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Natura, natura umana, transumano: il contributo di Hans Jonas

PAOLO BECCHI E ROBERTO FRANZINI TIBALDEO
Articolo pubblicato nella sezione Il futuro della natura umana

1. Introduzione

Qualche anno fa il celebre settimanale di informazione «Time» dedicava la prima pagina a un articolo dello scrittore statunitense Lev Grossman sulle trasformazioni cui in futuro sarebbe andato incontro l’essere umano grazie all’interazione con ritrovati tecnologici, tra cui computer, robot e protesi «intelligenti». L’autore commentava le idee dell’inventore, informatico e saggista statinutense Ray Kurzweil, secondo cui le conseguenze del progresso tecnologico sarebbero tali da produrre entro qualche decennio un radicale mutamento e un inedito potenziamento della natura umana, il cui significato veniva mirabilmente riassunto dal titolo di quell’articolo: «2045: l’anno in cui l’uomo diventa immortale» (Grossman 2011).
È noto come a livello internazionale sia in corso un dibattito piuttosto acceso e controverso attorno a questioni quali lo «human enhancement», il «posthumanism» e il «transhumanism». È altresì noto come tale dibattito si sia sviluppato a partire dalla possibilità di impiegare la tecnologia per ridurre o contenere l’esposizione dell’essere umano ai rischi e alla vulnerabilità della propria condizione esistenziale (Coeckelbergh 2013). E in effetti quelle espressioni sono accomunate da un analogo rinvio alla vulnerabilità in quanto esperienza fondamentale della condizione umana. Eppure, esse evidenziano al tempo stesso un approccio decisamente unilaterale alla questione, dal momento che proprio la vulnerabilità viene intesa come ciò che verrà affrontato e sconfitto grazie all’impiego della tecnologia (cfr. per esempio le posizioni più radicali di Stelarc 1991 e Bostrom 2003, 2005a, 2005b). In altre parole, specie il pensiero transumanistico e alcune tendenze inerenti al postumanismo e allo «human enhancement» sembrano condividere un generalizzato rifiuto della vulnerabilità in quanto carattere distintivo dell’essere umano, come evidenziato appunto da Lev Grossman. Gli ambiti nei quali viene ingaggiata la rivolta contro la vulnerabilità e mortalità umane sono ovviamente quelli della bioscienza e della biotecnologia, e tra le questioni più dibattute vi sono la manipolazione e l’ingegneria genetica, la clonazione umana, il prolungamento della vita e il controllo del comportamento. Per quel che riguarda il contesto italiano, tra le molte opere che trattano questi temi ci limitiamo qui a indicare due lavori molto ben documentati (indipendentemente dal giudizio che se ne può dare) di Roberto Marchesini: Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza (Marchesini 2002, con ampia bibliografia) e il più agile Il tramonto dell’uomo. La prospettiva transumanista (Marchesini 2009).
Il proposito di questo articolo è duplice: da un lato, intendiamo proporre una riflessione critica a partire dal contributo filosofico di Hans Jonas, che già decenni or sono comprese la rilevanza e la delicatezza di queste tematiche per il futuro dell’umanità e propose riflessioni che a nostro avviso conservano intatta la propria validità; dall’altro lato, vorremmo evidenziare come proprio grazie al contributo jonasiano la ricerca attuale in ambito bioscientifico e biotecnologico, e le relative pratiche, potrebbero acquisire maggiore consapevolezza circa le proprie possibilità e i possibili rischi, così circa i dei significati e i valori in gioco.
Il percorso che a tal fine intendiamo seguire è il seguente: dapprima analizziamo il contributo jonasiano alla ridefinizione del concetto di natura; in secondo luogo cerchiamo di chiarire in che termini e con quali conseguenze, ad avviso di Jonas, la questione della natura umana si collochi entro la complessiva revisione del concetto di natura; infine, proviamo a esplicitare quali conseguenze ne derivino per l’attuale dibattito su «human enhancement», «posthumanism» e «transhumanism».


