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Editoriale

Editoriale a cura di LUCA ALICI
Quando vita e parola non si tradiscono

In uno dei suoi scritti “minori”, disseminati tra atti di convegni e riviste internazionali, Paul Ricoeur, che non disdegnava incursioni sul versante dell’ermeneutica biblica, ci offre una sorpresa ulteriore, affidando alla scrittura il sermone pronunciato alla Rockfeller Chapel dell’Università di Chicago, dedicato alle parabole di Gesù. Una riflessione non erudita sullo stupore che continuamente esse generano e rinnovano in chi le ascolta: racconti profani della normalità che, attraverso la loro ordinarietà, intendono rappresentare il Regno di Dio e la sua straordinarietà; il linguaggio della nostra storia, dei nostri drammi, della nostra quotidianità che viene interpellato per dire del Regno dei Cieli. Scrive Ricoeur, a un certo punto: «non è sufficiente sostenere che le parabole non dicono nulla che riguardi direttamente il regno di Dio. Dobbiamo affermare in termini più positivi che, prese nel loro insieme, esse dicono di più di qualunque altra teologia razionale» (Ricoeur 2009, p. 46).
Le parabole non sarebbero «frammenti di teologia dogmatica», ma «contributi di teologia pratica» che scardinano ogni «progetto di fare della propria vita qualcosa di lineare», perché si rimane «innanzitutto disorientati, prima di essere riorientati» (ivi, p. 49). Un linguaggio per tutti, con un messaggio sconvolgente; una narrazione che parla ai cuori, ma non per appagarli. Il tutto strutturato attorno a tre tornanti decisivi: l’evento, ovvero ciò che irrompe nel tempo; la conversione, cioè il mutamento di rotta; la decisione, quindi l’agire conseguente. Il filosofo francese lo sintetizza così: «lasciare che l’evento si dispieghi, cambiare prospettiva e agire con tutte le proprie forze in accordo con questa nuova visione» (ivi, p. 42).
Sembrerebbe che ci stiamo perdendo in un detour che sa di depistaggio, più che inoltrarci nell’introduzione a questo nuovo numero di Cosmopolis, al cui centro sta un’articolata riflessione sulla figura di Papa Francesco e sul suo servizio alla Chiesa a un anno e mezzo dall’elezione al soglio pontificio; in realtà, le parole di Ricoeur possono orientarci come una bussola alla lettura dei contributi che animano la sezione “Il cognome di Dio è ognuno di noi”. La Chiesa di Papa Francesco. Quattro voci (Padre Giulio Albanese, Luigi Alici, Fabio Zavattaro, Don Dario Viganò) che s‘interrogano sulla novità di Papa Francesco e sulla portata di un magistero contrassegnato dall’impegno del contatto e della tenerezza, raccogliendo la sfida della lettura – quasi in tempo reale – dei mesi che ci separano da quella piazza San Pietro gremita in cui Jorge Mario Bergoglio ha da subito sorpreso l’intera comunità cristiana, prima, e il mondo intero, poi.
Un fenomeno divenuto di colpo globale, capace di innescare, a partire dalla dolcezza dei modi e dell’intelligenza della semplicità, una nuova centralità del papato all’interno di una collegialità di stile: internazionalizzazione della curia (basti guardare la composizione del nuovo Sinodo); centralità del Vaticano nello scenario della diplomazia internazionale (basti ricordare la presa di posizione nell’imminenza del conflitto in Siria e la preghiera per la pace con il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, il presidente dello Stato d’Israele Shimon Peres e il Presidente della Palestina Abu Mazen); appello infaticabile all’amore di Dio e al suo volto misericordioso, che, come scrive Luigi Alici nel pezzo di apertura dedicato alla profezia della misericordia, «non ha nulla a che vedere con una forma indolore di “assistenzialismo compassionevole”», ma richiama quella forma della carità cristiana, che «non è solo retroguardia assistenzialistica, ma anche avanguardia profetica e lungimiranza progettuale» nei confronti delle periferie delle città, della fede, dell’umanità.
Il Papa mette al centro il potere della narrazione che si nutre a piene mani della vita, nella convinzione che la sua normalità sia la porta di accesso alla eccezionalità dell’autentico messaggio cristiano. I gesti e le parole riescono a tenere insieme radicalità e semplicità, e si avvicinano alle fatiche del quotidiano, richiamandosi molto allo stile della parabole di Gesù, proprio così come le presenta Paul Ricoeur: una narrazione che accoglie senza perdere nulla della radicalità del messaggio cristiano e che arriva ai cuori perché non dimentica la vita, pur chiedendone continuamente uno stravolgimento di stile, radici, tensioni; un annuncio che non ingabbia nella freddezza di prescrizioni, bensì si dimostra straordinariamente capace di accompagnare, senza giudicare, proprio come avvenne ai discepoli di Emmaus, i cui occhi si aprirono al cospetto di gesti semplici ma unici, cosicché la durezza di cuore, che un viaggio insieme non aveva sciolto, non divenne occasione di accusa.
Potremmo ricorrere a tre verbi (come spesso piace fare allo stesso pontefice nelle udienze e negli incontri) per descrivere il modo in cui Bergoglio declina la propria missione: testimoniare, raccontare, promettere. Questi verbi segnano la traiettoria di quanto Padre Albanese, nel suo testo scritto pensando alla portata missionaria del messaggio di Papa Francesco, definisce appunto «pensiero missionario [...] inclusivo e non esclusivo, decentrato e non incentrato, proteso ad extra e non ad intra». Testimoniare l’evento di un incontro che si è fatto fede vissuta, raccontare dove vita e fede si sono incontrate e consentono la conversione, promettere che questo incontro è fonte di salvezza e ragione di speranza.
Come scrive Don Dario Viganò, direttore della Tv vaticana e attento osservatore della comunicazione di Bergoglio, «più che le forme dei ragionamenti logico-argomentativi, il Papa preferisce le narrazioni (pensiamo alla necessità che papa Francesco ha di oltrepassare il testo scritto per non perdere il cuore del suo magistero che passa attraverso la spontaneità) dove il confronto, pur non eludendo l’aspetto concettuale, privilegia e predilige il piano dei comportamenti. È un modo per porre a confronto la prassi narrata e la prassi reale che domanda conversione, perché la conoscenza sia incontro di esperienza e svelamento del suo significato». Aprirsi all’inaudito per vederlo sbocciare, come quell’abbraccio di cui parla Fabio Zavattaro (vaticanista della Rai, che firma un testo dedicato allo sguardo che su Papa Francesco puntano le altre religioni monoteiste), «tra il Papa, l’ex segretario generale del Centro islamico argentino Omar Abboud e il rettore del Seminario rabbinico latinoamericano Abraham Skorka. Straordinario un gesto che rientra nella cordialità dei rapporti tra persone che si conoscono da tempo e hanno scambiato pensieri, opinioni, e, forse, anche sogni. Straordinario proprio perché compiuto davanti a uno dei luoghi santi dell’ebraismo, quel Muro Occidentale che a Gerusalemme accoglie, nelle fessure tra le pietre, messaggi e preghiere dei fedeli nella Torah. Ancora, perché è stato l’abbraccio tra appartenenti alle tre religioni monoteiste che hanno in Abramo il padre comune».
Sovrabbondanza e radicalità: le cifre di un messaggio che il soglio pontificio sta affidando al mondo, senza rinnegare il proprio recente passato, senza strizzare l’occhio ad alcuna forma di buonismo, senza alcuna logica di proselitismo; anzi, provando a dimostrare che ci si può incontrare in un vissuto condiviso, e renderlo un racconto comune solo a patto che ciò in cui si crede sia capace di tenere insieme misericordia ed essenzialità, memoria e profezia, contemplazione e azione.


