Candidato alla Camera a sua insaputa, eletto e dichiarato ineleggibile
Nelle Memorie della mia vita (1922, ed. Treves) Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842 - Cavour, 17 luglio 1928) scrisse di aver appreso di essere candidato alla Camera dalla «circolare» in cui Antonio Riberi, deputato uscente, comunicò che non si sarebbe ripresentato e «senza dir(gli) niente» avanzò il suo nome. Aggiunse: «Fui appoggiato anche dagli altri due deputati che si ritiravano [Luigi Ranco, ingegnere, e Spirito Riberi, avvocato, NdA]; ma, non tenendoci molto, rifiutai di andare a fare il solito giro di campagna elettorale». La realtà fu del tutto diversa. Va ricordata perché essa incise sulla maturazione di Giolitti dall'alta burocrazia alla politica e lo segnò per sempre. La sua candidatura venne affacciata il 9 settembre 1882 in una riunione di notabili confluiti dal Piemonte a Dronero, cittadina del Cuneese, per lo scoprimento del monumento di Gustavo Ponza di San Martino, giureconsulto e ministro del regno di Sardegna. Lì il conte Deodato Pallieri, che da vent'anni propiziava la carriera di Giolitti (entrato in magistratura nel 1862 e dal 1869 “prestato” al ministero delle Finanze) assicurò a Spirito Riberi la nomina a senatore se avesse rinunciato alla Camera. Però, per sua ammissione, a volerlo deputato fu anzitutto il presidente del Consiglio Agostino Depretis, massone, che il 21 agosto, in vista delle elezioni con ampliamento del diritto di voto in collegi plurinominali e scrutinio di lista, lo nominò consigliere di Stato ponendolo al riparo dal rischio essere estratto a sorte tra i deputati eccedenti il numero riservato ai pubblici dipendenti e di decadere dalla carica, come, per esempio, era accaduto a Giosuè Carducci nel 1876.
Con una lettera del 16 settembre il dronerese Francesco Blanchi, fratello di un prestigioso notaio, propose a Giolitti la candidatura. Altri seguirono. Sondati alcuni deputati e notabili, egli accettò ma, fiero della «storia di famiglia» e di quanti (a cominciare dagli zii materni, Melchior e Luigi, magistrati, e Alessandro Plochiù, generale: tutti scapoli) avevano investito nella sua ascesa, precisò che non intendeva «fare fiasco» e rischiare «una meschina figura». A istruirlo e a dettargli quasi parola per parola la lettera programmatica agli elettori del I Collegio di Cuneo, comprendente gli ex collegi uninominali di Cuneo, Borgo San Dalmazzo e Dronero, furono alcuni amici influenti: Angelo Garelli, procuratore del Re a Cuneo, l'ex deputato Agostino Moschetti e Nicolò Vineis, massone e direttore del quotidiano cuneese «La Sentinella delle Alpi», che da quasi trent'anni era artefice dei deputati locali. Dopo turbinosa altalena di candidature Giolitti scese in campo in una terna comprendente Sebastiano Turbiglio, massone, docente di storia della filosofia alla «Sapienza» di Roma, e Luigi Roux, direttore della «Gazzetta Piemontese» (futura «La Stampa») di Torino, contro il quale si schierò Vittorio Bersezio, già direttore dello stesso quotidiano, storico e autore delle famose Le Miserie 'd Monsù travet.
Il 15 ottobre Giolitti vergò laboriosamente la «lettera agli elettori» e la mandò a Garelli che ne cancellò un paio di frasi a suo avviso controproducenti e la affidò alla «Sentinella» che la pubblicò il 21 con precedenza sulla «Gazzetta Piemontese». Su suggerimento di Moschetti l'aspirante deputato scrisse l'inciso famoso: «Allorché gli uomini di Stato più eminenti e gli operai sono concordi in un programma, vi ha la certezza che questi risponde ai veri bisogni del Paese». Dall'esordio si mostrò “politico” autentico: capace di ascolto, di sintesi e animato da princìpi saldi e condivisi. Non si mosse da Roma ma scrisse lettere personali a decine di notabili (sindaci, pretori, farmacisti, militari, il padre di un parroco della sua valle Maira...) sollecitandone il sostegno. Uomo dei numeri, su un ampio foglio abbozzò la previsione del voto: gli elettori erano 13.086 anziché i 5.000 del 1880. Contava di ottenerne un terzo. Alle 19 del 29 ottobre il procuratore Garelli gli telegrafò: era il primo eletto con 5310 preferenze su 6864 votanti. Un successo clamoroso.
