Il tema dell’immaginazione in relazione alla politica è complesso, a causa della complessità di entrambi i lemmi usati in modo banalizzato e indeterminato che evoca esperienze diverse a seconda del background culturale e del contesto in cui si parla. È quello che si direbbe un discorso labile polisemantico, ma ciò nonostante la coppia concettuale ha una importanza decisiva nel pensiero della politica e pone problemi ineludibili, dal momento che – ed è questo il presupposto di questo saggio – il ruolo dell’immaginazione nel fenomeno politico è assolutamente cruciale, addirittura costitutivo.
Nel breve giro di un saggio è possibile solo avanzare la mia ipotesi: la tradizionale separazione di immaginario e immaginazione che definisce il primo come supporto del sociale, e il secondo, sulla scia romantica, come la potenza soggettiva che istituisce il novum politico, è problematica e necessita di una maggiore attenzione alla dimensione negativa, distruttiva dell’immaginazione stessa che non rivela, ma coincide con il soggetto. Evidenziata sia pur brevemente la demonicità del concetto in alcune decisive svolte del pensiero politico, lo si metterà alla prova con la proliferazione abnorme del ruolo delle immagini stesse nella attuale fase del capitalismo cognitivo, dove esattamente il momento distruttivo e potenzialmente antagonistico, il soggetto nella sua dissidenza verso l’immaginario dominante, viene meno.
Diamo il nome di «immaginario sociale» alla autorappresentazione di un gruppo. In questa accezione esso è costitutivo della comunità stessa: è il carattere immateriale e nondimeno capace di produrre effetti di potere che l’immagine della comunità opera su quanti la condividono. Le ricerche antropologiche di Lévi-Strauss (2009) sottolineano come al di là di conflitti e di gerarchie interne al gruppo, rimane costante l’immagine della sua compattezza. Immagine di natura non solo descrittiva, ma normativa. Che testimonia la dimensione sacrale, originariamente religiosa (religio rinvia al legame) e politica dell’immaginario. Certamente un surplus di senso accompagna l’immagine del comune. E testimonia la specificità dell’attività umana di immaginare, che convoglia emozioni e obblighi, conoscenza e sensazione sulla relazione con il gruppo di appartenenza. Non a caso Platone (2000, 70 b) la collocava in quell’organo, il fegato, che gli aruspici interrogavano per orientare l’azione futura: organo liscio, dice Platone, come uno specchio e dunque intermedio tra il dentro e il fuori, di un fuori che si specchia nel dentro. Proiezione, imitazione, identificazione appaiono da subito i tratti di questa potenza non celebrale, legata alle facoltà tymotiche psico-sensoriali che eccedono la argomentazione deduttiva. C’è dunque un dispositivo simbolico che si mette in moto quando un gruppo si riconosce una identità e una compattezza. Le scienze sociali – antropologia, sociologia, storia, psicologia – attestano che l’immaginazione è da sempre al potere. L’antropologia negativa del Novecento ci dirà che l’elemento strutturante dell’esperienza del sociale è proprio l’immaginario, che la presenta come non disponibile e come non immediatamente accessibile la sua origine (Gehlen 1983).
Potere non perciò non contestato, decostruito, svelato: come se ci fosse una verità dietro l’immaginario, che acquisisce l’alone di diffidenza che circonda qualcosa di ingannevole. Le scienze disvelanti, le scienze moderne del sospetto lavorano per mostrare che dietro l’immaginario sociale si trovano agenti sociali da smascherare affinché la storia divenga trasparente a se stessa. L’immaginario è la phantasia, il surplus libidico che sostiene un assetto di poteri, sacro anche quando il sacro perde la forza di interdizione propria del divino. Leggibile in questa chiave è oggi la naturalizzazione del libero mercato come orizzonte della prassi contemporanea. L’immaginario è la fantasia che il gruppo condivide e nella quale si identifica attraverso un movimento di alienazione del sé che ripete la identificazione della fase dello specchio nello sviluppo infantile. Occultamento della frammentazione dell’Io nell’immagine mediata dallo sguardo dell’Altro, dell’ordine simbolico cui ci si trova ad appartenere. Idealizzazione indispensabile per colmare l’angoscia della frammentazione e del disordine che ci minaccia. La potenza della fantasia, dell’attività produttiva di immagini opera dunque come supporto fantasmatico e legittimazione dell’ordine esistente che garantisce l’autoconservazione del gruppo. Lo stesso potere democratico deve necessariamente far fronte alla sua contingenza cercando il supplemento libidico dell’immaginario: dispositivo di controllo delle vite, dunque. Ma anche il luogo e l’oggetto del conflitto sociale, del disaccordo. Lo scontro tra le parti per e attraverso l’immagine sociale è già nella democrazia ateniese descritta da Platone, il luogo dove la Retorica cerca il controllo della persuasione delle anime e della loro immaginazione. Solo la sottrazione a questa guerra sull’immaginazione, alla doxa, e l’invenzione platonica della verità, l’invenzione (o la ricerca persuasiva) di una verità non manipolabile, può mettere fine al dominio dell’immaginario e della sua screditata funzionalità ai poteri.