E proprio una narrazione capace di aprirsi all’inaudito costituisce il filo rosso che attraversa anche la seconda sezione di questo numero (Capire i conflitti, praticare la pace. L’esperienza di "Rondine": Serbia e Kosovo), figlia di un’apertura ospitale e di una fedeltà creativa alla vocazione originaria di Cosmopolis. L’apertura ospitale spiega l’intenzione di dare voce a Rondine. Cittadella della Pace, una Onlus che dal 1997 s’impegna per la risoluzione dei conflitti, svolgendo un ruolo attivo nella promozione di una cultura della pace e del dialogo, tramite l’esperienza concreta dello Studentato Internazionale nel borgo di Rondine, a pochi chilometri da Arezzo. Qui, ogni giorno, giovani provenienti da Paesi attualmente in guerra o con situazioni di conflitto, vivono e studiano insieme e, nella quotidianità, imparano a scoprire la persona al di là del “nemico”. I giovani studenti di Rondine arrivano da tutto il mondo: Balcani, Caucaso, Medio Oriente, Subcontinente indiano, Africa sub sahariana. Una volta terminato il corso di laurea o il master e il loro percorso formativo a Rondine, sono pronti per tornare a casa e iniziare a progettare, insieme, un futuro di pace per i loro Paesi.
Con una fedeltà creativa alla vocazione originaria di Cosmopolis possiamo prendere in prestito gli occhi con cui da Rondine si guarda il mondo in guerra per rileggere il lato tragico di una globalizzazione che ancora è macchiata dal sangue di molti conflitti, ma non per questo cede al cospetto di una speranza maggiore: ci è sembrato importante porre attenzione a quei conflitti che purtroppo ancora infiammano il mondo. È una sorta di ulteriore finestra sulla globalità, sulle sue pieghe più buie, ma anche sulla possibilità di scrivere pagine nuove.
In questa cornice s’inseriscono le parole di Milos (serbo) ed Ermira (kosovara), due degli studenti di Rondine, precedute da una scheda introduttiva del conflitto del Kosovo preparata da Bernardo Venturi, direttore dello Studentato di Rondine, che illustra le ragioni della guerra, il contesto geo-politico dei Balcani e la situazione odierna di quelle terre. Le due testimonianze nascono dall’evento di un incontro e danno luogo a una sorta di conversione “laica”, rispetto a una storia “ufficiale” in cui li dovremmo vedere per forza nemici nel presente e nel futuro. Così, invece, hanno potuto ritrovare l’amicizia lì dove sembrava impossibile, fino alla promessa di tornare nelle proprie terre per dire che una diversa convivenza è ancora possibile. Il racconto dell’inevitabile diventa imprevedibile; una prigione culturale e identitaria, attraverso un incontro, dei gesti, delle parole e l’ordinarietà faticosissima del quotidiano, spalanca le porte alla straordinarietà di vedersi cambiati e liberati, per sempre.


Quando vita e parola non si tradiscono, nasce la testimonianza fedele di un evento, si diventa narratori autentici di una conversione e protagonisti di un impegno che diventa promessa credibile per il futuro. Un passaggio decisivo perché il sospetto e la paura vengano vinti dalla fiducia.


Luca Alici

Riferimenti bibliografici

Ricoeur P. (2009), Paul Ricoeur: la logica di Gesù, a cura di E. Bianchi, Qiqajon, Bose.



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