2. La revisione jonasiana del concetto di natura

L’obiettivo primario di Jonas, nella sua originalissima riflessione etica, è quello di mostrare come la libertà umana si radichi nell’ambito dell’essere inteso come vita (cfr. tra gli altri Frogneux 2001; Becchi 2008; Franzini Tibaldeo 2009). Natura ed etica, essere e dover essere non sono più separati, così Jonas chiudeva Organismo e libertà (Jonas 1999, pp. 305-307). Da qui sorge anche il suo secondo obiettivo: dimostrare come la libertà presenti in se stessa il dovere della responsabilità. L’opera a partire da cui si tematizza esplicitamente la questione nei termini appena enunciati è Il principio responsabilità (Jonas 1990), la quale si colloca entro un più ampio ripensamento dell’etica tradizionale dinanzi ai pericoli e alle sfide suscitati, per un verso, dalla crisi ecologica e, per altro verso, dai progressi in campo biotecnologico. A costituire infatti un problema è la natura qualitativamente nuova dell’agire tecnologico umano che ha dischiuso una nuova dimensione spazio-temporale dell’etica. Gli effetti delle nostre azioni non hanno più un ambito di incidenza limitato nel tempo e circoscritto nello spazio, ma diventano estremamente potenti e indefiniti, per non dire del carattere irreversibile, imprevedibile e cumulativo che li contraddistingue (Frogneux 2015a, p. 873). Con quello che noi facciamo qui e ora possiamo influenzare la vita di altri esseri umani in altri luoghi e persino ipotecare il futuro di generazioni ancora inesistenti (Böhler 1994). Il cambiamento più importante del quadro tradizionale è dato dalla vulnerabilità della natura stessa all’intervento tecnico umano (Jonas 1990, p. 10). Tuttavia, a questo primo ordine di questioni se ne aggiunge un secondo di carattere ben più delicato, allorché il potere tecnologico si rivolga all’essere umano stesso, facendone uno dei propri oggetti di indagine, sperimentazione e manipolazione. Scrive a questo riguardo Jonas: «Questo compimento del potere umano, che può ben preannunciare il superamento dell’uomo, [...] lancia una sfida estrema al pensiero etico che, mai prima d’ora, s’era trovato a prendere in considerazione la scelta di alternative a quelli che erano considerati i dati definitivi della costituzione umana» (Jonas 1990, p. 24).
Jonas ritiene che per rispondere a questa sfida sia necessario reperire un fondamento ontologico (il cui valore valga indipendentemente dalla religione) dell’agire umano nel mondo e pertanto della stessa etica (Jonas 1990, p. 61; Jonas 2003); un fondamento in grado di giustificare la declinazione di quest’ultima nei termini di una teoria generale della responsabilità.
Possiamo qui anticipare che Jonas individua siffatto fondamento in una metafisica dell’essere strutturata in senso teleologico, di ispirazione aristotelica (Jonas 1990, pp. 65-99; Böhler et al. 2008). L’affermazione originaria dell’essere è infatti il suo tendere a uno scopo e il primo scopo dell’essere è quello di continuare a essere, dunque la propria autoconservazione. Essere è meglio di non essere, aver scopi meglio di non averne e l’essere si autoafferma anzitutto nello scopo di continuare a esserci (Jonas 1990, p. 102). È questa superiorità dell’aver-scopo sull’assenza di scopi, dell’essere sul non essere, a costituire l’assioma ontologico fondamentale che consente a Jonas di interpretare la finalità intrinseca all’essere, non solo come un dato di fatto, bensì anche come un valore. Se l’essere è preferibile al non essere, allora ciò vuol dire che lo scopo a cui l’essere di per sé tende, vale a dire la sua conservazione, è altresì un valore da salvaguardare. Ma che cosa è questo «essere»? Secondo Jonas è la vita stessa che, pur con la precarietà e l’incertezza che la contraddistinguono («La vita è mortale non anche se è vita, bensì perché è vita» – Jonas 1999, p. 12), si manifesta in forme di libertà via via crescenti e articolate nelle piante, negli animali e negli esseri umani (Jonas 1999, p. 147).
Il recupero della specificità della vita è però solo il primo passo di un cammino più impegnativo che, affrontando la questione della posizione dell’uomo nel cosmo, vuole rendere ragione del fatto che l’essere umano è, sì, un essere vivente e un organismo tra gli altri, essendo però al tempo stesso dotato di un’irriducibile specificità (a questo proposito Jonas parlerà addirittura di uno «iato metafisico» – Jonas 1999, p. 223).


