1. Lo studioso e l’intellettuale
Non ogni studioso è anche un intellettuale, nel significato che Bobbio assegnava a quest’ultima nozione (cfr. Bobbio 1978; Bobbio 1993). Lo studioso cerca di comprendere, di interpretare, di spiegare il mondo (e le idee, le idee sul mondo e il mondo delle idee); l’intellettuale giudica, valuta, cerca di influenzare atteggiamenti e comportamenti. Dallo studioso riceviamo insegnamenti, che incidono sulla conoscenza; dall’intellettuale riceviamo messaggi, che influiscono sull’azione. È possibile che da uno studioso provengano molti insegnamenti, pochi o nessun messaggio: cioè, appunto, che un valente studioso non sia anche un efficace intellettuale. Più difficile da accettare ci appare l’inverso, che da un intellettuale provengano molti messaggi, pochi o nessun insegnamento: cioè, che un intellettuale influente non sia anche un bravo studioso. Non già che le valutazioni e le indicazioni pratiche derivino direttamente dalle interpretazioni e spiegazioni teoriche; ma su queste dovrebbero basarsi. Semplice e chiaro il commento di Bobbio, tante volte ribadito, all’XI tesi su Feuerbach: prima di cambiare il mondo, bisogna interpretarlo. Dunque, se un intellettuale non è anche uno studioso attendibile, è bene diffidare dei suoi messaggi.
Quando i due profili, dello studioso e dell’intellettuale, vanno a comporre l’identità di una medesima figura, è inevitabile l’influenza reciproca: lo studioso condiziona l’intellettuale, e viceversa. Tra i due, per un verso, c’è lo stesso rapporto che intercorre tra fatti e norme, descrizioni e prescrizioni, diagnosi e terapia, analisi teoriche e direttive pratiche. Per l’altro verso, l’influenza dell’intellettuale sullo studioso può avvenire in due modi. Può accadere che la valutazione distorca l’interpretazione, che la passione offuschi la ragione. Può accadere, ma si deve evitare: attenendosi, diceva Bobbio, all’etica della scienza, che prescrive l’imparzialità e l’avalutatività nell’indagine. Non si può evitare, invece, che l’intellettuale influenzi lo studioso indirizzandone l’attenzione su certi aspetti della realtà piuttosto che altri. La passione accende la ragione e la orienta.
Bobbio non è stato un entomologo dei fenomeni sociali: del diritto, della politica, della cultura. Ne è stato uno studioso appassionato. Passionale e spesso dolente.
2. Italia civile
Norberto Bobbio nacque il 18 ottobre 1909. Un paio d’anni prima della ricorrenza fu istituito a Torino il Comitato per le celebrazioni del centenario. Vorrei qui ricordare l’emblema del Comitato. Oggi si dice «logo», che alla lettera dovremmo tradurre «detto», «motto», anche se per lo più vi campeggia un’immagine, o un disegno, ed è costruito come un iconogramma. Chissà perché «logo». Forse perché nell’età dell’homo videns l’immagine «dice» più della parola. Ebbene l’emblema, il «logo» di quel Comitato, anche se in varie occasioni veniva accompagnato da un’immagine di Bobbio (ma non sempre la stessa), era invece costituito da parole. Un incrocio di parole: in orizzontale, e in corpo minore, «Norberto Bobbio 100 anni»; in verticale, e in corpo maggiore, «Italia civile», che è il titolo di un noto libro di Bobbio, dove sono raccolti i ritratti di alcuni personaggi esemplari che in vario modo hanno influito sulla formazione, appunto, «civile» dell’autore. Debbo confessare che quando fu proposto e poi adottato, l’emblema non mi convinse. Quel richiamo dell’attenzione sul Bobbio «militante», sull’intellettuale, sullo scrittore civile impegnato in mille battaglie culturali, politiche, morali del suo tempo mi parve unilaterale, soverchiante rispetto al Bobbio «teorico», allo studioso, al costruttore di concetti la cui portata travalica il tempo in cui furono elaborati. Oggi, riconsiderando il tempo, la tristitia temporum, in cui erano venute a cadere le iniziative pubbliche del Comitato, e ancor più (ancor peggio) guardando all’abominevole approdo politico cui assistiamo mentre scrivo queste pagine, un approdo che di quel tempo è l’esito nefasto e naturale, la scelta di quel «logo» mi sembra sia stata la più opportuna.
Italia civile: questo titolo, ricordava lo stesso Bobbio, gli era stato suggerito per antitesi da quello del libro di Curzio Malaparte, pubblicato da Piero Gobetti nel 1925, Italia barbara. Ecco emergere nella maniera più netta il tema delle «due Italie»: un tema antico, molto più di quel che usualmente si pensi, e ricorrentemente riproposto - anche da chi scrive - soprattutto nell’ultima decade del Novecento e nella prima del secolo nuovo. Ma ben precedente è la diffusione, nel linguaggio dei dibattiti politici e culturali, della formula «l’altra Italia». A quale delle due Italie si voglia comunemente alludere con questa espressione, non è dubbio: è l’Italia civile.
