In questo momento in Italia è particolarmente in auge l’invocazione retorica: «i cittadini al posto dei politici». Essa si basa su una narrazione secondo cui i cittadini sono ragionevoli, affrontano i problemi nel merito e in modo non ideologico, dispongono di conoscenze diffuse che possono facilmente essere mobilitate soprattutto grazie alla rete, sono in grado di individuare soluzioni pertinenti e innovative nell’interesse di tutti. Al contrario i politici sono vittime del loro stesso gioco partigiano, mettono al primo posto gli schieramenti e al secondo posto i problemi reali, subordinano le scelte pubbliche all’andamento mutevole delle alleanze, sono abbacinati dai poteri forti, compiono scelte particolaristiche e di breve periodo perché sono le uniche che pagano sul piano elettorale. L’intelligenza collettiva e disinteressata dei cittadini si contrappone alla stupidità gretta e autoreferenziale della classe politica.
Questa retorica richiama antichi miti populisti: il popolo incontaminato che si contrappone ai governanti corrotti. Ma riecheggia anche – sia pure alquanto rozzamente – una delle proposte più ricche e innovative che sono state avanzate negli ultimi decenni per far fronte alla crisi della democrazia rappresentativa, ossia la proposta della democrazia deliberativa. Ha in comune con essa almeno due aspetti: l’idea che sia necessario rompere il monopolio dei politici di professione, allargando il confronto sulle scelte pubbliche a tutti coloro sui cui ricadranno le conseguenze di quelle decisioni; e l’idea che un dibattito aperto sul merito delle scelte e sulle loro implicazioni possa migliorare il contenuto delle decisioni ed accrescere pertanto l’intelligenza collettiva. In altre parole le arene decisionali devono essere il più possibile inclusive; e l’inclusione ha lo scopo di permettere un arricchimento cognitivo. Questo accostamento tra la teoria della democrazia deliberativa e le retoriche basate sull’apporto dei cittadini mi pare molto significativa. Stiamo assistendo a una diffusa ricerca di strade alternative alla «causa persa» della democrazia standard (Mastropaolo 2011). Il travolgente successo dei movimenti che si fondano su questa retorica (come il Movimento5Stelle, ma anche – in qualche misura – quelli che hanno portato alla vittoria Pisapia a Milano o De Magistris a Napoli o il referendum sull’acqua pubblica del 2011) mostra come l’appello alla ragionevolezza dei cittadini sia facilmente compreso e fatto proprio negli ambienti sociali più disparati.
Certamente questa retorica appare semplicistica e ignora troppi problemi che prima o poi sono destinati a venire al pettine. In particolare l’idea della «democrazia dei cittadini» va incontro a tre ordini di limiti: la concezione dualistica dello spazio politico, la tendenza aggregativa e referendaria, l’incertezza sulle modalità di coinvolgimento dei cittadini. Proverò a mostrare che le esperienze di democrazia deliberativa, pur muovendosi all’interno di una cornice abbastanza simile, sono in grado di superare tali limiti ed offrire un terreno più solido per favorire il contributo dei cittadini alle scelte pubbliche.
Concezioni dualistiche e concezioni plurali
Il primo limite della «democrazia dei cittadini» riguarda la concezione troppo elementare della società che sta alla base di questa retorica. I sostenitori di questa narrazione suppongono che il problema centrale sia quello della contrapposizione tra governanti e governati. Si basano quindi su una concezione dualista: da un lato ci sono i partiti annidati nelle istituzioni, dall’altro l’insieme dei cittadini. I primi seguono logiche autoreferenziali ispirate soprattutto alla difesa delle loro prerogative. I secondi hanno idee, bisogni e interessi che i partiti non sanno o non vogliono raccogliere. I cittadini sono in grado di riconoscersi reciprocamente attraverso la rete e di rendere così evidente la loro alterità rispetto al mondo dei politici. Quando per esempio i deputati del M5S dicono che sono lì per prendere decisioni che interessano «i cittadini», lasciano supporre che esista un’entità chiamata «cittadini» che essi possono facilmente identificare e interpretare.
