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Editoriale

Ospitiamo, come editoriale, una testimonianza sulla drammatica situazione dell’Iran dopo le recenti elezioni.


L’Iran tra volontà di cambiamento e repressione

Neda è morta con gli occhi aperti,
facendo vergognare noi che
viviamo con gli occhi chiusi


Dopo trent’anni di sofferenza, finalmente, la gente ha dimostrato, con la partecipazione massiccia alle elezioni del 12 giugno 2009, la volontà di cambiamento. I candidati a queste elezioni erano il presidente uscente Mahmud Ahmadinejad, l'altrettanto conservatore Mohsen Rezai e i riformisti Mir-Hossein Mussavi, che fu primo ministro durante la guerra tra Iran e Iraq (1980-1988) e Mehdi Karrubi, ex presidente del parlamento.
Nel 1997, con la vittoria di Khatami, primo presidente riformista della Repubblica Islamica, i giovani nati dopo la rivoluzione e cresciuti con i telefonini, il satellite e internet, sperarono di riuscire ad essere come i loro coetanei occidentali; per loro era molto difficile immaginare la società iraniana prerivoluzionaria, come veniva raccontata dai loro genitori. Durante il primo governo di Khatami, anche se per un periodo molto limitato, i giovani iraniani hanno potuto apprezzare una sia pur limitata libertà di espressione, con la produzione di film, la stampa e la diffusione di libri, l’accesso a internet. Sembrava questo l’inizio di una nuova era, ma la speranza era destinata presto ad infrangersi contro i veti imposti dalla Guida Suprema (Rahbar) Khamenei, culminati con la chiusura di numerosi giornali, l’arresto di molti giornalisti e l’oscuramento di siti internet, il tutto con il pretesto della sicurezza nazionale. Khatami non riuscì a portare avanti il suo programma di riforme, osteggiato dalla Guida Suprema, ma fortemente voluto dal popolo, che il giorno 2 del mese iraniano di khordad (corrispondente al nostro maggio) del 1999 cominciò a manifestare nelle strade. Studenti, donne, intellettuali, operai e anche alcuni religiosi, chiedevano a gran voce il rispetto della sovranità popolare e l’attuazione delle riforme per i diritti civili e la libertà di espressione, dimostrando la ferma volontà della gran parte della popolazione di non tornare indietro. Le elezioni falsate del 2005 videro la contesa fra tre candidati: l’Ayatollah Rafsanjani, l’Ayatollah Karrubi e Mahmud Ahmadinejad; quest’ultimo, pupillo di Khamenei, prevalse al secondo turno su Rafsanjani.
Karrubi, in una lettera inviata a Khamenei, dichiarò che i Pasdaran e i Basij avevano operato illegalmente per assicurare sostegno ad Ahmadinejad; la risposta fu che le sue accuse erano “al di sotto della sua dignità” e che esse avrebbero causato una crisi in Iran. In seguito Karrubi, con una lettera aperta, si dimise da tutte le sue funzioni politiche e venne posto agli arresti domiciliari, per ordine di Khamenei. Nel sistema iraniano di “Velayat-e Faghih”, in cui è riconosciuta l’assoluta supremazia dell’opinione del capo supremo su tutto e tutti, chiunque sia chiamato ad esercitare il potere esecutivo deve sottostare alla sua autorità. Già nella rivoluzione del 1979 furono commessi gravi abusi e violenze nei confronti degli oppositori, ma oggi attraverso la rete (webblog – facebook – you tube – twitter) le immagini vengono diffuse in tempo reale nel mondo e tutti possono vedere le scene drammatiche dei massacri nelle strade e ascoltare le grida dei manifestanti che dicono: “Marg bar Diktator” (morte al dittatore), “Ray-e man kojast” (dov’è il mio voto?) e “Jomhuri-e islami nemikhahim” (non vogliamo la Repubblica Islamica). La rabbia della società iraniana verso i suoi governanti aumenta ogni momento, essi hanno tradito il popolo e l’hanno sfruttato per alimentare le controversie fra le loro fazioni e hanno cercato di mettere l’uno contro l’altro per raggiungere i loro scopi di potere. Durante questi trent’anni moltissimi iraniani si vergognavano a causa dei loro governanti e in un filmato di proteste trasmesso da una tv satellitare in lingua persiana, i ragazzi esprimevano il loro dispiacere per l’immagine data dal paese, perché il popolo iraniano è orgoglioso della sua storia e della sua cultura, attraverso le quali ha sviluppato l’amore per la pace.