Sennonché, forse non tutti ricordano che questa formula, «l’altra Italia», era stata originariamente coniata da Piero Gobetti per indicare, all’opposto, l’Italia incivile, l’Italia barbara e i suoi ideologi; anzi, esplicitamente il suo primo ideologo di allora, Giovanni Gentile. All’indomani della marcia su Roma e della formazione del primo governo Mussolini, di cui Gentile era diventato ministro, Gobetti scriveva: «Non da oggi pensiamo che Gentile appartenga all’altra Italia» (Gobetti 1922b). Altra, s’intende, rispetto a quella in cui Gobetti si riconosceva: dunque, Gobetti indicava in Gentile un esponente di rilievo, potremmo dire, dell’Italia incivile. Perché poi quella espressione, «l’altra Italia», abbia finito col designare l’Italia civile, rovesciando l’originaria accezione gobettiana - Bobbio stesso usa l’espressione in questo nuovo senso già nella prefazione alla prima edizione del libro omonimo, che è del 1963 (Bobbio 1986a, p. 11) -, forse non è difficile capire: perché, direi, col tempo ci si è arresi all’evidenza che l’Italia incivile, o ben scarsamente civile, incapace di riscattarsi da alcuni vizi inveterati, pronta a ricadervi in vario grado e in vario modo, in tragedia o in farsa, è sempre stata e continua ad essere, non voglio dire «la vera Italia», il «paese reale», ma sì l’Italia più profonda e viscerale. Tanto tenace da riemergere sempre di nuovo alla superficie, manifestandosi sulla scena pubblica a viso aperto e protervo, a fronte alta e sfrontata.
E tuttavia, nonostante le frustrazioni - oggi, e intendo proprio oggi, direi quasi la prostrazione - l’altra Italia ha continuato con eguale tenacia a rimemorare e riannodare la sua continuità con la Resistenza; e ancor più indietro nel tempo, con il mondo nascosto di quelli che Bobbio chiamava i «chierici che non hanno tradito» (ibidem) quando l’Italia fu travolta dal fascismo. Ad essi, alla «vita segreta di un’Italia civile» negli anni della dittatura, era appunto dedicato il libro di Bobbio: «Nella scuola, nell’università, nonostante la vernice di conformismo e, più raramente, di entusiasmo, la rottura col passato non fu mai così completa da non lasciare intravedere il volto offeso o soltanto corrucciato di un’altra Italia. Chi voleva capire, capì» (ibidem). Nella Prefazione alla seconda edizione di Italia civile, datata 25 aprile 1985, Bobbio spiegava di aver pensato, scegliendo quel titolo, «a un paese ideale, non molto abitato, immune da alcuni vizi tradizionali, e fra loro contrapposti, della vecchia Italia reale (vecchia e sempre nuovissima): prepotenza in alto e servilismo in basso, soperchieria e infingardaggine, astuzia come suprema arte di governo e furberia come povera arte di sopravvivere, il grande intrigo e il piccolo sotterfugio» (ivi, p. 5).
3. Due Italie, due culture
Quali siano (state) le rispettive espressioni ideologiche, gli orientamenti culturali contrapposti delle due Italie, Bobbio non riteneva difficile identificare. Nella premessa all’edizione einaudiana del Profilo ideologico del Novecento, del 1986, scriveva:
Se intendiamo per ideologia un orientamento dominante, egemone, quasi ufficiale, che non appena scosso da tendenze contrarie riprende il sopravvento, e fa apparire eretico, non genuino, non nazionale, ogni altro pensiero che non vi si adegua, ebbene questo orientamento è sempre esistito, ed è un certo spiritualismo di maniera, ora speculativo, ora soltanto retorico e pedagogico, che scomunica, dovunque appaiano, positivismo, empirismo, materialismo, utilitarismo, come filosofie volgari, anguste, mercantili, impure (Bobbio 1986 c, pp. 3-4).
Aggiungerei, fra gli scomunicati dallo spiritualismo italico, il razionalismo critico, e più in generale ogni orientamento culturale che stringa rapporti di metodo e di merito con le scienze positive ed empiriche, naturali e sociali. Nella prima metà del secolo, proseguiva Bobbio,
la più perfetta incarnazione dello spiritualismo italiano fu Giovanni Gentile, che ci abituò a vedere nello studio dei problemi concreti una fatica da manovale e che per conto suo risolse i grandi problemi del tempo, di cui ebbe una coscienza distorta, in incredibili spire verbali, in oscure tautologie, in formule ad effetto, come quando ebbe a dire nel Sommario di pedagogia, mandando in visibilio i suoi uditori: «Il maestro è lo stesso spirito, che si pone nel suo assoluto valore spirituale: lo spirito, che si pone perché la sua natura è di porsi, affermarsi, diffondersi, realizzarsi. [...] Questa spiritualità si trova, raccolta e concentrata, nel maestro [...]: colui che nel mondo ad ora ad ora, secondo l’espressione dantesca, c’insegna come l’uomo s’eterna: cioè si spiritualizza, e si sottrae alla caducità della materia e di quanto lo spirito concepisce come suo soggetto». Su per giù con queste stesse parole Gentile avrebbe potuto definire la nazione, la famiglia, la patria, lo stato, il lavoratore e l’imprenditore, il soldato e il generale, i fascisti e chi sa forse anche i preti (ivi, p. 4).