Viceversa la democrazia deliberativa si basa su una concezione plurale della società. Il problema principale non consiste nella contraddizione tra governati e governanti, ma piuttosto nelle contraddizioni che esistono tra i governati stessi. La democrazia deliberativa si propone soprattutto di stabilire un dialogo diretto tra i diversi punti di vista che circolano nella società sui temi che sono sul tappeto. Essa mira a mettere i cittadini portatori di posizioni contrapposte gli uni di fronte agli altri: gli inquinatori e gli inquinati nelle politiche ambientali, i difensori della vita e i sostenitori della scelta individuale nelle discussioni sull’aborto o sul testamento biologico, i residenti e i promotori delle grandi opere nelle scelte sulle infrastrutture, gli autoctoni e gli stranieri nelle politiche sull’immigrazione, gli abitanti e i gestori dei locali notturni nelle scelte sulla regolazione della movida. Lo scopo della deliberazione è quello di creare situazioni di confronto dialogico tra tutti coloro che sono toccati da una decisione pubblica, affinché cerchino di comprendere le loro reciproche ragioni e, se possibile, di trovare qualche forma di accordo anche parziale e limitato o, almeno, di chiarirsi gli uni con gli altri sugli effettivi termini della controversia. I «deliberativisti» attribuiscono perciò un’importanza decisiva al contraddittorio (Manin 2005): se i termini della controversia non sono esplicitati e se gli argomenti di tutte le parti in causa non sono sottoposti al confronto, la deliberazione rischia di rimanere un guscio vuoto. Per questo tutti i principali dispositivi deliberativi si preoccupano prima di tutto di garantire che il contraddittorio sia ampio e esaustivo. Per esempio le giurie di cittadini, i sondaggi deliberativi e altre forme di minipubblici sono normalmente precedute da documenti informativi che presentano lo stato della questione e si svolgono attraverso l’ascolto di testimoni che offrono ai cittadini partecipanti i loro punti di vista contrapposti.
La «democrazia dei cittadini» tende a mettere tra parentesi le controversie che esistono nella società dal momento che considera come dominante il conflitto che oppone i cittadini alla classe politica. La democrazia deliberativa si propone, al contrario, di rendere espliciti i conflitti tra i cittadini e di offrire loro gli strumenti per affrontarli direttamente, senza la mediazione di un’autorità. È perciò una forma di ricorso al popolo di natura non populista.
Aggregazione e deliberazione
Chi fa appello ai cittadini (contro i politici) tende a privilegiare strumenti di democrazia diretta che consentano ai cittadini stessi di far pesare le loro opinioni nell’arena politica. Il modello fondamentale a cui si fa riferimento è quello referendario, nelle svariatissime declinazioni che sono rese possibili dalla rete: sondaggi istantanei, votazioni on line, espressione di opinioni. I post che si affollano nei blog non sono che strumenti con cui ciascuno cerca di far sapere da che parte sta nella speranza che i post a favore della propria parte risultino soverchianti rispetto a quelli avversi. Di fronte a qualsiasi nodo da sciogliere, si fa subito forte nella rete la proposta di esprimersi e di contarsi: c’è un’evidente fretta di arrivare a sbaragliare gli avversari mediante la potenza dei numeri; il principio di maggioranza è considerato come un dogma indiscutibile dal popolo della rete, del momento che ciascuno tende a considerarsi parte di quel 99% che vuole liberarsi dall’oppressione da parte dell’1% al potere. E c’è anche un’altra pretesa: che i risultati della consultazione o del referendum possano avere un valore vincolante, diventino legge per tutti, si trasformino in punti fermi da cui non è più possibile tornare indietro. Queste pretese sono del tutto congruenti con l’impostazione dualistica che vede i cittadini come globalmente contrapposti ai partiti. Se i cittadini sono portatori (fondamentalmente omogenei) di proposte ragionevoli, per esempio contro le grandi opere, per la riduzione delle spese militari o per l’istituzione di un reddito di cittadinanza, che sono invece osteggiate dalla classe politica per motivi o interessi poco chiari, è del tutto evidente che il referendum vincolante è una strada conseguente. Il problema è infatti quello di mettere i politici con le spalle al muro.