Sennonché il 13 marzo 1883 la Giunta permanente sulle ineleggibilità e incompatibilità parlamentari stabilì che sia lui sia Pietro Mazza erano ineleggibili perché retribuiti dall'erario con propine per le loro funzioni di consiglieri di Stato. Giolitti se ne adontò perché la pronuncia ne metteva in discussione l'onestà morale oltre che politica, quasi avesse truffato gli elettori. Approntò la difesa. Il 21 aprile la illustrò in Aula. Aveva sì percepito 20 lire per ogni pratica esaminata, pari a una media di 514 lire all'anno (lo stipendio di un maestro), ma le aveva sbrigate quasi sempre a casa propria facendo risparmiare allo Stato «le spese di locale, carta, oggetti di cancelleria, lumi e simili». Su ruchiesta di approvare “per alzata” la proposta di decadenza i presenti rimasero seduti.
Per un soffio l'Italia rischiò di non averlo deputato, né ministro del Tesoro e delle Finanze nel governo presieduto da Francesco Crispi (1889-1891), né cinque volte presidente del Consiglio e ministro dell'Interno, di non avere l'età giolittiana e altro ancora. Gli otto mesi dalla candidatura alla Camera alla conferma dell'elezione a deputato di «homines abhorrentes servitium et amatores libertatis inctintu naturali» (come gli aveva scritto Pallieri) furono per lui di noviziato alla “politica” e innervarono la sobria “retorica” dei suoi interventi in Parlamento sino al 16 marzo 1928.
Amministratori e politici? “Una riunione di amici”
Meritano di essere passati in rassegna i pochi discorsi da lui pronunciati al di fuori delle Camere dal 1886 al 1899 (anche per difendere la propria condotta dalle accuse mossegli in connessione con lo “scandalo della Banca Romana” che nel 1893 gli costò le dimissioni da presidente del governo), specie nel Consiglio provinciale di Cuneo di cui fu membro dal 1886 al 1925. Dal 1882 al giugno 1900 Giolitti presentò via via il suo programma tramite i giornali o con discorsi in “banchetti elettorali”. Tornato ministro dell’Interno nel governo presieduto da Giuseppe Zanardelli (14 febbraio 1901), sospese quella forma di dialogo, che pur andava oltre i confini del collegio, quasi non avesse altro da aggiungere al discorso di Busca del 29 ottobre 1899, il più magistrale dai tempi di Camillo Cavour a giudizio di Urbano Rattazzi jr che gliene aveva suggerito parola per parola le frasi principali. Privilegiò lo scranno di consigliere provinciale.
Lasciata il 16 marzo 1905 a Tittoni (poi sostituito da Sandrino Fortis) la guida del governo, per motivi di salute molto più gravi di quanto confidò al re e ricordò nelle Memorie, il 14 agosto Giolitti fu eletto presidente del Consiglio provinciale di Cuneo. In tale veste espose la sua visione di “buona amministrazione”:
Il nostro consesso, disse, non è che una riunione di amici che si stimano e si amano, animati dal solo intento di procurare il bene degli amministrati, non divisi da dissensi di natura politica, poiché tutti sono devoti alle patrie istituzioni; e, se qualche volta vi è lotta, ciò dipende unicamente dal fatto che ognuno vede le cose dal proprio punto di vista.
Da quel seggio rese omaggi non rituali al re (13 agosto 1906, 10 agosto 1908, 14 agosto 1911,14 novembre 1912 ,12 novembre 1913; cfr. Giolitti 1952; Mola 1971).
Uso a rivolgersi al Paese nei discorsi elettorali o in Parlamento, quando non fu al governo e soggiornava in Piemonte senza l’opportunità di sedute del consesso cuneese, rarissime volte lo statista parlò in sedi non istituzionali. Il 2 ottobre 1910 pronunciò poche ma politicamente eloquenti parole all’inaugurazione della nuova sede della Cassa di Risparmio di Cuneo. Mentre a Roma, da lui propiziato e assecondato, era sindaco Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia, e alla guida di comuni e province si moltiplicavano i “blocchi popolari” di liberalprogressisti, radicali e socialriformisti (non di rado promossi da reti massoniche), nel silenzio “ossequioso e ammirante” dei presenti Giolitti scandì che la Cassa era il punto di convergenza e di collaborazione «delle idee clericali e socialiste, moderate e radicali»: «La questione sociale, aggiunse, noi la risolviamo elevando le classi più umili a livello di quelle più ricche».