Invito a chiederci: quali sono stati i Gentile della seconda metà del Novecento, nella lunga stagione che ha visto Bobbio tra i principali protagonisti del dibattito culturale e politico italiano? Anzi, domando: sono esistiti dei Gentile nel secondo Novecento? E se vogliamo proseguire ancora oltre: quali sono state le espressioni ideologiche dell’Italia non-civile nell’ultimo scorcio del vecchio secolo e all’inizio del nuovo, durante l’estremo periodo della vita attiva di Bobbio? Dico subito che nel contesto di una ricostruzione, come quella promossa da «Cosmopolis», delle culture politiche da cui è nato ed è stato modellato lo Stato democratico italiano, non ritengo abbia alcuna rilevanza, neppure per contrasto, per antitesi, portare l’attenzione su quel gruppuscolo di «intellettuali di mezza tacca» - l’espressione è di Bobbio, riferita agli intellettuali dichiaratamente fascisti del ventennio - che a cavallo tra i due secoli sono stati identificati, e hanno identificato se stessi, come esponenti della (nuova?) «cultura di destra». Della povertà morale e intellettuale di certuni, corazzata di arroganza o paludata di supponenza, non vale proprio la pena di parlare; men che meno, dei paralogismi lutulenti di certi altri, mercenari o volontari della malafede, che su fogli innominabili hanno preso a bersaglio preferito proprio Bobbio negli ultimi anni della sua vita. Del resto, chi sguazza nel fango non può far altro che mandare schizzi tutt’intorno.
Piuttosto, comincerei col far osservare che Gentile è stato rivalutato principalmente (anche se non esclusivamente) dalla cultura dell’Italia non-altra - verrebbe da dire, parafrasando De Gaulle, l’Italie éternelle -; e non solo la sua figura storica, nella cui contraddittorietà sono sempre stati riconosciuti, anche da Bobbio, alcuni lati positivi, bensì proprio il nucleo teoretico della sua filosofia, il terribile attualismo. Un contributo importante a questa rivalutazione è venuto da un filosofo che ha esplicitamente definito se stesso, o meglio l’opera, poi non scritta, in cui avrebbe voluto esprimere compiutamente il suo pensiero, «Antibobbio»: Augusto Del Noce. Questa dichiarazione di intenti, che era anche una dichiarazione della propria identità politico-culturale, è contenuta in una lettera che Del Noce inviò a Bobbio stesso il 30 giugno del 1957. Bobbio così ricostruisce il contesto e l’oggetto dello scontro: «Il fascismo era stato abbattuto, pareva allora [nei primi anni del dopoguerra], definitivamente. Il tema che si affacciava a chi entrava nell’arena della filosofia militante era il comunismo, uno dei due vincitori, e, col comunismo, il marxismo» (Bobbio 1991, p. 17). All’inizio degli anni ’50 Bobbio aveva «invitato al colloquio» gli intellettuali comunisti: ne era seguito un lungo dibattito, sulle pagine di varie riviste, con Della Volpe, Bianchi Bandinelli, Togliatti; i saggi di Bobbio furono poi raccolti, nel 1955, nel noto volume Politica e cultura (Bobbio 2005b). Quando uscì questo libro, Del Noce manifestò il suo totale dissenso. All’atteggiamento di Bobbio di fronte al comunismo e al marxismo, che era di critica politica ferma e radicale - con la rivendicazione del valore universale della libertà dei moderni, la difesa della democrazia contro la dittatura - ma accompagnata dalla disponibilità al dialogo, Del Noce contrappose un atteggiamento di radicale rifiuto in nome di una condanna non solo politica ma, com’egli diceva, «transpolitica», cioè metafisica, dell’immanentismo, ossia della secolarizzazione, in ogni sua forma. Era proprio l’apertura bobbiana al dialogo che Del Noce condannava fin da allora. Troviamo qui una robusta radice dell’anti-azionismo, e più ampiamente dell’anti-antifascismo poi dilagato in tempi a noi più vicini, e oggi trionfante. In un saggio del 1957 Del Noce scriveva:
Nella cultura del dialogo successiva al ’50 dobbiamo vedere una ripresa dell’originario gobettismo [...] che però non può riaffermarsi che in un senso culturale neo-illuministico, rompendo o almeno allentando all’estremo i vincoli con lo storicismo idealistico, e richiamandosi, per ciò che riguarda l’Italia, alla tradizione cattaneana ben più che a quella dell’hegelismo napoletano (Del Noce 1957, p. 16; cit. in Bobbio 1990, pp. 76-77).