3. La natura umana secondo Jonas

Il punto decisivo è dunque procedere a una rifondazione della specificità umana senza rimanere intrappolati nelle maglie del dualismo psicofisico e ontologico. A questo riguardo, è inevitabile che il pensiero jonasiano si imbatta nell’evoluzionismo darwiniano, i cui risvolti filosofici determinarono il definitivo tramonto della prospettiva dualistica cartesiana a mezzo però di una ridefinizione riduttiva dell’umano in senso monistico (Jonas 1999, pp. 52-74 e 95-129).
Al di là delle puntuali critiche rivolte agli aspetti filosofici del darwinismo (Jonas 1999, pp. 62 ss), Jonas analizza attentamente le istanze evoluzionistiche, non ultima quella che postula la rilevanza dell’animale per la comprensione dell’umano. A suo avviso, infatti, l’attenta considerazione dell’animale (specie nelle sue manifestazioni «superiori») consente di comprendere in che senso animale e essere umano si differenzino, pur rimanendo in un qualche rapporto di contiguità (Jonas 1999, pp. 137-148). A questo riguardo, Jonas osserva che l’essere umano evidenzia un grado di libertà (legato alla capacità di produrre immagini interiori) non strettamente biologico, il cui versante esteriore è il peculiare controllo che l’uomo ha del suo corpo, «cioè l’attività muscolare comandata non da schemi fissi di stimolo-risposta, bensì da una forma liberamente scelta, interiormente immaginata e intenzionalmente proiettata» (Jonas 1999, p. 220).
È significativo che tirando le fila del proprio ragionamento Jonas non esiti a interpretare questa peculiare «mediatezza» della libertà umana in termini connotati eticamente, dal momento che l’immagine non solo accompagna ogni pensiero e attività umani mostrando ciò che c’è, ma in qualche modo apre anche a ciò che ancora non c’è, indicando come dovrebbe essere. In particolare, Jonas si riferisce all’immagine complessiva dell’uomo, che nel cosmo in evoluzione contraddistingue l’avvento dell’«uomo in senso pieno» e che diventa riflessivamente rilevante allorché ciascuno si interroghi circa il proprio posto e la propria parte nel «progetto delle cose» (Jonas 1999, p. 235).
Quando poi all’inizio de Il principio responsabilità Jonas espone le ragioni che lo spingono a cercare «un’etica per la civilità tecnologica», non è un caso che egli riprenda la centralità dell’«immagine dell’uomo» e ne ipotizzi la rilevanza ai fini di una fondazione ontologica dell’etica: «Soltanto il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a cogliere il concetto di umanità che va preservato da quel pericolo. Sappiamo ciò che è in gioco soltanto se sappiamo che esso è in gioco. Poiché qui non si tratta soltanto del destino umano, ma anche dell’immagine dell’uomo, non soltanto di sopravvivenza fisica, ma anche di integrità dell’essere, l’etica che ha la funzione di salvaguardarle entrambe dev’essere, al di là della dimensione della prudenza, quella del rispetto» (Jonas 1990, pp. xxvii-xxviii).
Possiamo così tornare all’affermazione secondo cui, per comprendere appieno l’ancoraggio ontologico di questo «nuovo obbligo», che costituisce il nocciolo della teoria jonasiana della responsabilità, occorre fare riferimento alle riflessioni circa la teleologia organica, la sua libertà e l’evolversi progressivo del fenomeno della vita, e ampliarle fino a che riguardino l’essere in quanto tale, che pertanto finisce per venire inteso in senso complessivamente teleologico (cioè permeato di «scopi» immanenti) e dunque dotato di «valore» (Jonas 1990, p. 96). È questa premessa ontologica che consente a Jonas di fondare il «bene» nell’essere e di affermare che è un bene in sé che la vita nel suo complesso esista (Jonas 1990, pp. 101-173). Ma, se è un bene che questa vita ci sia, allora è anche un nostro dovere fare in modo che essa continui a esserci. Chi può farsi carico dell’essere, garantendo che possa continuare a esserci? L’uomo, soltanto l’uomo: egli è l’unico che può assumersi questo compito, perché è l’unico essere la cui libertà può assumere la forma dell’agire responsabile. La comparsa dell’uomo sulla terra non costituisce dunque soltanto un aspetto ulteriore del già variegato mondo dell’essere, perché nella sua natura si rivela qualcosa di qualitativamente diverso: il senso di responsabilità. In ciò consiste in definitiva la sua costituzione ontologica, che – come abbiamo visto – si caratterizza per la propria natura «transanimale» e per un’inedita forma di libertà (Jonas 1999, p. 234; Jonas 2011, pp. 34-49; cfr. anche Spinelli 2004; Franzini Tibaldeo 2015; Frogneux 2015b). Il dover-essere dell’essere è dunque affidato agli uomini, perché soltanto loro possono essere soggetti responsabili e questa capacità obbliga l’essere umano a garantire condizioni di vita che non provochino la sua scomparsa dal mondo e che garantiscano lo statuto autenticamente umano della vita da proteggere (Jonas 1990, p. 51; Ricœur 2004, p. 66).
Dunque, a ben vedere la responsabilità, prima ancora che essere esercitata nei confronti delle generazioni (passate, presenti o future che siano), dovrebbe essere volta a tutelare quella immagine dell’uomo che – si è visto – da sempre ci è tramandata (Becchi 2011). Ed è una supposizione ulteriore di Jonas che il carattere atemporale e invariante di questa immagine dell’uomo oltrepassi l’etica e persino la metafisica (Jonas 2012; Böhler et al. 2008). Non riusciamo a pensarla appieno – afferma Jonas – se non aprendo le porta alla trascendenza. Sarebbe infatti Dio che, creandoci «a sua immagine e somiglianza», ci avrebbe collocati in una posizione del tutto speciale nella natura, conferendoci in tal modo una dignitas trascendente. Questo però significa anche che «il destino dell’avventura divina è posto nelle nostre mani malsicure» e che «sulle nostre spalle grava questa responsabilità» (Jonas 2012, p. 89), cioè di rispettare, con Dio o senza Dio, il nostro essere «a sua immagine».