Pochi giorni prima era stato ricevuto segretamente da Vittorio Emanuele III nel Castello di Racconigi. Si avvicinavano le celebrazioni del cinquantesimo del regno. Urgeva un cambio al vertice del governo. Da Cuneo Giolitti fece sapere di non aver preconcetti nei confronti di chi aveva veduto in Luigi Luzzatti l’argine laico contro l’avanzata dei cattolici deputati. Al tempo stesso non coltivava alcun altro pregiudizio: «Ognuno valga per ciò che sa e per il lavoro che compie». Le ideologie appartenevano al passato remoto, anche perché premevano impegni che nessuno dei presenti immaginava: l’impresa di Libia. Non solo Marx era stato mandato in soffitta (o così gli pareva o sperava). La constatazione della conseguita “pace sociale” era premessa indispensabile per affrontare nuove severe prove, giacché, avrebbe detto dopo il suo avvio, «nessuna guerra moderna può svolgersi senza la decisa volontà del popolo che la fa»: criterio che lo condusse a scuotere il capo dinnanzi all’interventismo del 1914-1915, lontano dal «Paese che lavora».
Anche da sedi periferiche lo statista mandò messaggi cifrati, attesi da chi il 30 marzo 1911, dopo il cinquantenario della proclamazione di Roma a capitale d’Italia (una data ancora disputata, lasciata celebrare a Luzzatti), gli avrebbe affidato per la quarta volta il governo del Paese.
All’inaugurazione della prima Camera eletta col suffragio quasi universale maschile (1913), dopo quasi tre lustri di governo Giolitti non venne affatto scosso da chi, come il socialista Giuseppe Raimondo, ne annunciava il tramonto o, come Arturo Labriola, sentenziava che vi era «da una parte un’Italia rivoluzionaria nazionalista e dall’altra un’Italia socialista, ma non c’e(ra) più un’Italia giolittiana». Lo statista sapeva bene che vi era la cattolica, maggioritaria nel Paese, e che solo il cosiddetto “patto Gentiloni”, approdo della linea avviata con la sospensione mirata del non expedit da parte di Pio X sin dal 1904 (come chiarito da Gianpaolo Romanato nella biografa di Pio X), aveva scongiurato divenisse più clericale di quanto, per contrapposti motivi, molti volevano. A quel punto, infatti, poteva considerare in gran parte attuato il programma enunciato il 21 settembre 1900 in risposta a quello avanzato da Sidney Sonnino (Quid agendum) all’indomani del regicidio di Monza («il più atroce dei delitti» ne scrisse Giolitti). Conscio che l’Italia aveva necessità di riforme profonde nell’amministrazione della giustizia, nel sistema scolastico e nei rapporti tra capitale e lavoro, lo statista affermò che queste andavano varate subito ma avrebbero dato frutti solo sul lungo periodo. Però per evitare che «il partito monarchico divent(asse) in molta parte d’Italia una minoranza» occorrevano misure immediate e incisive. I fasci siciliani, i moti di Lunigiana del 1894 e la vasta sommossa/insurrezione del 1898 avevano indicato la via maestra: il riordino completo della fiscalità per scongiurare il declino della piccola proprietà, che costituiva «la più valida difesa dell’ordine sociale». Le classi dirigenti, egli scrisse, dovevano persuadersi che «senza qualche sacrificio esse non possono sperare durevole quella pace sociale senza cui non vi è sicurezza né per le persone né per gli averi». Lanciò un monito severo, quasi una provocazione: «Io deploro quanto altri mai la lotta di classe; ma, siamo giusti, chi l’ha iniziata?».
Venti di guerra tra irredentismo, espansione coloniale e crisi europea
Nel primo decennio del Novecento, mentre una moltitudine di movimenti, gruppi ideologici, circoli letterari, artistici e riviste davano voce alla “rivolta ideale” e dai salotti borghesi molti si appellavano alla “piazza” contro il grigiore del governo, Giolitti varò leggi speciali per accelerare il risanamento di regioni e plaghe arretrate. Al conterraneo Luigi Facta spiegò che l'Italia doveva evitare di avventurarsi in una guerra con l'impero austro-ungarico perché avrebbe dovuto dirottarvi le sue risorse e sottrarle allo sviluppo del Mezzogiorno, interrompendo l'unificazione effettiva dell'Italia e così spingendo alla rivoluzione e alla crisi della monarchia: obiettivo supremo dei repubblicani che, fece notare, erano i precipui alfieri dell'irredentismo.
