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Editoriale


Perché “Cosmopolis”


Come ogni processo storico, anche quello che oggi definiamo “globalizzazione” è contraddistinto da un’intrinseca complessità e non si lascia interpretare secondo una chiave di lettura unilaterale. L’ambivalenza principale che lo definisce -e che definisce anche il problema saliente che esso pone a quanti intendano interrogarsi sul complesso delinearsi del “villaggio globale”- è costituita dalla tensione che esiste tra le potenzialità di espansione della democrazia in direzione di un autentico cosmopolitismo, da un lato, e, dall’altro, il permanere di una configurazione dei rapporti economici a livello nazionale e sovranazionale ancora segnati dalla logica di un mercato capitalistico che piega la politica ai suoi interessi. Insomma, ci troviamo in corrispondenza di un cruciale tornante storico, segnato dal fatto che diventa sempre più drammaticamente evidente la difficile -o meglio sarebbe forse dire impossibile- compatibilità tra le basi economiche della democrazia (appunto il capitalismo avviato, così come oggi lo conosciamo, a diventare modo di produzione planetario) e i principi politici di essa. In ambito nazionale lo stallo delle politiche welfariste è stato ed è un segnale emblematico, pur se non certo l’unico, di tale situazione, così come lo è, a livello internazionale (anche il caso dell’Europa insegna), la difficoltà di rendere operante un governo politico dei processi economico-finanziari che traduca l’imperativo dello sviluppo giusto e solidale in prassi concreta e che eviti così l’affermazione senza residui della logica del mercato come principio-guida della convivenza su scala planetaria.
Ma non c’è solo questo, se è vero che, entro la tensione appena ricordata, si delineano altre tendenze, ogni giorno sotto gli occhi di tutti. Forse la più evidente, e anche particolarmente insidiosa, è quella che piega le variegate realtà nazionali, culturali, spirituali, religiose coinvolte nelle dinamiche della globalizzazione verso un modello unico di organizzazione della vita individuale e collettiva, insomma verso un modello unico di “civiltà”, che è appunto quello capitalistico occidentale dominante entro queste dinamiche. Ciò mette a rischio una delle potenzialità più importanti che la globalizzazione potrebbe esprimere, cioè una fusione degli orizzonti tra le varie culture in cui dall’incontro e dal dialogo potrebbe generarsi, in un panorama inevitabilmente e fortunatamente pluralistico, l’arricchimento reciproco di ognuna di esse. Ciò invita a riflettere sul fatto che la questione saliente in questa fase di transizione non è il tante volte evocato “conflitto di civiltà” e la paventata minaccia ai valori della civiltà occidentale, quanto piuttosto la singolare circostanza per cui quest’ultima, nel tempo della sua più profonda crisi interna, tende ad esportare e ad imporre proprio il precipitato di tale crisi, vale a dire il suo disincantato edonismo, il suo cinico materialismo, il suo indifferentismo morale, la logica del dominio e del conflitto che la pervade.
Diviene quindi inevitabile riflettere su un altro dato, che deriva da quanto appena affermato: pensare la globalizzazione oggi significa cercare di andare alle radici di questa crisi, cioè produrre un confronto non apologetico sul se e sul come l’Occidente possa giocare, tenendo conto della prospettiva così sinteticamente stilizzata, un ruolo positivo verso l’emancipazione umana nell’orizzonte di una civiltà cosmopolitica tutta da costruire. Qualora si guardino le cose da questa angolatura, la globalizzazione potrebbe e dovrebbe essere occasione non per l’apologia ma per l’autocritica dell’Occidente. E questa autocritica, per non concludersi in mero plaidoyer o in moralistica autoflagellazione, deve essere in grado di recuperare le radici dell’ethos che ha innervato da sempre la civiltà occidentale in ciò che ha espresso di potenzialmente universale, cioè l’umanesimo. “Umanesimo” è qui da intendere secondo due significati salienti e non separabili, l’uno formale e l’altro sostanziale: l’assunzione della ragione come medium universale possibile dell’intesa tra le differenze e l’affermazione della dignità della persona considerata sempre quale fine, mai quale mezzo.