Prima delle elezioni il dibattito è stato molto aspro e interessante sotto vari aspetti; tutti i candidati hanno chiaramente percepito la volontà di cambiamento presente nella società, il desiderio di libertà, del diritto di uguaglianza fra uomini e donne e la fine dell’isolamento dal resto del mondo. I confronti televisivi fra i candidati sono stati organizzati secondo le modalità occidentali, con il rispetto della par condicio nei tempi d’intervento. Per la prima volta nel contesto iraniano si è assistito a un dibattito che è andato oltre la sfera politica, sconfinando anche in quella personale, dando voce al malcontento popolare e portando alla luce fatti per anni mormorati dalla gente. Tutto il mondo era fortemente interessato all’esito di queste elezioni e il modo di condurre la campagna elettorale aveva lo scopo di far credere che in Iran ci fosse libertà di espressione. Tale situazione ha illuso il popolo iraniano, specie nelle fasce giovanili, che hanno sostenuto con grande fervore i loro candidati, con manifestazioni caratterizzate da inni, balli e slogan, che invitavano anche tutti gli iraniani al di fuori del paese a unirsi e partecipare al voto. Ahmadinejad, durante i quattro anni del suo governo, ha viaggiato molto, specie nelle zone povere e rurali, a volte aiutando economicamente in modo diretto quelle popolazioni, allo scopo di assicurarsi i loro voti, potendo contare anche sull’appoggio dell’Ayatollah Khamenei. A favore di Moussavi, sostenuto dall’Ayatollah Rafsanjani, era schierato gran parte dell’elettorato urbano, degli intellettuali, delle donne, degli operai, degli studenti, dei docenti e molti ricchi commercianti del bazar. Dopo sette ore dalla chiusura dei seggi, il celebre regista Makhmalbaf, sostenitore e amico personale di Moussavi, diffondeva la notizia della sua vittoria, congratulandosi con il popolo iraniano. Poco dopo Ahmadinejad si proclamava vincitore e Khamenei, nel suo discorso di domenica, affermava che «quello che era il migliore e doveva vincere ha vinto, questo è un risultato divino e tutti devono accettarlo» e che Ahmadinejad aveva ottenuto il 62,63% dei voti, contro il 33,75% di Moussavi. I sospetti di brogli che aleggiavano già prima delle elezioni si rafforzavano con le notizie provenienti da molti seggi, dove era stato impedito ai rappresentanti dei candidati riformisti di controllare lo scrutinio delle schede che, si diceva, in alcuni casi fossero più numerose degli elettori. Immediatamente iniziavano proteste di massa e manifestazioni talmente vaste da cogliere impreparato il regime.
Tutte le manifestazioni si stanno svolgendo pacificamente ma la polizia, i pasdaran, i basij e borghesi hanno alzato il livello della repressione fino ad arrivare a sparare sulla folla, uccidendo senza pietà e arrestando molti esponenti riformisti e studenti. I coraggiosi ragazzi iraniani hanno cercato, attraverso twitter, con i loro telefonini nascosti agli occhi dei pasdaran, di trasmettere a tutto il mondo le cose che stavano accadendo in Iran e sono riusciti a superare i filtri imposti dal regime. In Iran non ci sono più giornalisti stranieri, in questo momento il popolo iraniano ha bisogno della solidarietà attiva di tutto il mondo e non deve essere lasciato solo. La mobilitazione sulla rete diventa sempre più ampia, ma da sola non sarà sufficiente a destabilizzare il regime; sarà decisiva la pressione esercitata dagli ambienti della cultura e della politica internazionale. Dobbiamo far sentire la nostra voce attraverso qualsiasi mezzo e i governanti dei paesi occidentali devono smettere di appoggiare questo regime per ragioni di “realpolitik”, affinché la protesta non perda la sua forza, perché questo provocherebbe il rafforzamento dell’attuale governo.