Il 28 luglio 1911 il ministro degli Esteri Antonino Paternò Castello di San Giuliano mandò a Giolitti e al sovrano il «memoriale» segretissimo sulla «probabilità» che entro pochi mesi l’Italia potesse essere «costretta a compiere la spedizione militare in Tripolitania». Ne nasceva la
probabilità (probabilità non certezza) che il colpo, che il successo di tale spedizione darebbe al prestigio dell’Impero Ottomano, spinga all’azione contro di esso i popoli balcanici, entro e fuori l’impero, oggi più che mai irritati contro il regime centralista giovane-turco, ed affretti una crisi, che potrebbe determinare e quasi costringere l’Austria ad agire nei Balcani.
All’orizzonte gonfiava la tempesta della guerra europea, temuta, schivata, sempre incombente. Chi avrebbe dato fuoco alla miccia?
Il programma del settembre 1900 per la unione dei partiti liberali giunse a una seconda svolta. Dopo l'incontro segreto del 16 settembre nel Castello di Racconigi, ove il re fissò con lui l'agenda dell'impresa di Libia, e dopo la dichiarazione di guerra all'impero turco ottomano, il 7 ottobre 1911 Giolitti ne spiegò i motivi al Teatro Regio di Torino:
Politica democratica non è sinonimo di politica fiacca, di politica impotente; la storia di tutti i popoli e gli avvenimenti che succedono sotto i nostri occhi, dimostrano invece che i governi i quali sanno di rappresentare tutte le classi sociali sono i più gelosi custodi dei grandi interessi del loro paese; appunto perché non rappresentano interessi di persone o di limitate classi, ma quelli di tutto il popolo, essi sentono più vivamente il dovere di non pensare solamente alle questioni di immediato interesse, ma di assicurare anche il lontano avvenire del paese. La politica estera non può, come la politica interna, dipendere interamente dalla volontà del governo e del Parlamento ma, per assoluta necessità, deve tenere conto di avvenimenti e di situazioni che non è in poter nostro di modificare e talora neanche di accelerare o ritardare. Vi sono fatti che si impongono come una vera fatalità storica, alla quale un popolo non può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del governo di assumere tutte le responsabilità, poiché una esitazione o un ritardo può segnare l’inizio della decadenza politica, producendo conseguenze che il popolo deplorerà per lunghi anni, e talora per secoli.
Parole di presidente del governo di uno Stato che celebrava il primo mezzo secolo da fabbro delle proprie fortune.
Profondamente radicato nella tradizione del Vecchio Piemonte, ove il lavoro era terreno di sfida civile dai tempi delle Associazioni agrarie di metà Ottocento, animato da una visione biblica del cammino dei popoli, il 14 agosto 1914, inaugurando a Cuneo l'ospedale per l'infanzia “Regina Elena” meditò ad alta voce. Bisognava «procurare alla Patria cittadini futuri sani ed equilibrati, perché bastano due generazioni ben curate e ben educate a far rifiorire i destini di una Nazione». Lo stesso giorno, «in un momento angoscioso per tutta l’Europa e grave per il nostro Paese», dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo Giolitti dichiarò la solidarietà al governo presieduto da Antonio Salandra: «Senza distinzione di partiti, appoggeremo lealmente e fortemente in quella via che creda di seguire per la tutela dei nostri diritti e per assicurare all’Italia il posto che le spetta nel mondo». Non era un’apertura di credito illimitata. Cinque giorni prima aveva infatti confidato al ministro degli Esteri, San Giuliano, la priorità di «coltivare i nostri buoni rapporti con l’Inghilterra, e fare quanto ci è possibile per limitare o abbreviare la durata e le conseguenze del conflitto». Senza entrarvi. Gli eventi ebbero tutt’altro corso: la firma dell'arrangement di Londra all’insaputa del Parlamento e del governo stesso (26 aprile 1915), la denuncia dell'alleanza con Berlino e Vienna (3 maggio), la dichiarazione di guerra contro l’Impero austro-ungarico in nome del “sacro egoismo” (23 maggio con effetto dall'indomani).