4. L’hybris transumana, ovvero la rivolta contro la mortalità dell’uomo

In un passaggio de Il principio responsabilità Jonas, individuando nella divergenza tra etica e tecnologia il punctum dolens della nostra civiltà, evidenzia il rischio che eventuali progetti di miglioramento della natura umana finiscano, invece, per impoverirla o addirittura comprometterla definitivamente. Al contrario, egli richiama la centralità del «dovere supremo della conservazione» che «sovrasta senza confronto tutti gli imperativi e i desideri di miglioramento». E ciò per la seguente ragione: «questo fenomeno cardine della nostra umanità, che va mantenuto a qualunque prezzo nella sua integrità e non deve attendere da alcun futuro la propria salvezza», sarebbe in realtà «già “integro” nella propria natura» (Jonas 1990, pp. 42-43).
Quale migliore preannuncio del dibattito odierno riguardante il possibile miglioramento della natura umana, che sul versante degli innovatori vede i sostenitori dello «human enhancement», del «posthumanism» e del «transhumanism»?
Oggi infatti il superamento dell’umano avanza a ritmo sostenuto, e ciò grazie allo sviluppo dell’intelligenza artificiale e della biologia di sintesi. La filosofia postumanista e transumanista è una realtà. Si potrebbero citare molti esempi, a partire da John Harris, per il quale la manipolazione genetica è il futuro dell’uomo (Harris 1997) o Peter Sloterdijk, per il quale presto non sarà più possibile sottrarsi all’idea di una «riforma genetica delle proprietà delle specie» (Sloterdijk 2001), per venire fino alle prospettive più radicalmente miglioriste sostenute da Nick Bostrom o dall’ente no profit internazionale «Humanity+» (http://humanityplus.org/). Come sempre, in questi casi controversi, esistono anche posizioni radicalmente contrarie: gli esempi forse più noti sono Francis Fukuyama (Fukuyama, 2002) e, con riferimento alle polemiche sollevate da Sloterdijk, Jürgen Habermas (Habermas 2002). C’è un modo per frenare la deriva verso questi nuovi modelli di esistenza? E per quale ragione dovremmo frenarli e non piuttosto lasciarci travolgere da essi?
Jonas è stato il primo a confrontarsi – negli anni Settanta – con queste domande (Jonas 1997; cfr. anche Gammel 2013; Hauskeller 2015; Becchi 2015) e a sottolineare come, una volta create, le nuove creature transumane non saprebbero neppure a chi rivolgere eventualmente il loro atto d’accusa per aver distrutto la specie umana, dal momento che questa sarebbe estinta. Come è noto, Habermas ha ripreso in senso favorevole queste riflessioni jonasiane, che avrebbero il merito di «sottolineare i peculiari caratteri di autoriferimento e di irreversibilità di una sperimentazione che – intervenendo su eventi complessi e autoregolantesi – produce effetti in larga misura incontrollabili» (Habermas 2002, p. 49; cfr. anche Kampowski 2010).
Entrambi gli autori citati vengono sottoposti a critica da uno dei più autorevoli sostenitori della prospettiva «transumanista»: Nick Bostrom. Secondo Bostrom, se per qualche misterioso motivo gli «uomini nuovi» volessero tornare indietro e diventare meno intelligenti, meno in buona salute, meno longevi, non difetterebbero dei mezzi per farlo (Bostrom 2005a, p. 43). Egli presuppone infatti che le modifiche apportate non siano definitive: come noi oggi possiamo creare una specie molto migliore di quella attuale o persino nuove specie, così questa specie migliore, queste nuove specie potranno a loro volta decidere liberamente sul loro futuro. Quello che però Bostrom non considera è che l’ingegneria genetica non è paragonabile all’ingegneria tradizionale. Una volta che siamo intervenuti nel processo organico, quell’intervento diventa irreversibile e non siamo neppure in grado di prevederne tutte le conseguenze. La critica di Bostrom non tiene dunque conto di uno degli aspetti più rilevanti dell’argomentazione jonasiana.