Bisogna riconoscere l’acume di questa analisi. Dal punto di vista descrittivo Del Noce aveva ragione. Quando uscirono, nel 1971, gli scritti di Bobbio su Cattaneo, raccolti in un volume intitolato Una filosofia militante (Bobbio 1971), Bobbio dedicò una copia all’avversario presentandogliela come «una specie di Antidelnoce» (Bobbio 1990, p. 77). Di questo libro, e del bobbiano Profilo ideologico del Novecento la cui prima edizione era uscita da poco, Del Noce parlò in un saggio di due anni dopo, formulando un giudizio sintetico ancora una volta condivisibile dal punto di vista descrittivo: «Si compie [...] in Bobbio quel distacco assoluto da Gentile, che concettualmente doveva portare a quel tale giudizio, comunque sfumato, sull’attualismo “cane morto”; e che è così il fondamento dell’interpretazione gramsciana come del neo-illuminismo» (Del Noce 1973, p. LIII; cit. in Bobbio 1990, p. 77). Il dialogo-dissidio tra Bobbio e del Noce fu poi ripreso alla fine degli anni ’80 - Del Noce muore nell’89, nel ’90 esce postumo il suo libro su Gentile (Del Noce 1990) - con uno scambio di articoli e saggi sul fascismo e sul revisionismo storico in cui l’Antibobbio, per un verso, deprecava ancora una volta quella «direzion[e] prevalent[e] della cultura filosofico-politica italiana [...] che prende le mosse da Gobetti e che si ispira a Cattaneo: insomma [...] quello che viene detto liberal-socialismo» (Del Noce 1989, p. 12; cit. in Bobbio 1990, p, 79), e per l’altro verso appoggiava le tesi giustificazioniste di Ernst Nolte.
Mi pare opportuno, e più che opportuno doveroso, in questa occasione, invitare a rileggere una pagina in cui Bobbio torna, alcuni anni dopo, nel 1996, sul tema del revisionismo storico, del quale Augusto Del Noce era stato un anticipatore e un antesignano, perché mostra il limite oltre il quale l’uomo del dialogo non può e non deve andare, la mediazione non è ammissibile e la tolleranza deve appellarsi, per fondare se stessa, all’intransigenza:
Pur non essendomi mai comportato da reduce del partito d’azione, nel quale fra l’altro ho avuto una parte piccolissima, da comparsa, ho sempre mal tollerato i due rimproveri opposti che si muovono spesso e pervicacemente agli azionisti: di essere stati come anticomunisti troppo blandi, come antifascisti troppo severi, in una parola di non essere equidistanti. Che ci sia del vero in questa osservazione, non lo posso negare. Ritengo, però, che la non equidistanza abbia le sue buone ragioni. [...] In questi ultimi anni di revisionismo storico mi accade di constatare a mia volta con amarezza che il rifiuto dell’antifascismo in nome dell’anticomunismo ha finito spesso di condurre a un’altra forma di equidistanza che io considero abominevole: tra fascismo e antifascismo. Questa equidistanza [...] preclude alle giovani generazioni di cogliere la differenza tra uno stato di polizia e uno stato di diritto, tra una dittatura anche se meno feroce di quella nazista e una democrazia [anche se] zoppa come quella della prima repubblica (che nonostante tutto continua a zoppicare), e di rendersi conto che il fascismo, la prima dittatura imposta nel cuore d’Europa dopo la prima guerra mondiale, responsabile, se pure sottomessa al suo potente alleato, di avere scatenato la seconda guerra mondiale, terminata in una tragica sconfitta, è stata un’onta nella storia di un paese che era da tempo nel numero delle nazioni civili. Di quest’onta ci libereremo soltanto se riusciremo a renderci conto sino in fondo del prezzo che il paese ha dovuto pagare per la prepotenza impunita di pochi e l’obbedienza, se pure coatta e non sempre ben sopportata, di molti (Bobbio 1996, pp. 8-9, corsivi aggiunti).
4. Liberalsocialismo, o socialismo liberale
Diceva bene Del Noce: l’ideologia di Bobbio - nel senso più alto e nobile del termine, ora sciaguratamente screditato - è stata il liberalsocialismo. O il socialismo liberale: Bobbio considerava equivalenti le due nozioni e usava in modo scambievole queste formule. Entrambe avanzano l’istanza di una mediazione tra le massime ideologie politiche dell’età moderna e pongono l’esigenza problematica di una sintesi tra i valori sommi che le ispirano, libertà ed eguaglianza. Ideologie e valori, questi, da sempre e da (quasi) tutti considerati antitetici e dunque incompatibili; ad eccezione, però, di una corrente di pensiero che si può rintracciare nella cultura anglosassone a partire dalla metà dell’Ottocento, composta da illustri figure intellettuali - come John Stuart Mill, Hobhouse, Russell, Hobson, Dewey - tra loro alquanto eterogenee, ma convergenti nell’aspirazione a coniugare la garanzia di un’ampia sfera di libertà individuali e la promozione dell’eguaglianza e della giustizia sociale. Alla tradizione ideale di queste figure sono riconducibili i due movimenti politici fondati in Italia, rispettivamente, da Carlo Rosselli e da Guido Calogero (insieme ad Aldo Capitini): autore, il primo, del celebre Socialismo liberale (Rosselli 1973), base programmatica di «Giustizia e libertà»; il secondo, del Manifesto del liberalsocialismo, in più versioni (cfr. Calogero 1972). Bobbio aderì fin dall’origine al movimento liberalsocialista; ma a più riprese promosse lo studio e la diffusione delle idee di Carlo Rosselli.