La condanna dell’immaginazione al ruolo di potenza fuorviante e ingannatrice, inizia dunque assai presto, insieme alla critica riflessiva della filosofia e alla nascita della verità. Persiste, anzi si esalta il riconoscimento della funzione politica dell’immaginario sulle menti non critiche: governare è far credere, dice Machiavelli.
Eppure la cosa è più complessa. Rousseau ne fa emergere l’ambivalenza. Nel momento stesso in cui attacca la perversione dell’immaginario dominante, penetra con acume la natura produttiva della facoltà immaginativa. Nessun rapporto sociale è possibile senza che l’uomo prolunghi la propria esistenza nelle immagini di sé e degli altri (Rousseau 2009, pp. 280-281). Ciò che spinge ad agire sono il cuore, le passioni, i desideri.
Siamo ad un bivio, là dove inizia la separazione di immaginario e immaginazione. Da una parte Kant e il romanticismo ricevono questo lascito di potenza creativa ma anche fragile e degenerabile dell’immaginazione. Dall’altro le scienze sociali – scienze biopolitiche mirate a supportare il governo delle vite – sottolineano la dipendenza dell’immaginario dalle relazioni di potere, la sua funzionalità strategica, opponendovi – sulla scia di Platone – un sapere oggettivo, che ora è scientifico e tecnico. Qui Marx e la sua critica dell’ideologia. La produzione di immaginario e le rappresentazioni collettive dei rapporti sociali sono la sovrastruttura ideologica che conserva e riproduce le relazioni sociali generate dal capitalismo. Lo sguardo di Marx ha una speciale sensibilità per la materialità dell’immaginario, attraversa la consistenza della merce e vede ciò che nell’oggetto manipolato non si vede più: la fatica reificata di chi ha prodotto quelle cose (Marx 1867, p. 29 ss.). Fetish, il feticcio-merce è immagine di altro ma anche l’oggetto che prende il posto dell’oggetto d’amore. Si conferma l’inganno dell’immaginario che neutralizza la natura concreta (il valore d’uso) per lasciar vagare la fantasia dello scambio equivalenziale. Al di là di Marx e delle sue intuizioni, il feticismo mostra, nell’immaginario, una dinamica libidica perversa che supporta l’accettazione dell’ordine sociale spettralizzando il suo reale sostegno: lo sfruttamento dell’uomo.
La posizione di Marx è ontologica e simbolica: il concreto è causa dell’immaginario. Allo stesso modo Durkheim subordina alla funzione del consenso le rappresentazioni dell’immaginario collettivo. È quello stesso reticolato di significati e di segni che fissano, per Weber, in un codice collettivo bisogni e attese, speranze e paure? Forse non proprio, ma è certo che nei saperi sociologici – che guardano al vivente in vista della sua governamentalità – le immaginazioni collettive legittimano i poteri.
Il senso comune e l’immaginazione produttiva
Questo schema viene dilatato dalla psicoanalisi, ma anche capovolto, poiché si parte dalla singolarità. Nell’orizzonte della dimensione libidica del legame sociale, l’immaginazione non è una facoltà ma il modus del disporsi globale del soggetto, il suo stile, l’emergere stesso del soggetto nella sua relazione di dipendenza e di scarto rispetto all’ordine simbolico che lo identifica. Il fatto di emergere all’interno di un ordine interdittivo, quello del linguaggio e del codice sociale – il nome del Padre – segna il soggetto come mancante (come narra la metafora della castrazione edipica), mai totalmente coincidente con la identificazione letterale e simbolica, destinato ad adempiere in modo immaginario la propria incompletezza, ad aderire ad una immagine idealizzata che gli viene dall’Altro (Lacan 1974, pp. 91-180). Cosa tiene insieme l’ordine sociale se non l’immaginario, l'immagine normativa delle gerarchie, dei rapporti di dominio e di possibile conflitto? La partecipazione dell’attività immaginativa ad un fenomeno di produzione collettiva si pone nel segmento tra imitazione e identificazione che già i filosofi avevano pensato. Imitazione ma non ricalco.