Viceversa i fautori della democrazia deliberativa diffidano dei referendum, della conta dei voti e del principio di maggioranza. Certamente non disprezzano questi strumenti e riconoscono che in certe condizioni essi possono essere utili per chiudere una contesa e per fissare alcuni punti fermi. Ma li considerano come un rimedio estremo a cui ricorrere con le dovute cautele. Prima di contare le opinioni è importante dare la possibilità che si formino e si confrontino. Le opinioni non sono dati di fatto che precedono il processo decisionale e di cui si deve prendere atto. Sono piuttosto i prodotti del processo stesso che emergono, si trasformano e si perfezionano mediante l’acquisizione di informazioni e l’analisi degli argomenti e dei contro-argomenti. Le esperienze di democrazia deliberativa si preoccupano prima di tutto di offrire spazi in cui le preferenze dei cittadini possano prendere forma e confrontarsi e in cui essi possano cambiare idea, se posti di fronte a nuove informazioni o a ragioni convincenti. L’essenza della democrazia non consiste nell’aggregazione delle preferenze, ossia nella conta dei voti, ma nella deliberazione approfondita sulle ragioni portate dalle parti in causa.
Processi bradi e processi strutturati
Il punto più debole del riferimento ai «cittadini», in quanto opposti ai politici, risiede nel fatto che le modalità del loro coinvolgimento e i processi di formazione delle scelte vengono spesso lasciati nel vago. Si fa appello alla rete, ma le procedure seguite rimangono per lo più oscure o casuali, come mostrano le polemiche che hanno accompagnato le consultazioni del M5S per le «parlamentarie» e le «quirinarie». Ma anche a prescindere da questi aspetti (e dai relativi sospetti di manipolazione delle procedure o dei risultati), si ha l’impressione che la rete sia un campo troppo indefinito e aperto a troppe scorribande per permettere il raggiungimento di risultati credibilmente imputabili «ai cittadini». E indubbiamente questa indeterminatezza rischia di minare profondamente la legittimità delle conclusioni che si raggiungono per questa via. D’altra parte la rete costituisce un formidabile strumento di connessione tra individui sparsi che grazie ad essa possono riconoscersi tra di loro e definire una loro identità collettiva, come è avvenuto nella primavera araba, nel movimento degli indignados spagnoli e per lo stesso M5S. Ma funziona molto meno come medium di confronto tra soggetti che hanno posizioni diverse. Nella rete, così come nella società, le persone finiscono per aggregarsi in tribù fondate sulla somiglianza e a rafforzare legami di tipo comunitario. La deliberazione tra diversi è un evento innaturale nella società e lo è altrettanto nella rete. Clara Mutz (2006) ha mostrato che le persone nel corso della loro vita hanno pochissime occasioni per confrontarsi con chi la pensa diversamente da loro. «Ascoltare l’altra parte» è un evento inusuale e poco ambito. Basta scorrere gli interventi su un qualsiasi blog per rendersi conto che la chiusura identitaria è dominante ed è spesso accompagnata da pesanti insulti per qualsiasi interlocutore percepito come estraneo.
I deliberativisti sostengono, perciò, che le sedi del confronto vanno costruite con la massima cura. Nell’individuazione dei partecipanti, nell’offerta del contradditorio, nella conduzione dei processi e fin nell’organizzazione dello spazio fisico. I cittadini devono essere messi in condizione di ottenere informazioni equilibrate, di poter interrogare esperti di diversa provenienza, di poter esprimere le loro opinioni senza essere sopraffatti o stigmatizzati. A questi principi di fondo si ispira una variegata serie di metodologie, che sia pure con strumenti molto diversi, si premurano di creare un ambiente favorevole all’inclusione di tutti gli interessati e al confronto dialogico tra di loro (Bobbio - Pomatto 2007, Bobbio 2010a, Romano 2012).