E tuttavia restano degli interrogativi aperti. Per quale motivo non dovremmo rischiare di mettere a repentaglio il processo evolutivo con i nostri interventi? Anche ammesso che la posta in gioco – cioè il superamento della specie umana – sia molto elevata, perché non tentare?
Da un punto di vista filosofico crediamo che la risposta più convincente a questi interrogativi l’abbia data proprio Jonas, quando sottolinea che l’uomo è l’unico essere a noi noto che può avere responsabilità per le conseguenze delle proprie azioni. Ne consegue che, affinché continuino a esistere esseri responsabili, è necessario che ci siano degli esseri umani. In altre parole, la responsabilità obbliga a garantirne la permanenza nel mondo, e ciò in virtù della loro essenza; un’essenza, certo, vulnerabile, fragile, precaria e mortale, ma pur sempre un’essenza, cui Jonas si riferisce con la locuzione «immagine dell’uomo». È questa essenza a costituire la sua natura, al di là di tutta la sua storia. Ma è proprio questo che, a ben vedere, negano tutti coloro che vorrebbero creare l’uomo nuovo o addirittura qualcosa di meglio dell’uomo. È evidente che se vogliamo scongiurare questa deriva non possiamo fare a meno di rendere indisponibile la natura umana.
È esattamente questo che cerca di fare Habermas nell’opera che abbiamo richiamato, in cui per l’appunto, paventando i rischi di una «genetica liberale», sostiene «l’indisponibilità dei fondamenti genetici della nostra esistenza corporea» (Habermas 2002, p. 25). Il problema filosofico tuttavia è come fondare questa «indisponibilità» (Unverfügbarkeit) e Habermas, per la verità, non sembra aggiungere nulla di nuovo rispetto a quanto sostenuto a suo tempo da Jonas. Dire che l’autotrasformazione della specie mette «a repentaglio l’autocomprensione normativa di persone che conducono la loro vita portandosi mutuo ed eguale rispetto» (Habermas 2002, p. 31) non è, nella sostanza, molto diverso dal dire che non possiamo rischiare di cancellare dalla terra «l’unico essere a noi noto che può avere responsabilità» (Jonas 2011, p. 141).
E tuttavia una differenza tra i due autori c’è. Habermas ritiene che questa risposta sia sufficiente, Jonas no. Habermas sembra convinto che il problema sollevato dalle biotecnologie applicate all’uomo sia risolvibile senza far entrare in gioco alcun presunto fondamento metafisico, mentre abbiamo visto come in questo contesto Jonas consideri l’apertura alla metafisica inevitabile. Queste differenze si colgono immediatamente dalla distinzione che Habermas introduce tra «indisponibilità» e «inviolabilità». La distinzione gli serve per evitare il ricorso a qualsiasi fondamento metafisico: non vi è alcuna essenza umana da dichiarare inviolabile, la natura umana è però indisponibile, dal momento che ciascun essere umano ha diritto di costruirsi da sè, a partire da un nucleo naturale non manipolato. In questo modo Habermas sposta tutta l’attenzione sul tema dei diritti: si potrebbero attribuire dei diritti anche a qualcosa (qualcuno?) che non possiede ancora lo statuto di persona giuridica. Così si potrebbe tutelare il diritto a un patrimonio genetico non modificato da interventi artificiali, e ciò senza fare alcun riferimento alla costituzione ontologica dell’uomo. Non ci sarebbe neppure alcun bisogno di tirare in ballo la dignità: qualcosa potrebbe essere sottratto alla nostra «disponibilità» per motivi morali, senza tuttavia essere «inviolabile» nel senso – incondizionato e assoluto – generalmente posseduto da questa parola, allorché viene connessa alla dignità umana (Habermas 2002, p. 35). Eppure, se c’è qualcosa che dovrebbe essere inviolabile più di qualsiasi altra cosa, non è proprio l’essere umano in quanto tale? E perché mai la nostra natura dovrebbe essere inviolabile se non vedessimo in essa qualcosa di più del mero dato biologico? Vale a dire che l’uomo rappresenta qualcosa di unico nel processo evolutivo ed è per questa ragione che ci sentiamo obbligati – per riprendere il pensiero di Jonas – a custodire l’integrità della sua immagine e ad agire con cautela, circospezione, moderazione e rispetto (Jonas 1990, pp. 286-287).