Dobbiamo dunque fare un passo indietro per capire come la politica mobilita la facultas imagines fingendi, quella costellazione concettuale che attira al proprio interno invenzione e credenza, phantasia (platonica) che non distingue il vero dal falso e phantasma, ciò che appare e si presenta prima di ciò che si rappresenta. Laddove la potenza del sensibile, dell’emozione e del concreto non viene meno. È il territorio ontologico dell’aisthesis che è tanto la koinè aisthesis, il contestuale senso comune, che i modi pre-categoriali che già Rousseau aveva illuminato. In modo meno dicotomico, il grande geografo della ragione umana, Hume valorizza l’immaginario all’interno del segmento del sentire, credere, immaginare: spazio dell’abitudine e di nessi associativi non univoci, dove impressioni, desideri, idee prendono forma e orientano la prassi. Sono i processi estetici non consapevoli che, per Hume, danno vita alle regole, alle credenze, a giudizi non conoscitivi ma complessi: performativi. L’immaginario come senso comune si addensa su un precategoriale mondo della vita tanto conciliato e non problematico, quanto oggi è invece una rete sfilacciata e ipercomunicativa. E Kant riprende il belief humeano assimilandolo alla koinè aisthesis che raccoglie la sfida del conoscere, a partire da casi particolari, cosa essi abbiano in comune (Kant 2006). Si delinea una genealogia della necessità del sentire nella vita sociale e politica irriducibile alla condanna di inautenticità.
La passività del senso iscrive la traccia e l’immaginazione la schematizza, la idealizza: schema per i concetti; exemplum per l’empiria. Non a caso a questo Kant estetico si riferisce Arendt, quando parla di esemplarità come riferimento fedele al particolare, sia pur stilizzato (Arendt, 2006).
La passività penetra nel cuore dell’attività del trascendentale; e sappiamo quanto densa di significato politico sia la coppia attivo e passivo (poietico e patetico). La sensazione non è solo recettiva, ma è attiva, spontanea, mentre recepisce, crea, seleziona, re-inventa. Kant sembra mediare tra singolarità e socialità. Ma è così? Cosa ha l’immaginazione di nomade che si sottrae alla presa del mondo? L’immaginazione riceve da Kant uno statuto proprio, deputato a reggere la tensione tra recettività e spontaneità, tra dentro e fuori, condizionato e incondizionato. Per Kant si tratta di recepire l’esterno e simbolizzarlo, proiettandolo rappresentativamente. E Schopenhauer sviluppa un Kant anti-intellettualistico: la soggettività fisiologica è oscuro fungere, istinto formativo che proietta immagini della perturbazione del corpo, capaci di produrre effetti (Schopenhauer 1995, p. 76): wirklichkeit è rappresentazione che ha effetti, prassi e tecnica di manipolazione politica.
Ma torniamo al nodo kantiano. L’immaginazione in Kant ha uno statuto pericoloso per il suo stesso sistema. In essa forse – lo ha intuito Heidegger – si annuncia l’emergere di una soggettività non regolata. La immaginazione kantiana, né passiva né concettuale, per Castoriadis indica un buco nella ontologia, il perturbante di un abisso senza fondo dell’immaginazione trascendentale di fronte al quale Kant e poi Heidegger avrebbero fatto un passo indietro. E così hanno rimosso la capacità istituente dell’immaginazione, la progettazione creativa dell’esistenza politica, lascito romantico che Castoriadis raccoglie (Castoriadis 1995). Si delinea una libertà sradicata che determina la politica, senza fondamento ontologico, tutta all’interno della volontà che diventa volontà di potenza. Perciò l’esitazione di Kant che esige che la spontaneità trascendentale sia comunque fenomenica, passiva.