Da quando il 17 maggio 1915 dovette lasciare precipitosamente Roma perché il governo non ne garantiva l’incolumità da un attentato settario ormai in corso, lo statista riparò a Cavour, in Piemonte. Al di là di quanto disse nello scambio epistolare e in confidenze ad amici (come Olindo Malagodi, che le raccolse: le leggiamo in Conversazioni di guerra, curate da Brunello Vigezzi), anziché dal seggio di deputato, Giolitti parlò dallo scranno di presidente del consiglio provinciale. Il 5 luglio 1915 dichiarò:
Quando il Re chiama il paese alle armi, la provincia di Cuneo, senza distinzioni di parti e senza riserve, è unanime nella devozione al Re, nell’appoggio incondizionato al Governo, nell’illimitata fiducia nell’esercito e nell’armata”, impegnati in un conflitto dal quale dipendeva “l’avvenire dell’Italia per un lungo periodo della sua storia.
La sua realistica previsione che la guerra sarebbe durata a lungo fu confermata dai fatti, di mese in mese più tragici. Non lo rasserenarono neppure il successo contro la “spedizione punitiva” austroungarica e l’ingresso in Gorizia, a cospetto di monti per altri due anni insuperati. Constatava l’imparità dei governi Salandra e Boselli rispetto al dramma in corso in Europa.
Per una pace nella giustizia interna e internazionale
Il 14 agosto 1916 auspicò, con la vittoria, «la cessazione del più immane macello di uomini che lo storico ricordi e una pace sicura». Un anno dopo indicò le fondamenta della futura ricostruzione:
sarebbe pericolosa illusione credere che si possa riprendere con poche varianti l’andamento della politica estera a base di trattati segreti e della politica sociale ed economica del periodo storico che ha preceduto la guerra. Quel periodo è definitivamente chiuso, come fu chiuso il periodo dell’antico regime dalla rivoluzione francese. Questa guerra, che non è più solo un urto di eserciti ma un conflitto di popoli che vi gettarono senza misura vite ed averi, ha dimostrato la necessità di profonde mutazioni nella condotta della politica estera, ha messo in vista le eroiche virtù del nostro esercito e del nostro popolo, ma, d’altra parte, ha in stridente contrasto rilevato insaziabile avidità di danari, disuguaglianze nei sacrifici, ingiustizie sociali; ha mutato le condizioni della pubblica economia, ha concentrato ricchezze in poche mani, ha accresciuto in modo senza precedenti le ingerenze dello Stato e quindi le responsabilità dei governi. È inevitabile che, a guerra finita, lo spirito pubblico, specialmente nelle classi popolari, si trovi profondamente mutato. Quando milioni di lavoratori delle città e della campagna, la parte più virile della nazione, affratellati per anni dai comuni pericoli, sofferenze e disagi eroicamente sopportati per la patria, torneranno alle povere loro case, ritorneranno con la coscienza dei loro diritti e reclameranno ordinamenti improntati a maggiore giustizia sociale che la patria riconoscente non potrà loro negare...
Poche settimane dopo l’Italia si misurò con la rotta di Caporetto (24 ottobre) e l’Europa con la “rivoluzione d’ottobre” in Russia (7-16 novembre).
Il 12 agosto 1918 ancora una volta da Cuneo Giolitti parlò al Paese:
Possano gli avvenimenti bellici del 1918 avvicinare il termine della orrenda carneficina e fare che una giusta pace consenta al mondo il ritorno alla vita civile, al progresso, alla libertà. Ma sia pace e non tregua, non ritorno alla politica degli armamenti, preparazione di nuovi conflitti. L’immane catastrofe che si abbatté sul mondo persuada i popoli tutti della assoluta necessità di grandi riforme negli ordinamenti interni ed internazionali, fondandoli sulla giustizia e sulla libertà, poiché se le assemblee dei rappresentanti dei popoli continueranno a non avere sulla politica estera un’influenza decisiva, e se i rapporti tra le Nazioni continueranno ad essere retti con le vecchie norme della diplomazia, sarà vano sperare in una pace sicura e i progressi delle scienze non serviranno ad assicurare ai nostri figli un migliore avvenire, ma a rendere i futuri conflitti così orribili da far impallidire il ricordo di quelli ai quali ora assistiamo.