Elahe Zomorodi




IN QUESTO NUMERO

Il primo numero del 2009 di Cosmopolis si apre con una sezione dedicata al tema della giustizia. L'intervento di Roberto Scarpinato sottolinea la posizione del tutto anomala che il nostro paese occupa, rispetto ad altri paesi europei, in merito al rapporto fra storia nazionale e questione criminale. Se, infatti, ci accingiamo a ripercorrere la storia italiana per comprenderla adeguatamente, non possiamo di certo prescindere da un'analisi della criminalità del potere resasi estrinseca principalmente lungo i versanti dello stragismo, della corruzione sistemica e della mafia. Il problema dell'educazione alla cittadinanza è al centro del contributo di Maurizio Viroli. In esso si sottolinea l'imprescindibile concorso di ragione e passioni nella formazione del cittadino nella convinzione che un esercizio consapevole della cittadinanza richieda anche lo sviluppo di alcune passioni (quali l'amore per la libertà, la capacità di sdegnarsi, il senso dell'onore) che, lungi dal configurarsi quali ostacoli all'esercizio della razionalità, possono costituire, al contrario, quei moventi fondamentali in grado ricondurre la ragione strumentale sotto la guida della ragione morale. Luigi Alici riflette sulla tensione rinvenibile, nel messaggio cristiano, fra carità e giustizia sottolineando come solo il mantenimento di questo fragile equilibrio possa evitare di scivolare o in un ripiegamento intimistico o, dall'altro lato, in un «attivismo intransigente in favore di una fraternità fondata solo sulla giustizia sociale». Mauro Volpi affronta il tema della tutela dell'autonomia e dell'indipendenza della Magistratura e, riflettendo sugli organi preposti a tale compito nel quadro dei paesi membri dell'Unione europea, si sofferma sulla loro struttura e sulle competenze ad essi attribuite, al fine di metterne in luce affinità e tratti distintivi. L'analisi comparativa condotta da Patrizia Pederzoli sui sistemi di giustizia dei paesi europei tiene costantemente sullo sfondo le questioni problematiche che emergono da un'analisi della recente situazione italiana. A quest'ultima è dedicata la riflessione di Renato Balduzzi e Giorgio Grasso: gli autori si concentrano sui più recenti provvedimenti normativi in materia di giustizia e individuano, analizzandoli, i quattro ambiti fondamentali oggetto di provvedimenti di riforma costituiti, rispettivamente, dalla riforma del processo civile, del processo penale, delle intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali e dell'ordinamento giudiziario. L'intervento di Luca Angelini affronta il tema della responsabilità sociale dell'impresa. La RSI occupa uno spazio collocabile oltre la cornice – se pur fondamentale – del rispetto degli obblighi cui ciascuna azienda è chiamata a conformarsi e, per questo, richiede il trascendimento della mera ottica del profitto e una rinnovata attenzione per il ruolo che l'azienda può svolgere in relazione al territorio nel quale opera o alle conseguenze delle proprie politiche in termini di impatto sociale.
Nella seconda sezione è ospitata una riflessione a più voci sulla “musica contemporanea”. I contributi raccolti, pur muovendo da differenti prospettive, convergono sostanzialmente intorno all'esigenza di rimeditare problematicamente la stessa categoria interpretativa di “musica contemporanea”. Se per Alessandro Melchiorre il concetto di musica “contemporanea” non sta ad indicare un genere che, in un certo momento storico, ha inteso segnare la propria rottura con la tradizione, quanto piuttosto la ricerca di un difficile ma necessario equilibrio fra un sistema di regole e la capacità di sospenderle transitoriamente, per Mario Garuti, “contemporaneo” è ciò che dovrebbe qualificarsi per un'attenzione rivolta al proprio tempo; questo sguardo sul tempo presente però, per non divenire sterile ed opaco, deve anche evitare ogni rischio di piena identificazione con esso e mantenere una certa distanza critica. Dopo aver sottolineato con forza l'ostinato misconoscimento – visibile nel nostro paese – del potenziale formativo di cui la musica può farsi latrice ai fini di un integrale sviluppo della personalità, Alessandro Solbiati interpreta la musica “contemporanea” non come genere a sé stante, quanto piuttosto in una linea di sviluppo rispetto alla tradizione musicale dell'Occidente. Per Lorenzo Ferrero l'espressione “musica contemporanea” può risultare ambigua e fuorviante se con essa si intende significare l'introduzione di una completa frattura rispetto alla tradizione classica occidentale; il riconoscimento di una pluralità di generi, di voci e di stili musicali infatti non indica necessariamente un irrimediabile abbandono del patrimonio musicale pregresso. Giovanni Sollima, nel dialogo con Guido Alici, suggerisce il concetto di “musica presente” che, rifuggendo da troppo facili etichettature e identificazioni, intende dar conto del mutamento, dell'evoluzione e della sperimentazione che la attraversano senza per questo trascurare un ritorno al “suono puro”. É sul momento esecutivo e sull'importanza dell'interpretazione che insiste Stefano Bollani sottolineando il dialogo costante che si instaura fra le “gabbie” proprie della scrittura musicale, ovvero le strutture che la sorreggono e compongono, e quella tendenza ad una evasione da esse, se pur parziale, di cui si nutre l'improvvisazione.
È l'ampia intervista a Seyla Benhabib ad aprire la sezione dedicata ad una riflessione sui temi legati al multiculturalismo; l'autrice, confrontandosi con le principali posizioni emerse all'interno di tale dibattito, chiarisce prospettive e implicazioni di quello che definisce «universalismo interattivo». Di fronte alle difficoltà incontrate dalle soluzioni elaborate fino ad oggi dalla tradizione occidentale nel tentativo di far fronte ai conflitti di valori che attraversano le società contemporanee, Giacomo Marramao suggerisce un radicale ripensamento della coppia categoriale identità-differenza in grado di superarne la polarità. Il contributo di Barbara Henry, muovendo dalla consapevolezza delle contaminazioni fra universi simbolici di differenti culture, assume come elemento di riflessione significativo uno dei simboli dell'identità ebraica, il Golem, e, analizzando alcune fra le principali trasposizioni successive, getta luce sulla complessità dei fattori che concorrono a costituire la nostra memoria simbolica. Al rapporto fra multiculturalismo e identità di genere è dedicato l'intervento di Anna Loretoni che, con riferimento alle posizioni di Susan Moller Okin, intende mettere in discussione, attraverso un significativo riesame del concetto di cultura, l'ipotesi di una convergenza di intenti fra multiculturalismo e questioni di genere, troppo spesso assunta come presupposto scontato. Antonio De Simone analizza il rapporto fra singolarità e universalismo all'interno delle società contemporanee a partire da una concezione dialogica e intersoggettiva dell'identità che trova nella problematica del riconoscimento uno dei suoi snodi cruciali. Riflettendo sul concetto di de-spazializzazione come esito dei processi di globalizzazione, Alberto Pirni mette in luce le esigenze di ri-definizione teorica che tale fenomeno impone anche in relazione alla categoria di “multiculturalismo”. Distinguendo fra un livello di coesistenza e un livello di convivenza, così come fra spazi e luoghi, il contributo individua nei «non-luoghi dell'interculturalità» i possibili «semi di una rinnovata socialità interculturale».
Numerosi gli interventi raccolti nella sezione “Fra le righe”: se Rodrigo Rodríguez Borges analizza gli effetti dell'immigrazione nel contesto spagnolo, con particolare riferimento alla situazione delle isole Canarie, l'ampia intervista a Han Shaogong curata da Rosa Lombardi riflette sulla letteratura cinese contemporanea soffermandosi diffusamente sui rapporti fra Oriente e cultura occidentale. Il contributo di Flavio Cuniberto ripercorre il ricchissimo epistolario di Isahia Berlin, mentre l'intervista a Roberto Oreficini Rosi riflette sul ruolo e sulle competenze della Protezione civile in materia di prevenzione, previsione e gestione del rischio. È il conflitto israelo-palestinese infine ad essere al centro della tavola rotonda realizzata da Roberto Vicaretti nella quale intervengono Maso Notarianni, Ugo Tramballi e Iman Sabbah: il dialogo a più voci si sofferma sulle possibili prospettive di pace cercando di definire, da un lato, il ruolo che può svolgere l'Unione europea e, dall'altro, la centralità del mondo dell'informazione dal quale dipende la capacità di offrire adeguata rappresentazione della realtà del conflitto oltre i confini in cui esso ha luogo.

Brenda Biagiotti
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