Esperienze di democrazia deliberativa
Anche in Italia, nel corso dell’ultimo decennio, si è svolto un ampio spettro di sperimentazioni che hanno affrontato temi di carattere generale (per esempio, il federalismo o il testamento biologico), conflitti sulla localizzazione di grandi opere (Pomatto 2011) o su trasformazioni urbane. Sono stati usati sia metodi che si basano sul sorteggio casuale dei partecipanti, come le giurie di cittadini (Carson 2006, Bobbio - Giannetti 2007) o i sondaggi deliberativi (Isernia et al. 2008), sia approcci basati sulla partecipazione aperta a tutti gli interessati, come avviene per i bilanci partecipativi (Ravazzi 2007, Sintomer - Allegretti 2009) e per i dibattiti pubblici sulle infrastrutture (Bobbio 2010b). Le sperimentazioni più importanti si sono concentrate in Toscana grazie alla legge sulla partecipazione del 2007 che ha dato un grande impulso allo sviluppo delle arene deliberative (Paba et al. 2009, Floridia 2012). Insomma esiste ormai, nel nostro paese, un ricco patrimonio di esperienze, di know how e di ricerca su questi aspetti a cui si può facilmente attingere per diffondere sedi di deliberazione tra i cittadini.
Queste esperienze presentano, naturalmente, luci e ombre (Bobbio 2013). L’inclusione dei diversi punti di vista non è mai completa: ci sono gruppi che preferiscono sottrarsi al confronto e cittadini che sono troppo deboli per accedervi. La qualità della deliberazione è spesso imperfetta: la pura e semplice contrapposizione tra opinioni precostituite può prendere il sopravvento sul confronto ragionato. La manipolazione da parte dei politici o degli organizzatori di tali esperienze è sempre in agguato. Le tecniche adottate possono risultare inappropriate al contesto o troppo rigide. E infine, può non aver senso promuovere la democrazia in una singola arena, se le acquisizioni raggiunte in quella sede non si trasmettono all’intera società: quello che dovrebbe interessare non è infatti la «democrazia in una stanza», ma il consolidamento del sistema deliberativo su larga scala (Mansbridge - Parkinson 2012). E tuttavia, malgrado questi limiti (di cui peraltro la letteratura internazionale è ben consapevole), la trattazione di problemi pubblici (e dei relativi conflitti) nelle «arene deliberative» costituisce una risposta appropriata alla domanda di partecipazione dei cittadini e all’esigenza di rompere il monopolio dei politici.
La democrazia deliberativa dovrebbe, quindi, risultare particolarmente in sintonia con i tempi. Offre una risposta meditata e non distruttiva alla crisi – universalmente avvertita – della democrazia rappresentativa. E benché possa apparire poco attraente, sia pure per motivi opposti, per i politici e per i movimenti, consente di arricchire con nuovi strumenti una sfera pubblica che oggi appare particolarmente asfittica.
Qualcosa si sta muovendo. La commissione di saggi insediata il 30 marzo scorso dal capo dello stato ha proposto di istituire il confronto pubblico preventivo (secondo il modello francese) sulle grandi opere, che potrebbe capovolgere l’attuale approccio basato sull’imposizione dall’alto. La Toscana sta rivedendo la legge sulla partecipazione allo scopo di renderla più efficace. E si potrebbe andare oltre: l’impasse delle forze politiche sulla riforma della legge elettorale non potrebbe essere superata dall’istituzione di un’assemblea di cittadini come quella indetta nella British Columbia nel 2004 per cambiare il sistema elettorale di quella provincia canadese (Warren - Pearse 2008)? Per restare in materia di istituzioni, è curioso che nell’attuale dibattito sulla riforma della costituzione si sia molto discusso se affidarne l’elaborazione a una convenzione separata dal parlamento o alle commissioni parlamentari, ma che a nessuno sia venuto in mente di come coinvolgere i cittadini in questo processo. Eppure qualcosa del genere è stato appena fatto in Islanda – sicuramente in modo perfettibile – per riscrivere la costituzione di quel paese dopo la crisi finanziaria del 2008 (Gylfason 2012). Potremmo provarci anche noi.
Riferimenti bibliografici
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Warren M. E. e Pearse H. (2008) (a cura di), Designing Deliberative Democracy: The British Columbia Citizens’ Assembly, Cambridge University Press, New York.
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