Tuttavia Bobbio, anziché di mediazione o di sintesi, ha sempre preferito parlare di «compromesso» tra libertà ed eguaglianza: perché, diceva, «questi due valori sono, nella loro assolutezza, se vengono intesi come valori ultimi, incompatibili, nel senso che nessuna società al mondo potrà essere insieme tutta libera e tutta egualitaria, cioè composta da individui che siano totalmente liberi e totalmente eguali tra loro» (Bobbio 1989; Bobbio 2005a, p. 228). Ciò nonostante, ben più di un compromesso, direi una vera e propria integrazione tra i valori della libertà e dell’eguaglianza emerge evidente nel modo accolto da Bobbio di considerare il rapporto tra i diritti di libertà e i diritti sociali. Il merito dell’elaborazione teorica di questo rapporto, e della sua assunzione tra i principi fondanti della Costituzione italiana, Bobbio lo attribuiva a Piero Calamandrei. Secondo il quale, l’«innesto» della tradizione socialista su quella liberale aveva consentito alla migliore cultura politica e giuridica di riconoscere che «la giustizia sociale è condizione della libertà individuale» (Calamandrei 1946, p. XXXI).
Calamandrei, una tra le più alte guide morali della Resistenza e uno dei più nobili padri costituenti, nel 1945 aveva fondato una rivista, «Il Ponte», destinata proprio a diventare - secondo la testimonianza di Bobbio - «la rivista di quel gruppo del Partito d’Azione che aveva dato vita al movimento liberalsocialista» (Bobbio 1997; Bobbio 2005a, p. 247). Mi piace qui ricordare che nel 2005 è stato pubblicato, con il sostegno della Fondazione Monte dei Paschi di Siena e per iniziativa di Marcello Rossi, allora e tuttora direttore della rivista, uno splendido volume nel quale sono raccolti tutti gli articoli di Bobbio usciti su «Il Ponte». Il volume - credo poco noto e di difficile reperimento - riprende il titolo del penultimo contributo che Bobbio offrì alla rivista in occasione del suo mezzo secolo di vita: Cinquant’anni e non bastano (Bobbio 2005a). Di questo scritto dirò più oltre. Il primo articolo, con cui Bobbio apriva nel 1946 il mezzo secolo e più di collaborazione a «Il Ponte», è dedicato a Karl Popper (cfr. Bobbio 1946; Bobbio 2005a, pp. 43-49): un liberale conservatore al quale Bobbio, pur non condividendone molti giudizi storici, filosofici e politici, ha sempre reso omaggio. Gli piaceva soprattutto quell’immagine, messa in onore da Popper, della «società aperta», che giudicava una felice metafora dello stato anti-totalitario, e perciò della democrazia. L’ultimo saggio incluso nel volume è l’unico che non corrisponda a un articolo comparso su «Il Ponte»: si tratta della Introduzione, redatta da Bobbio nel 1966, alla raccolta degli Scritti e discorsi politici di Calamandrei (cfr. Calamandrei 1966, pp. XI-LVIII; Bobbio 2005a, pp. 251-78). Che oggi meriterebbero non solo una rilettura, ma una diffusione militante.
Popper e Calamandrei, l’alfa e l’omega del volume che ho voluto qui ricordare: un conservatore e un rivoluzionario, nel senso, s’intende, della «rivoluzione democratica» assunta dal Partito d’Azione come sommo obiettivo politico. Tra l’uno e l’altro, nella trentina di articoli pubblicati da Bobbio su «Il Ponte» ritroviamo altri profili di figure intellettuali - tra cui: Piero Gobetti, Guido De Ruggiero, Gioele Solari, Silvio Trentin, Gaetano Salvemini, lo stesso Piero Calamandrei, del quale Bobbio scrisse per la rivista un commosso necrologio, intitolato Egli era quello che avrei voluto essere (cfr. Bobbio 1956; Bobbio 2005a, pp. 110-11) - che vanno a comporre il ritratto collettivo di quel mondo morale, chiamato da Bobbio «Italia civile».