Il fatto è che tale tradizione di civiltà può essere riguadagnata solo a certe condizioni: innanzitutto prendendo atto, come si diceva, del processo di erosione interna che l’ha progressivamente segnata e che è culminata nell’egemonia della “ragione cinica”; in secondo luogo, ripensandone i contenuti in un dialogo senza pregiudiziali con le altre tradizioni e in uno spirito di tolleranza reciproca; infine, lasciando cadere ogni presunzione aprioristica di superiorità di una forma di civiltà rispetto ad altre. Il test di superiorità può essere dato -almeno questo è l’ideale regolativo che ci si dovrebbe proporre- esclusivamente dalla capacità di argomentare la preferibilità di una o dell’altra posizione nel confronto mirante a un’intesa che non è mai definitiva ma sempre aperta e rivedibile. È sin troppo facile esibire le armi del realismo contro questa prospettiva affermando che essa -in un mondo così profondamente lacerato da conflitti, da guerre, da contrasti razziali, religiosi, etnici- è utopistica. La risposta potrebbe però essere che proprio nell’aver considerato e nel continuare e considerare tale ideale irrealizzabile, insomma nell’aver dimesso la fiducia nel potenziale critico della ragione, sta la radice -o una (e non certo la meno profonda)- delle radici su cui prosperano i contrasti laceranti di cui siamo testimoni. E si potrebbe aggiungere che in questa ostentazione di realismo sta la mossa autonegatrice di molti che oggi si presentano come paladini dell’Occidente; infatti i principi sopra richiamati sono parte costitutiva dell’identità di quest’ultimo. Inserito in questo quadro, il realismo politico si può considerare, nelle forme che attualmente assume, l’ideologia di una civiltà che pretende di sopravvivere alla sua crisi non accettando di ridiscutersi, ma fondando le proprie pretese, per dirlo con un ossimoro, sulle ragioni della forza. Fino a che punto queste ragioni siano deboli è stato dimostrato in maniera emblematica, per rimanere all’attualità, dal fallimento della risposta bellica al terrorismo, risposta che, lungi dall’eliminarlo, ha rafforzato e ha contribuito ad espandere questo tragico fenomeno, le cui origini sono certo interne alla cultura del fondamentalismo islamico (che peraltro non esaurisce certo la realtà spirituale dell’Islam), ma rinviano anche agli squilibri economici e sociali mai risolti di vaste zone del mondo. E dalla responsabilità di tali squilibri l’Occidente non può certo considerarsi esente. È un altro motivo a sostegno dell’auspicabilità di un’autocritica che punti, in questo caso, a ripensare gli orientamenti della politica occidentale nei confronti dei paesi poveri e deboli del mondo.
Quanto sin qui detto dà ragione, sul piano generale, del perché di “Cosmopolis”. Quanto al come, la sua decifrazione è affidata alla lettura della rivista, nelle sue varie sezioni e nei suoi contenuti. Proprio nella consapevolezza che la globalizzazione non coinvolge solo gli aspetti sociali, politici ed economici, ma implica la messa in questione di tradizioni e identità culturali a rischio attualmente di omologazione, si è pensato di dedicare una parte specifica a questo aspetto nelle sue varie sfaccettature possibili. Ciò giustifica gli articoli che di volta in volta saranno dedicati alle più diverse espressioni della cultura dei differenti popoli e nazioni: dalla letteratura alle arti visive ai nuovi mezzi di creazione e di comunicazione del pensiero. Il tentativo di tenere insieme, in una riflessione continuata nel tempo, le varie dimensioni della globalizzazione è una delle caratteristiche di “Cosmopolis”.
D’altra parte ogni sguardo prospettico ha le sua radici: infatti bisogna pur sempre partire da un luogo per esplorare quanto si offre allo sguardo. Nessuno abita in nessun luogo. E, appunto, questo luogo da cui si muove determina anche una prospettiva. Il nostro paese, i suoi problemi attuali, la sua storia, la sua posizione nei processi della globalizzazione, sono per noi questo luogo. E la parte monografica del primo numero è dedicata alla parte più profonda delle radici del nostro convivere, cioè la costituzione. Si è preso avvio dalle proposte di riforma costituzionale per discuterle e per ragionare sui pro e sui contro di esse, non con un metodo di pregiudiziale censura nei confronti di eventuali e forse necessarie revisioni costituzionali, ma evidenziando i rischi di mutamenti che stravolgano i principi fondamentali e lo spirito della costituzione, bene da difendere per ripartire in vista della ritessitura di un’etica pubblica condivisa in un paese così lacerato com’è oggi il nostro.