Concetto ambiguo, quello kantiano. O la forza dell’immaginazione che produce la spontanea sintesi sensoriale è il segreto della soggettività; oppure l’immaginazione è solo un’ombra retroattiva della sintesi intellettuale. In ogni caso con maggiore o minore prudenza l’immaginazione si leva come potenza semidivina, creativa. Come nell’onnipotenza infantile, inventa mondi. E si dimentica che questa invenzione di mondi immaginari serve di supporto ad accettare la durezza della realtà: come sostiene la critica dell’ideologia.
Immaginazione destituente
Ma forse occorre lavorare dentro l’attività di immaginazione. Ed Hegel ci offre una strada.
Per Hegel l’immaginazione non unifica, dissolve: vede l’esistenza di parti separate nel tutto organico. Il suo potere è negativo: è la notte del mondo. «L’uomo è questa notte, questo puro nulla, che tutto racchiude nella sua semplicità - una ricchezza senza fine di innumerevoli rappresentazioni e immagini, delle quali nessuna gli sta di fronte, o che non sono in quanto presenti [...]; in fantasmagoriche rappresentazioni tutt’intorno è notte, improvvisamente balza fuori qui una testa insanguinata, là un’altra figura bianca, e altrettanto improvvisamente scompaiono. Questa notte si vede quando si fissa negli occhi un uomo – si penetra in una notte, che diviene spaventosa; qui ad ognuno sta sospesa di contro la notte del mondo» (Hegel 1984, pp.70-71). L’immaginazione disgrega l’ordine in una confusione di oggetti parziali, spettrali, frammenti, colori, brandelli di realtà: una testa insanguinata...; è dunque violenta, anarchica dissolvenza di ogni collegamento oggettivo. Ed è questa attività del separare che è «la forza e il lavoro dell’intelletto, della più straordinaria e più grande potenza, o meglio della potenza assoluta [...] che l’accidentale in quanto tale, separato […] il fatto che ciò che è legato ad altro ed è reale solo in connessione ad altro, ottenga una esistenza propria e una libertà separata, tutto ciò costituisce l’immane potenza del negativo; tutto ciò è l’energia del pensiero, del Io puro » (Hegel 1985, p. 85). Grande l’intuizione, che la psicoanalisi svilupperà, che questa distruttività è commercio con la morte, pulsione di morte: «La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la cosa più terribile; e per tener fermo ciò che è morto, è necessaria la massima forza [...] La vita dello Spirito non è quella che si riempie di orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa. anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito [...] lo Spirito […] guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso. Tale soggiorno è il potere magico che converte il negativo nell’essere. Questo potere magico si identifica con ciò che più sopra abbiamo chiamato il soggetto» (Hegel 1995, p. 87). Segnalare questa produzione di disintegrazione, di destituzione dell’ordine esistente, è un nodo, a mio avviso, cruciale. Il gesto negativo dell’immaginazione pre-sintetica pre-discorsiva distrugge ogni unità (della Realtà, dell’ordine immaginario e simbolico) smembra l’esperienza, instaurando le membra disiecta. Emerge un soggetto out of joint che coincide con l’immaginazione disordinante: lo dobbiamo prendere in carico in luogo di quel Soggetto della tradizione umanistica, feticcio fantasmatico che supporta l’ordine della realtà e si subordina agli interessi della vita. L’immaginario implode: qui una testa insanguinata, là una figura bianca (dunque, uno spettro). Se il soggetto emerge nella «potenza del negativo», il cerchio di assoggettamento soggettivizzante dell’immaginario si spezza, ed è restituito alla sua modificabilità, ad una nuova unificazione immaginaria. O forse l’implicazione reciproca persiste, ma la negatività dell’irriducibile finitezza del soggetto precede e non va rimossa. E la nuova sintesi è sempre insufficiente, sbilanciata, imposta violentemente alla molteplicità: non semplice riconoscimento di collegamenti nascosti tra membra disiecta, porta su di sé l’ombra lunga della pulsione di morte, la non coincidenza nella quale riconosciamo il soggetto. E d’altra parte l’attività immaginativa sintetica è sempre già in funzione, il Reale (la molteplicità disorganizzata presimbolica) è presupposto retroattivamente, ma mai si incontra: è già il prodotto della attività disgregativa dell’immaginazione, che squassa l’inerzia del Realtà.