5. Conclusioni

Alla luce delle precedenti riflessioni ci sembra di poter concludere che il contributo jonasiano abbia ancora molto da offrire al dibattito attuale, specie sotto due profili: infatti, per un verso Jonas indica come sia proprio l’immagine dell’uomo, che è la sua autentica essenza, a impedirci di imboccare la strada verso nuovi modelli di esistenza che, con il loro rifiuto preconcetto del peso e della benedizione della mortalità (Jonas 1997, pp. 206-221), finiscono per ridurre l’essere umano a una specie in via d’estinzione (Böhler 1998); per altro verso però egli non si stanca di richiamare il fatto che il linguaggio dei diritti e della morale qui, da solo, non basta. Pensare di modificare intenzionalmente la natura umana comporta una rottura metafisica con l’essenza dell’uomo. E la risposta a questa rottura non può che essere di natura metafisica: solo quest’ultima può indicarci perché l’essere dell’uomo è meglio del non essere e solo su di essa è possibile fondare il primo dovere assoluto e incondizionato: «che ci siano degli uomini» (Jonas 1990, p. 55). Il principio di unità diventa in questo contesto fondamentale, proprio perché esso oltrepassa quello dell’autonomia individuale. Un’autotrasformazione genetica della specie sotto un certo profilo potrebbe addirittura implicare l’accrescimento dell’autonomia individuale, ma lo farebbe mettendo a repentaglio ciò che contraddistingue l’umano e che gli conferisce dignità. Oltre la sua natura, che deve restare indisponibile, c’è insomma un’immagine dell’essere umano, un’idea atemporale, eterna e in certo modo invariabile che ci fa tremare all’idea della sua distruzione. L’uomo è e resta fondamentalmente imago Dei e, anche se, dopo Nietzsche, di Dio non ci rimane che il lontano ricordo, dobbiamo cercare in tutti i modi di evitare che l’uomo faccia una fine ancora peggiore.


6. Riferimenti bibliografici

Ci limitiamo qui a citare gli autori e le autrici per i quali nel testo c’è un riferimento esplicito

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