R.G.


IN QUESTO NUMERO

Apre il primo numero la riflessione di Leopoldo Elia sul referendum che fa luce sulla necessità di un largo consenso riguardo a qualsiasi modifica costituzionale. L'obbiettivo del contributo di Tania Groppi è poi quello di sintetizzare i caratteri essenziali dei diversi modelli politici nei quali il concetto non univoco di “federalismo” si è concretizzato. Beniamino Lapadula, Giuseppe Tognon e Renato Balduzzi si concentrano invece sugli effetti della devolution nei vari settori della vita pubblica del Paese.
Lo sguardo di “Cosmopolis” si apre sugli scenari della globalizzazione grazie alla seconda sezione, che focalizza l'attenzione sui quesiti posti dalla difficile condizione dei paesi più poveri (attraverso le considerazioni di Alberto Castagnola), e, più specificamente, dalla situazione dell'Africa, trattata da Serge Latouche. La gestione dei processi di globalizzazione è una delle necessità alla base delle proposte di riforma dell'ONU, illustrate da Daniele Archibugi e Raffaele Marchetti. Il tentativo di coordinare le esigenze di attori internazionali così diversi richiede anche strumenti giuridici e in primo luogo lo sviluppo delle risorse del diritto internazionale, le cui vicissitudini nel corso della storia sono richiamate da Attila Tanzi. Infine Gianluca Carmosino espone le strategie per la realizzazione di rapporti internazionali più equi che i movimenti cosiddetti “no o new-global” propongono e mettono concretamente  in atto a partire dalle realtà locali di tutto il mondo.
Nella sezione “Americhe” confluiscono contributi dedicati all'analisi dei diversi “volti” del continente americano. La complessa storia della discriminazione razziale negli Stati Uniti viene qui ricapitolata da Aaron Thomas, che sottolinea come il disconoscimento e il disprezzo nei confronti degli appartenenti alle comunità afro-americane costituiscano ancora oggi un ostacolo enorme all'inclusione di una larga parte della popolazione nei processi democratici del suo Paese. Quanto alla situazione politica degli Stati dell'America del Sud, Patricia Mayorga evidenzia le sfide che la nuova presidente Michelle Bachelet dovrà affrontare in Cile, mentre Gina de Azevedo Marques individua le divergenze all'interno dell'opinione pubblica brasiliana, chiamata ormai a compiere un bilancio dell'operato del Governo Lula. Chiude questa sezione il dialogo tra Edoardo Bruno e Daniele Dottorini, relativo alle modalità delle quali l'industria cinematografica americana si serve per dare forma, mediante le immagini, a un nemico sfuggente e difficilmente identificabile.
Alle questioni identitarie, centrali nell'impostazione di “Cosmopolis”, è dedicata la quarta parte di questo numero. Con il suo contributo Giuliano Amato sostiene la necessità di riflettere sui valori in grado di dare forma a un'etica pubblica europea, al di là degli accordi politici puramente procedurali. Di identità sociale e politica dell'Unione Europea si occupa anche Domenico Jervolino, che pone l'accento sul ruolo del nostro continente nella mediazione e nella paziente negoziazione dei conflitti internazionali. Rosanna Camerlingo, con il suo contributo, sposta l'attenzione sull'identità occidentale, vista però attraverso gli occhi di quelle culture che occidentali non sono. Maria Chiara Pievatolo analizza, invece, le implicazioni della comunicazione in Rete sul paradigma stesso di identità, in relazione al quale Alberto Pirni traccia alcune considerazioni filosofiche di fondo. Infine, Andrea Fioravanti si sofferma sui procedimenti di costruzione e de-costruzione dell'identità nel cinema di David Lynch.
Il numero propone, infine, uno spazio dedicato alle manifestazioni dell'arte nel mondo globale. Nuri Kaya spiega in quale modo la recente mostra sull'opera di Picasso a Istanbul assuma una rilevanza allo stesso tempo politica e culturale, in relazione al processo di integrazione della Turchia nell'Unione Europea. Stefano Ragni e Guido Alici si occupano invece del complesso rapporto tra la figura del musicista e il contesto sociale nel quale egli si trova a dare voce alla sua arte, attraverso le vicende di Liszt e di Shostakovich. Il percorso del primo numero di “Cosmopolis” ritorna infine all'ineliminabile punto di partenza: la storia e la società del nostro Paese, sul cui sfondo si collocano le opere di Carlo Lizzani e Vittorio De Sica. Al loro contributo all'identità italiana sono dedicati gli interventi di Gualtiero De Santi e Manuel De Sica.

Sara Mollicchi
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