore che De Gasperi nel 1946 pubblicò in un volumetto, con un titolo che divenne celebre, Studi ed appelli della lunga vigilia, in cui raccolse quanto aveva scritto tra il 1928 e il 1943 durante gli anni in cui era riparato in Vaticano. Oltre a spiegare che allora scrivere di storia fosse stato l’unico modo per sfuggire alla censura fascista, mostra chiaramente come la sua ricerca fosse ispirata dal desiderio di un confronto più diretto con le altre tradizioni ed esperienze politiche moderate e di ispirazione cristiana: la ricostruzione storica sul Zentrum tedesco voleva «ricordare ai cattolici italiani l’esempio delle lotte parlamentari sostenute da Windthorst e compagni contro la formidabile dittatura di Bismarck»; gli studi sul corporativismo servivano per dimostrare che quanto di buono c’era nel corporativismo «risaliva ad almeno cinquanta anni prima del fascismo e che in ogni caso lo spirito del sistema fascista, asservito alla dittatura del partito unico era essenzialmente diverso»; la recensione polemica che fece alla Storia d’Europa di Croce era «formalmente [...] una critica contro certe affermazioni di Croce; ma era chiaro che sotto questa veste polemica l’autore mirava a ricordare ai cattolici i più insigni maestri della loro scuola che nel secolo XIX parlarono ed agirono per la libertà politica e la dignità umana».
Studiare il contributo di De Gasperi alla storia della democrazia italiana ed europea è dunque molto istruttivo perché ci riporta indietro nel tempo quando anche in Italia, dopo la breve parentesi mazziniana o cavouriana alle origini del Regno, ci si confrontò davvero sulle finalità di una compiuta democrazia, per superare i disastri dei regimi totalitari e per non ridursi ad una, impossibile, restaurazione dello Stato liberale. Con la Seconda guerra mondiale i popoli europei avevano troppo sofferto per accontentarsi di un ritorno all’antico, tanto più che a renderlo impossibile pesava il fallimento delle grandi ideologie ottocentesche, liberali e laico-socialiste, che erano uscite sconfitte dal confronto con le società di massa. Anche per i cattolici la discontinuità segnata dall’esperienza di anni di guerra fu molto forte e rappresentò l’elemento decisivo per consentire che si passasse da una «lunga vigilia» fatta di attese, di diffidenze e anche di paure, all’azione e all’impegno diretto per una ricostruzione del Paese. Ma tutto ciò non fu il frutto di una improvvisazione, bensì di una matura consapevolezza storica e di una straordinaria lungimiranza spirituale.
Bibliografia degasperiana
Bibliografia degasperiana, in Edizione nazionale dell’Epistolario di Alcide De Gasperi, https://www.epistolariodegasperi.it/#/bibliografia.
Opere di De Gasperi
De Gasperi A. (2016 sgg.), Lettere, Edizione nazionale dell’Epistolario di Alcide De Gasperi, https://www.epistolariodegasperi.it.
- (2006-2009), Scritti e discorsi, a cura di P. Pombeni, Bologna, Il Mulino, IV tomi, X voll., anche in digitale: https://alcidedigitale.fbk.eu
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Moro R., Rapone L. (2018, a cura di), Il cattolicesimo politico nell’Italia repubblicana, numero monografico di «Mondo contemporaneo», n. 2-3.
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Torresi T. (2020, a cura di), Un compito magnifico. Alcide De Gasperi e la difesa della democrazia, Edizioni Camaldoli, Camaldoli.
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