Le difficoltà di instaurare la “pace sicura” ne ispirarono anche il breve discorso al Consiglio provinciale di Cuneo il 12 dicembre 1918 (non incluso in Giolitti 1952):
Nella seduta d’agosto scorso, commemorando la gloriosa battaglia del Piave, ne traevamo la speranza che fosse prossima la definitiva vittoria. I fatti superarono ogni speranza: non solo il nemico è vinto, non solo è distrutto l’esercito nemico, ma sono distrutti anche gli imperi nemici, e il principio di nazionalità trionfa in tutta l’Europa. La riconoscenza del popolo italiano verso i valorosi nostri soldati e verso i condottieri che li guidarono alla vittoria sarà eterna, come eterno sarà il nome degli eroi che sacrificarono la vita per la salvezza e la grandezza della Patria. L’ingresso trionfale del Re d’Italia a Trento e Trieste, e la certezza di una pace che soddisfi tutti gli italiani, segnano l’inizio di una era nuova nella storia d’Italia. Questa sarà èra di libertà, di giustizia sociale, di fecondo lavoro, di progresso, di prosperità, se la pace secondo i principi del grande presidente Wilson, sarà una pace definitiva fra i popoli, e se le classi ricche accetteranno con patriottico slancio i sacrifici finanziari che occorrono per tenere alto il credito dello Stato, delle Province e dei Comuni, e per mantenere gli impegni assunti verso le classi popolari, e specialmente verso i combattenti, i mutilati e le famiglie dei morti in guerra. L’eroico esempio di milioni di soldati che alla patria offersero la vita dovrà far parere lieve qualunque sacrificio finanziario.
Nelle forme severe dettate dallo stato di guerra, col discorso del l0 agosto 1917 rivolto molto al di là dello stesso Consiglio lo statista propose di trasferire dal re al Parlamento la deliberazione dei trattati internazionali. Giolitti ne fece il caposaldo del suo programma postbellico. Lo enunciò a Dronero il 12 ottobre 1919 e lo ribadì ripetutamente alla Camera. Tornato a capo del governo, il 24 giugno 1920 presentò il disegno di legge 543, significativamente sottoscritto da tutti i ministri. Malgrado ne fosse indicata l’urgenza, non fu preso in esame nel corso della XXV legislatura. Il 14 giugno dell’anno seguente esso venne nuovamente presentato, ancora di concerto con tutti i ministri, ma non ne fu avviato l’esame. Il nodo della sovranità rimase qual era. Se ne videro le conseguenze il 10 giugno 1940 quando per la seconda volta in un quarto di secolo il regno d’Italia entrò in guerra contro grandi potenze senza l’approvazione preventiva delle Camere e senza preparazione né mezzi adeguati al prevedibile impegno.
Tornato in Aula (da osservatore non di rado amareggiato e quindi poco propenso a prendervi la parola), dal seggio di presidente del Consiglio cuneese nel dopoguerra Giolitti riassunse il programma nazionale «in una sola parola: lavorare» (12 agosto 1919). Urgevano ordine pubblico, disciplina e scongiurare il collasso finanziario dello Stato. La sovranità sulla politica estera rimase il perno dei suoi ragionamenti, perché ne dipendevano le spese militari, il ritorno alla normalità, il superamento delle tensioni nel Paese. Vi tornò nel discorso di Dronero del 12 ottobre 1919. Senza mai evocare la Corona e le sue prerogative, denunciò «la più strana delle contraddizioni» degli ordinamenti italiani:
Mentre il potere esecutivo non può spendere una lira, non può modificare in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, non può creare né abolire una pretura, un impiego d’ordine, senza la preventiva approvazione del parlamento, può invece, per mezzo di trattati internazionali assumere, a nome del Paese, i più terribili impegni che portino inevitabilmente alla guerra; e non solo senza le approvazioni del Parlamento, ma senza che né Parlamento né Paese ne siano, o ne possano essere in alcun modo informati (...). Nel 1848, quando fu sancito l’articolo 5 dello Statuto, il segreto diplomatico era norma di tutti gli Stati d’Europa, e le guerre erano fatte da eserciti professionali; ora invece (...) le guerre sono diventate conflitti di popoli, che si gettano uno sull’altro con tutta la massa della popolazione atta alle armi, con tutti i mezzi di distruzione dei quali possono disporre, e il conflitto cessa soltanto quando una delle parti è in completa rovina. È quindi vera necessità storica che i rapporti internazionali siano ora regolati dai rappresentanti dei popoli, sui quali è giusto che cadano queste terribili responsabilità (...). Come corollario necessario dell’autorità data sulla politica estera al parlamento, la dichiarazione di guerra dovrà sempre esser sottoposta in precedenza alla sua approvazione. Sarebbe una grande garanzia di pace se in tutti i paesi fossero le rappresentanze popolari a dirigere la a politica estera; poiché così sarebbe esclusa la possibilità che minoranze audaci, o governi senza intelligenza e senza coscienza riescano al portare in guerra un popolo contro la sua volontà.