I contributi più emblematici di Bobbio a «Il Ponte» sono forse due saggi degli anni Ottanta, intitolati il primo Liberalsocialismo, il secondo Socialismo liberale: l’uno corrisponde al discorso tenuto ad un convegno in memoria di Tristano Codignola; l’altro riprende la relazione presentata ad un convegno dedicato ai fratelli Rosselli, a Ernesto Rossi e a Gaetano Salvemini. In questi due testi troviamo esplicita conferma che Bobbio riconduce entrambe le formule e le nozioni da queste espresse ad un unico nucleo ideale. Da questo medesimo nucleo, dice Bobbio nel primo saggio, erano scaturiti sia Socialismo liberale di Carlo Rosselli, sia Il metodo dell’economia e il marxismo di Guido Calogero, accomunati come «due testi di critica del marxismo di orientamento socialista e liberale» (Bobbio 1986 b; Bobbio 2005a, p. 223). Condizione di possibilità di tale orientamento era appunto un’interpretazione non (o anti) marxista dell’idea di socialismo. Spiega Bobbio nel secondo saggio:
Ciò che accomunava un certo socialismo al liberalismo e contrapponeva entrambi al socialismo collettivistico era la concezione individualistica della società contrapposta alla concezione organica [...]. L’individuo, non il gruppo, la collettività, la classe, il partito, erano il punto di partenza della teoria e della pratica politica sia del liberalismo sia del socialismo così inteso. Sull’individualismo come elemento essenziale del socialismo, contrapposto alla concezione organicistica della società che caratterizza il pensiero reazionario, ha scritto pagine penetranti, a mio avviso da riprendere, Karl Polanyi [...] nel volume intitolato La libertà in una società complessa, in cui l’organicismo anti-individualistico è considerato come la visione del mondo propria del fascismo e, in genere, del pensiero reazionario. Il socialismo è, per Polanyi, individualistico nel senso che il suo fine è la piena realizzazione dell’individuo in tutte le sue potenzialità (Bobbio 1989; Bobbio 2005 a, p. 226, corsivi aggiunti).
Nel primo dei due saggi qui ricordati, che è del 1986, Bobbio sosteneva ancora: «la forza direttiva di un movimento che sia insieme liberale e socialista, che non ripudi la grande tradizione liberale dei diritti dell’uomo e la prolunghi nella continua e mai conclusa battaglia per l’emancipazione dei non liberi e per l’eguagliamento dei non eguali, non è mai venuta meno» (Bobbio 1986; Bobbio 2005b, p. 224). Una decina d’anni più tardi, nell’ultimo contributo offerto a «Il Ponte», riaffermava «la tesi che a mio parere sta alla base del pensiero liberalsocialista, secondo cui i diritti sociali non solo rispondono all’esigenza di dare attuazione all’ideale della solidarietà da porre accanto a quello della libertà, ma costituiscono la condizione stessa del pieno esercizio dei diritti di libertà». E subito aggiungeva: «Si tratta di una tesi da ribadire con forza oggi che la sinistra nel nostro paese, travolta e disorientata dal crollo del sistema del socialismo reale, sembra aver dimenticato» (Bobbio 1997; Bobbio 2005b, p. 248).
5. Cinquant’anni non erano bastati
Tre anni prima, Bobbio aveva inviato a «Il Ponte» un breve articolo destinato al fascicolo inaugurale della cinquantesima annata della rivista, che era nata nel 1945, intitolandolo Cinquant’anni e non bastano (cfr. Bobbio 1994; Bobbio 2005 a, pp. 245-46). Era dunque il 1994: anno fatale, da cui sarebbe cominciato il secondo ventennio funesto della sciagurata storia patria. Nel 2011 ho avuto la tentazione di chiamarlo «ventennio breve»; ma sarebbe stato un errore. Bobbio scrisse quest’articolo nei primissimi giorni di quell’anno fatale: quando stava per giungere alla fine, con lo scioglimento anticipato del cosiddetto «parlamento degli inquisiti», la legislatura più corta della storia repubblicana; e insieme ad essa, diceva Bobbio, veniva a chiudersi anche «un ciclo storico durato mezzo secolo», e forse stava per cominciare «una seconda repubblica».
All’inizio dell’articolo, Bobbio richiamava l’emblema (il logo) della rivista di Calamandrei: il disegno di un ponte diroccato, vittima della guerra, una sola arcata, crollata, distrutta, sugli estremi della quale, i pilastri e i pochi mattoni dell’arco rimasti in piedi, è posato un asse di legno, e un omino con un badile sulle spalle che procede da una sponda all’altra su quella precaria passerella. L’occasione celebrativa, il cinquantesimo compleanno de «Il Ponte», suggeriva a Bobbio una riconsiderazione del significato di quel disegno e una riflessione sulla sua attualità: «L'aveva fatto disegnare lo stesso Calamandrei per rappresentare la volontà di ristabilire una linea continua tra il passato e l'avvenire, al di sopra della voragine scavata dal fascismo». Bobbio scherzava, compiaciuto e corrucciato insieme, sulla «durata astronomica» della rivista, che aveva mantenuto quel logo: «Ma come? L'omino è ancora allo stesso punto di quell'asse traballante, non è ancora passato dall'altra parte, il ponte non è ancora stato ricostruito e il fragile pezzo di legno che l'aveva sostituito non è ancora stato rimosso, le due arcate sono ancora in rovina?». E avviava un bilancio:
Si è chiuso un ciclo storico durato mezzo secolo, esattamente come era durato mezzo secolo il periodo trascorso tra l'Unità e l'avvento del fascismo [...]. Allora, quando questo secondo ciclo ha avuto inizio dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, quel passante sapeva da dove era partito e dove bisognava andare [...]. Sull'altra sponda, da raggiungere faticosamente, c'era un mondo di pace, nonostante le vestigia della guerra, dove ci si aspettava che avremmo trovato più libertà e forse anche più giustizia [...]. Ora lo sappiamo un po' meno. Siamo sempre sullo stesso ponte, diventato, se mai, col passar del tempo, più insicuro. Non solo non sappiamo se riusciremo davvero a passare dall'altra parte. Ma non sappiamo neppure che cosa troveremo qualora riuscissimo a varcarlo.