L’esperienza psicoanalitica dice in altre parole il passaggio dalla notte del mondo all’ordine del logos. Tra pulsione di dissoluzione e di morte e narrazione sensata e linguistica. Passaggio non diretto, mediato da un mediatore evanescente, né natura né logos, che è l’immaginazione dissolvente che bisogna negare costruendo un immaginario, una fantasia che supporti l’ordine rinnovato.
Immagini simulacro
Ed è proprio questa immaginazione negativa dissolvente che sembra venir meno, oggi. L’immaginario dilagante, annullato ogni interdetto edipico, si manifesta nell’ingiunzione superegoica a godere, a autorealizzarsi, a lasciar proliferare la libera produzione di fantasie che offrano immediata soddisfazione e godimento. Un diluvio di immagini e segni che non si giustappongono – come nella critica dell’ideologia – alle pratiche economiche occultandone la durezza, ma che ne sono parte integrante, condizione della sua possibilità. «L’universo della significazione e della comunicazione subisce la stessa liberalizzazione che pervade i mercati mondiali», dice Baudrillard, «niente più sguardo, scena, immaginario, niente più nemmeno illusione, niente più esteriorità né spettacolo: è il feticcio della operatività che ha assorbito ogni esteriorità, riassorbito ogni interiorità... utopia realizzata» (Baudrillard 2005, p. 11). Universo psicotico, fattuale, ready made. Oggettività fatta di immagini, ma senza «sfocatura gestuale», senza «l’imprecisione che dà conto del tremore del mondo», «il simulacro non maschera la verità, esso maschera il fatto che non vi è affatto una verità» (ivi, p. 29). Comunicazione e immaginazione diventano costitutivi del processo di innovazione-produzione. Non si producono cose ma immagini seriali, brand, simboli fluttuanti per rispondere alla domanda di relazionalità, di significati sociali (di immaginario, dunque) che l’economia si offre di interpretare, a sua volta producendola: ma la produzione è paratattica, metonimica. Non c’è la sintesi metaforica e simbolica che marca le differenze e gli antagonismi. La eterogeneità delle immagini, la loro illimitata compatibilità impedisce lo scarto dell’immaginazione recalcitrante, negativa: si trova sempre una identificazione, sia pur mobile, compatibile, senza contraddizione. La serialità stessa assume un senso ontologico: suggerisce la destituzione del soggetto e lo apre ad una forma sociale non organizzata in una sintesi identitaria come quella della modernità. Lo consegna ad un agire locale, funzionale, infra-governamentale. Si svuota il sistema di simboli che erano, un tempo, densi di riconoscimento comunitario: l’immaginario, sollecitato dalla retorica immaginifica di superficie di un populismo che non mira più a emancipare ma solo a aggregare il pubblico in emozioni contagiose e imitative, ha effetti politici fluttuanti, funzionali a scopi contingenti. Eppure controlla saldamente, senza vie di uscita, le soggettività perché include tutte le contraddizioni spoliticizzandole; replica, ripete indefinitamente, senza esigere la coerenza simbolica, che emergeva dalla dinamica di interdizione, di negazione. Le realtà galleggiano su se stesse, precarie e flessibili come esige il mercato, offrendo la somiglianza, la ripetizione standardizzata o leggermente trasgressiva, parodistica di quelle che erano state le densità sostanziali della vita comune: gli amici, la famiglia, l’amore, la solidarietà, la protezione del gruppo. L’immaginazione d’altronde – è questa l’ambiguità del sistema – privata di interdetti, è libera come non mai, come libero è il soggetto che dispone direttamente del mezzo di produzione principale dell’economia immateriale: l’intelligenza, l’immaginazione, la psiche.
La questione è ovviamente quanto sia libera quest’immaginazione, quanto possa sporgere dall’ordine dato, se non si dà la dissoluzione immaginativa di quello stesso ordine, ma lo si replica obbedendo alla legge della produttività del capitale. Plasmata dall’immaginario consumistico delle merci, saprà disordinare gli schemi che l’immaginario ci fa sentire come obbliganti? È l’immaginazione la posta in gioco. Quell’immaginazione libera messa a servizio nel processo di valorizzazione: dentro l’impero di segni e immagini, ma potenzialmente anche contro di esso. Da ciò la estrema beffa, ma anche la paradossale verità della teoria del capitale umano.
Riferimenti bibliografici
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