Lo Statuto era flessibile. Se il Parlamento avesse voluto modificarlo non avrebbe incontrato ostacolo nel sovrano costituzionale, pronipote del Carlo Alberto che aveva sostituito il tricolore italiano alla “azzurra coccarda sabauda” e aveva decretato l’uguaglianza dei regnicoli al di là delle confessioni religiose lasciando qual era l’articolo 1 «un gufo impagliato a guardia della porta di un diruto castello», come disse il massone Giovanni Bovio alla Camera per spiegare perché neppure gli anticlericali ne chiedessero l’abolizione. Concetti analoghi lo statista ripeté al quotidiano di Olindo Malagodi, “La Tribuna”, il 27 maggio 1920: urgeva superare il discredito del parlamento, restituendogli
il pieno esercizio del potere legislativo, il controllo delle pubbliche spese e sull’ordinamento dei pubblici servizi; ma gli si devono dare anche nella politica estera poteri eguali a quelli che gli spettano nella politica interna e finanziaria, modificando l’articolo 5 dello Statuto e istituendo nei due rami del Parlamento commissioni permanenti di controllo sulla politica estera.
Toccava al Parlamento, non a Vittorio Emanuele III, fare la prima mossa.
L'amaro crepuscolo di uno statista liberale
Rassegnate le dimissioni da presidente del Consiglio, Giolitti vide allontanarsi la soluzione del problema che costituiva il porro unum et necessarium della sua visione della Nuova Italia. Non vi tornò più né in Aula né nelle poche dichiarazioni politiche pubbliche. Nell’ultimo discorso agli elettori (Dronero, 16 marzo 1924) ripercorse rapidamente «le ragioni dell’azione politica». Evocò la guerra implacabile condottagli contro dal partito popolare e citò la lettera a Malagodi («che cosa può venire di buono per il paese da un connubio don Sturzo-Treves-Turati?»). Non disse invece parola sulla crisi di fine ottobre 1922. Il governo che ne era nato non era parlamentare ma costituzionale, nominato dal Re. Aveva prestato giuramento di fedeltà al re e allo Statuto, si era presentato alle Camere e aveva ottenuto la fiducia «dai partiti liberali e democratici alla quasi unanimità». Era stato il Parlamento, non il governo, a varare la nuova legge elettorale, detta “Acerbo” dal nome del suo relatore, approvata a maggioranza dalla commissione presieduta da Giolitti stesso, per parte sua favorevole al ritorno al collegio uninominale, «più rispondente all’essenza del sistema rappresentativo ed al sentimento del nostro popolo che desidera scegliere liberamente e direttamente i suoi rappresentanti». Lo statista concluse evocando le glorie del partito liberale e la propria coerenza «in nome dei principi di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di devozione alla monarchia». Il proposito di trasferire dalla Corona al Parlamento l’«approvazione dei trattati internazionali», ovvero la sovranità nazionale, era ormai sfumato sull’orizzonte.
Il 7 febbraio 1924 aveva presieduto il consiglio provinciale di Cuneo. Vi rivendicò di aver salvato l’indipendenza di Fiume e si dichiarò lieto che il governo Mussolini avesse completato l’opera proclamandone l’annessione. Rieletto deputato nelle elezioni del 6 aprile, nulla disse nella seduta consiliare del 15 maggio, se non dichiarare aperta e sciolta la seduta (in due sessioni, mattutina e pomeridiana), sempre preceduto al prefetto che ope legis in veste di commissario del re dichiarò aperti e chiusi i lavori.
Il 13 ottobre 1924 Giolitti fu rieletto presiedette del consesso (37 preferenze, 5 schede bianche e due voti dispersi). Ringraziò cordialmente i colleghi per averlo confermato a ricoprire l’ufficio ma non disse altro. Non presenziò alla seduta del 22 dicembre 1924, presieduta dal suo fido Marco Aurelio Saluzzo di Saluzzo. Tornò in Consiglio il 20 aprile 1925. Il 10 agosto, benché assente, fu rieletto ancora una volta presidente con 29 preferenze su 37 presenti. Il 15 ottobre presiedette i lavori. Sapeva che era ormai giunto per lui “il momento del collocamento a riposo”, ma poiché i consiglieri così non avevano voluto, avrebbe obbedito di buon grado al loro voto continuando a tenere l’alto ufficio conferitogli con mandato quadriennale.