Il giudizio di Bobbio era perentorio, e merita oggi di essere riletto per esteso:
Fuor di metafora, la repubblica, la «nostra repubblica», è finita male, anche se non nella violenza delle opposte fazioni, come spesso ci era accaduto di temere. È finita nel disonore, non di fronte al Tribunale della Storia, come finiscono le grandi epoche nel bene e nel male, ma, caso senza precedenti, credo, di fronte a un tribunale di uomini, in carne e ossa, dove giudici e avvocati si accapigliano sull'applicazione di questo o quell'articolo del codice penale. È finita peggio di quel che anche i più severi denigratori avessero mai previsto. Eppure era cominciata con le «grandi speranze». Nel momento in cui sembra che una seconda repubblica stia per cominciare, non molte sono le speranze che sentiamo aleggiare intorno a noi. Serpeggiano, anzi, timori. Tutt'altro che infondati.
Non ho difficoltà ad ammettere che sin dall'inizio la repubblica non aveva corrisposto a tutte le nostre grandiose aspettative. Non era passato molto tempo e già Calamandrei aveva coniato la parola «desistenza» da contrapporre a «resistenza». L'amico suo Jemolo, ambìto collaboratore della rivista, aveva rimproverato De Gasperi di «avere spento il roveto ardente». Ma pur dobbiamo riconoscere che il nostro paese era cresciuto lungo gli anni in pace, in libertà e in benessere. Se degenerazione c'è stata, sino alla situazione attuale di insopportabilità, questa è avvenuta con moto sempre più accelerato negli ultimi anni: motus in fine velocior. Tra il punto di partenza, pur con tutti i suoi limiti, e il punto cui siamo arrivati, almeno per quel che riguarda la qualità della classe dirigente, il divario è sin troppo visibile. Penso a Parri, a Einaudi, a De Gasperi, a Nenni, a Togliatti, a La Malfa, per nominarne solo qualcuno. Non mi pare che tra gli entrati in scena oggi per traghettare, come si dice con altra immagine, il paese da un regime all'altro, né tra i superstiti dei vecchi partiti che cercano di rinnovarsi né tra i nuovi che stanno sorgendo, vi sia qualcuno che possa reggere il confronto con coloro che abbiamo chiamato, se pur con una certa enfasi celebrativa, i padri della repubblica.
Ricordo ancora una volta che Bobbio scriveva queste parole nei primissimi giorni del 1994: il partito (davvero) nuovo, quello che Bobbio stesso avrebbe chiamato, pochi mesi dopo, il «partito fantasma», non si era ancora chiaramente manifestato. Ed ecco la diagnosi di Bobbio su quel presente, e la prognosi sul futuro:
Ma se siamo arrivati dove siamo arrivati, pur avendo compiuto i primi passi guidati da una classe dirigente degna di questo nome, mi domando con una certa apprensione dove andremo a finire cominciando il nuovo cammino da molto più in basso. Non da terra, ma addirittura dal sottosuolo, mi pare uscito l'incantatore plebeo, cui si accompagnano i grandi demagoghi e i grandi mestatori in nome, udite!, della liberaldemocrazia.
Delle tre componenti della futura maggioranza di governo, che sarebbe scaturita dalle elezioni del marzo successivo - quella che chi scrive avrebbe battezzato kakistocrazia (Bovero 2000) -, sulla scena politica era già roboantemente presente la frazione oclocratica, guidata dall’«incantatore plebeo»; si stava affacciando inquietante e invadente la frazione oligarchica, plutocratico-demagogica, destinata a diventare egemone; ma non era ancora stata recuperata dai rottami della storia patria la frazione tirannica. Proseguiva Bobbio:
L'unica speranza che ci rimane è che più in basso di così non si possa scendere, e che, una volta toccato il fondo, e non l'abbiamo ancora toccato, sia possibile risalire compiendo nel corso della seconda repubblica il cammino inverso rispetto alla prima.