Sennonché il 17 dicembre ventitré consiglieri sottoscrissero la richiesta che il presidente della Provincia fosse politicamente allineato col governo nazionale. L’amministrazione locale attendeva un cospicuo finanziamento straordinario per la prosecuzione di opere pubbliche avviate da anni. Come a Roma voleva Benito Mussolini, furono i cuneesi (gli esponenti del partito popolare, parecchi liberali, gli sparuti nazionalfascisti) a togliere a Giolitti la tribuna alternativa all’Aula parlamentare per rivolgersi al Paese, come aveva potuto fare negli anni della grande guerra. Il 21, infatti, come documenta il Carteggio lo statista si dimise da presidente e, “«per elementare senso di dignità», da rappresentante dei mandamenti di Prazzo e San Damiano. Lo comunicò agli elettori da Roma, donde aveva datato il programma di aspirante deputato il 15 ottobre 1882. Là egli era stato mandato dagli elettori politici e là rimase, almeno idealmente, deputato in carica sino all’ultimo giorno di vita. Tanti cuneesi lo avevano tradito o non l’avevano mai capito.
Fu un triste Solstizio d’Inverno per quel partito liberale che nel discorso del 16 marzo 1924 Giolitti aveva chiesto di votare nel ricordo di Cavour, Azeglio, Rattazzi, Lanza e Sella. Esso ormai apparteneva al passato. Il 18 gennaio 1926 il consesso prese atto delle sue dimissioni. Il consigliere Giorgio Tornari cercò invano di leggerne o farne leggere il testo. Il presidente provvisorio della seduta si oppose perché, a suo dire, era già iniziata la votazione. “A larga maggioranza” il consesso approvò le dimissioni senza la rituale proposta di ripensamento. Annualmente continuò a essere assegnata la borsa di studio intitolatagli il 23 ottobre 1922 nel suo ottantesimo compleanno.
I discorsi del 12 ottobre 1919 e del 16 marzo 1924 vanno confrontati con le relazioni di presentazione dei disegni di legge del suo quinto governo: un’eredità impegnativa non solo per quelli immediatamente seguenti ma anche per gli anni del secondo dopoguerra: controllo delle industrie da parte dei lavoratori, obbligo dell’istruzione, trasformazione del latifondo e colonizzazione interna a coronamento del disegno di legge sulla cittadinanza presentato alla Camera il 7 luglio 1911, trasformato nella legge 13 giugno 1912,n. 555 che indicò i requisiti dell’ “italianità”, concessa a particolari condizioni agli stranieri.
Nei quarantasei anni dalla prima elezione alla Camera dei deputati e nei quaranta di consigliere provinciale Giolitti parlò solo nelle sedi istituzionali (l’Aula, il consesso cuneese) o, in forma programmata, al suo elettorato “naturale”: gli elettori del collegio Cuneo I, di Dronero, della provincia intera (1919), del Piemonte (1924). In rarissime funzioni civili concelebrò con poche parole: alla cassa di Risparmio di Cuneo, Teatro Regio di Torino per il cinquantenario del Regno... Giolitti amò sempre il contatto diretto con la popolazione. Stringeva mani, ricambiava saluti, chiacchierava con la curiosità del pius agricola gravato di responsabilità di pater familias della Nuova Italia. Quando poteva conversava in dialetto, con Vittorio Emanuele III o con i compaesani. Non si rivolse mai alla “piazza”. Non mirò mai ad attizzare passioni irrazionali. Additò invece gli ideali dai quali era nata l’Italia libera indipendente e una, con un Parlamento demandato a modificarne gli ordinamenti secondo la volontà dei cittadini, dal 1912 elevati a elettori, compartecipi della sovranità. Preparò sempre accuratamente i discorsi. Li stese corresse e copiò di pugno. Ciascuno di essi era frutto di lunghe ricerche sintetizzate in montagne di appunti. Ogni discorso veniva poi distillato in cartelle fitte di frasi lapidarie, spesso con parole sottolineate. Infine stringeva il tutto in una scaletta sinteticissima. La parola fluiva alta, solenne, rapida. Il 16 marzo 1928 motivò il suo voto contrario alla legge proposta dal ministro Alfredo Rocco, che attribuiva al Gran consiglio del fascismo la scelta dei deputati. Poiché «esclude(va) qualsiasi opposizione di carattere politico, segna(va)il decisivo distacco dal regime retto dallo Statuto».
“Dicendi peritus” anche per lui il “politico” è anzitutto “vir bonus”, orgoglioso di rappresentare alla Camera elettiva i “fieri montanari” della sua terra, senza mai rinnegare «la fede liberale che professai in tutta la mia vita, e che fu quella di tutti i nostri rappresentanti dal 1848 in poi».
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