Ovvero, suggeriva Bobbio, non più dall’alto verso il basso, bensì dal basso verso l’alto. Ma era solo una titubante speranza, non certo una previsione. Infatti concludeva:
Non mi avventuro in previsioni. Nella mia lunga vita ho assistito a tre grandi rotture: quando ero ragazzo, alla fine dell'età giolittiana e alla nascita del fascismo; in età adulta, alla caduta del fascismo e alla instaurazione di un governo democratico; ora, entrato nella vecchiaia, nell'età in cui ogni giorno che passa si ha sempre più l'impressione di essere dei sopravvissuti, alla fine ingloriosa anche della prima repubblica. Preferisco non fare previsioni, anche perché non c'è bisogno di conoscere in anticipo che cosa accadrà per continuare a battersi per i vecchi, e non invecchiati, ideali.
Ecco il messaggio di Bobbio:
Intanto continueremo a restare su quel ponticello, dal quale non ci siamo lasciati buttar giù in tutti questi anni, anche se non siamo mai stati dalla parte dei vincitori. E il non saper con sicurezza che cosa ci sarà al di là, come invece sapevamo allora, non è una buona ragione per rinunciare a cercare ancora una volta di raggiungere la riva.
6. Ma ora, un funesto centenario
Sono trascorsi altri trent’anni. La seconda repubblica sembrava fosse finita dieci anni or sono, nel 2011. Ma non era davvero finita. È ricominciata oggi, ed anzi è giunta al suo naturale e fatale compimento, consegnando l’egemonia kakistocratica alla componente più reazionaria, erede della tirannide, proprio mentre concludo la stesura di queste pagine. Mentre suonano lugubri i rintocchi di un funesto centenario. Tre giorni prima della marcia su Roma, il 25 ottobre del 1922 Piero Gobetti incitava i collaboratori della sua «Rivoluzione liberale» all’opposizione intransigente e alla libera battaglia delle idee: «...vogliamo essere più aperti che mai e l’inventario di farà tra cent’anni; i frutti li raccoglieranno gli altri e saranno diversi per fortuna da quelli che oggi attendiamo» (Gobetti 1922 a, p. 2, corsivi aggiunti). No: i frutti del pensiero e dell’azione dell’Italia civile sono stati sprecati. La sua eredità intellettuale e morale è stata dissipata.
Bibliografia
Bobbio N. (2005a), Cinquant’anni e non bastano, Il Ponte Editore, Firenze.
- (2005b), Politica e cultura, nuova ediz. arricchita Einaudi, Torino (prima ediz. 1955, Einaudi, Torino).
- (1997), Il Ponte cinquantenne, in “Il Ponte”, LIII, 10.
- (1996), De senectute, Einaudi, Torino.
- (1994), Cinquant’anni e non bastano, in “Il Ponte”, L, 1.
- (1993), Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, La Nuova Italia Scientifica, Roma.
- (1991), I miei conti con Del Noce, in «La Stampa», 31 dicembre.
- (1990), Io e Augusto Del Noce, in “Il nuovo Areopago”, IX, 2.
- (1989), Socialismo liberale, in “Il Ponte”, XLV, 5.
- (1986a), Italia civile, Passigli, Firenze (prima ediz. 1964, Lacaita, Manduria).
- (1986b), Liberalsocialismo, in “Il Ponte”, XLII, 1.
- (1986c), Profilo ideologico del Novecento italiano, Einaudi, Torino (prima ediz. 1969, Garzanti, Milano; terza ediz. 1990, Garzanti, Milano).
- (1978), Intellettuali, voce della Enciclopedia del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, vol. III.
- (1971), Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino.
- (1956), Egli era quello che avrei voluto essere, in “Il Ponte”, XII, 10.
- (1946), Società chiusa e società aperta, in “Il Ponte”, II, 12.
Bovero M. (2000), Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia, Laterza, Roma-Bari.
Calamandrei P. (1966), Scritti e discorsi politici, La Nuova Italia, Firenze.
- (1946, rist. anastatica 1975), L’avvenire dei diritti di libertà, Introduzione a F. Ruffini, Diritti di libertà, La Nuova Italia, Firenze.
Calogero G. (1972), Difesa del liberalsocialismo e altri saggi, Marzorati, Milano.
Del Noce A. (1990), Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, il Mulino, Bologna.
- (1989), Secolarizzazione e crisi della modernità, Istituto Suor Orsola Benincasa, Napoli. - (1973), Il ripensamento della storia italiana in Giacomo Noventa, in G. Noventa, Tre parole sulla Resistenza, Vallecchi, Firenze.
- (1957), Filosofia e politica del comunismo, in “Quaderni di azione sociale”, 1.
Gobetti P. (1922a), Difendere la Rivoluzione, in “La Rivoluzione Liberale”, I, 31.
- (1922b), Al nostro posto, in “La Rivoluzione Liberale”, I, 32.
Rosselli C. (1973) Socialismo liberale, ediz. critica a cura di John Rosselli, Einaudi, Torino (ultima ediz. arricchita 1997, Einaudi, Torino).
Ruffini F. (1946, rist. anastatica 1975), Diritti di libertà, La Nuova Italia, Firenze (prima ediz. 1926, Piero Gobetti editore, Torino).
E-mail: