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Il difficile rapporto tra la Chiesa
e la sfera pubblica democratica

Vincenzo Sorrentino

La laicità non va concepita, a mio parere, come una sorta di fortezza eretta per difendere la sfera pubblica dalle intromissioni dei soggetti religiosi e dei valori etici (di radice religiosa e non), ma come un ēthos, un atteggiamento caratterizzato dalla disponibilità al confronto, dalla tolleranza e dallo spirito critico. Il carattere non confessionale dello Stato, e la connessa separazione tra Stato e Chiesa, non implicano, ad esempio, che un vescovo non possa legittimamente intervenire nel dibattito pubblico, e cercare di orientare le scelte politiche dei cittadini, su temi che investono principi fondamentali della dottrina cattolica. In merito poi al rapporto tra etica e politica, va considerato il fatto quest’ultima è continuamente chiamata ad affrontare questioni in cui ci si trova di fronte a diverse opzioni tutte connotate eticamente. Penso, in particolare, a casi come quello dell’aborto, degli interventi bio-tecnologici sull’embrione o della fecondazione assistita. Lasciare al singolo la libertà di compiere delle scelte che hanno conseguenze su “terzi”, ad esempio il feto, sottende già una scelta di campo a favore dell’autonomia del singolo adulto. Ma tale opzione non presuppone forse l’assunzione di una specifica antropologia filosofica –che vede l’uomo quale individuo autonomo– e della suddetta libertà quale bene da salvaguardare, valore etico cui attribuire un primato? La mia impressione è che, in questa come in molte altre situazioni, non si trovino di fronte una prospettiva connotata eticamente e una laica neutrale, bensì due diverse opzioni di tipo etico.
Assumere la laicità come un ēthos implica che ci si interroghi non solo sulla natura dei temi che diventano oggetto del dibattito pubblico, ma anche sull’atteggiamento dei soggetti che vi partecipano. La posizione dei firmatari della lettera che ha chiesto che il Papa non si recasse alla Sapienza esprime un dogmatismo che va criticato e combattuto. Tuttavia credo che si tratti di una posizione oggi minoritaria; al contrario, l’atteggiamento largamente maggioritario vede non solo una sostanziale accettazione della presenza pubblica della Chiesa, ma spesso una strumentale condiscendenza nei suoi confronti. Ciò che quest’ultimo tipo di condotta condivide con il primo mi sembra che sia la mancanza di coraggio, il timore di avviare un confronto aperto e critico che possa intaccare certezze ideologiche e interessi consolidati. Nell’ambito di un confronto di questa natura penso che andrebbe posto anche il problema, sul quale vorrei proporre qualche considerazione, del rapporto tra le gerarchie vaticane –che ovviamente non vanno identificate con la Chiesa quale “popolo” dei fedeli nel suo complesso– e la sfera pubblica democratica nel nostro paese.
La laicità non significa affatto che la religione, e i suoi rappresentanti istituzionali, vadano esclusi dalla sfera pubblica; ma questo implica, è importante ribadirlo, che le parti in campo accettino, o meglio abbiano il coraggio di prestarsi ad un confronto critico. Ciò deve valere anche per la Chiesa, dal momento che le si riconosce la piena legittimità quale attore all’interno di una sfera pubblica laica e democratica. Il dialogo non è una pratica disincarnata: va considerato non solo cosa viene detto, ma anche chi parla, e dunque lo stile di vita correlato alle proprie posizioni, alle opinioni o verità enunciate. Lo stile di vita ci dice qual è il tipo di rapporto che il soggetto intrattiene con ciò che afferma. L’apertura al dialogo, preliminare ad ogni specifica posizione al suo interno, è essa stessa un ēthos, un atteggiamento contraddistinto dalla tolleranza e dalla disponibilità al confronto; disponibilità che ovviamente non esclude che si dia una competizione, anche serrata, per far prevalere i propri argomenti. La condivisione di questo ēthos credo che costituisca una premessa indispensabile per la partecipazione ad una sfera pubblica democratica segnata dalla compresenza di soggetti che hanno orientamenti politici ed etici differenti.
L’autonomia di Stato e Chiesa non comporta, dunque, un’autoreferenzialità delle due sfere che autorizzi a relegare la religione all’interno della sfera privata. Il riconoscimento della piena legittimità della costituzione della Chiesa come soggetto che agisce all’interno della sfera pubblica implica, però, che diventa lecito che siano discussi pubblicamente anche gli atteggiamenti della Chiesa, non solo verso l’esterno, ma anche al suo interno. Il venir meno della rigida separazione tra pubblico e privato, e dunque dell’autoreferenzialità di Stato e Chiesa, non può avere conseguenze solo sulla sfera pubblica, le cui porte vanno aperte anche all’iniziativa della Chiesa. In altri termini penso che sia lecito chiedere conto alla Chiesa, così come agli altri attori che partecipano alla discussione pubblica, del suo ēthos come soggetto tollerante e aperto al dialogo. Il modo di agire delle gerarchie vaticane all’interno della Chiesa, così come verso il “mondo esterno”, è autenticamente contraddistinto dalla tolleranza, dall’apertura al confronto, dalla disponibilità al dialogo?
Le voci di dissenso ridotte al silenzio ed emarginate sono forse un problema tutto interno alla Chiesa, in relazione al quale non è lecita alcuna ingerenza dall’esterno? Non credo: nel momento in cui la Chiesa viene riconosciuta come un interlocutore nel dibattito pubblico, tali questioni cessano di essere meramente “interne”, poiché costituiscono una cartina di tornasole del suo ēthos. Diventa, dunque, necessario interrogarsi sul significato e sulle implicazioni della permanenza –e, per certi versi, del consolidamento– di una struttura gerarchica e autoritaria all’interno della Chiesa.
Anche per quanto riguarda il modo in cui le gerarchie vaticane si pongono nei confronti della sfera pubblica sarebbe opportuna una riflessione critica. Mi sembra che a molti, all’interno della Chiesa, non interessi affatto un dialogo autentico, e che il vero obiettivo sia quello di determinare le scelte politiche e gli orientamenti culturali, assumendo un atteggiamento piuttosto disinvolto nei confronti dei mezzi da adottare. Ad esempio, è preoccupante che all’azione di lobbismo si sia affiancata la partitica partecipazione al gioco politico: si pensi allo scomposto, e piuttosto goffo, intervento del direttore di Avvenire, Dino Boffo, sulla vicenda dell’alleanza, poi sfumata, tra l’Udc e Berlusconi. Inoltre, ho l’impressione che l’azione culturale della Chiesa venga spesso concepita nei termini di quell’“egemonia” che a lungo è stata rimproverata alla cultura di matrice comunista. Ciò che dovrebbe “scandalizzare” non è il tentativo di tradurre pubblicamente i principi cristiani, perché tale tentativo è politicamente e culturalmente legittimo. Sono piuttosto le modalità con cui la Chiesa sceglie spesso di intervenire a costituire un problema. Penso, in particolare, a tre atteggiamenti: il lobbismo, la riduzione “utilitaristica” dei principi e dei valori cristiani e, infine, la loro declinazione in chiave “identitaria”. Una cosa è cercare di far prevalere le proprie posizioni sulla scena pubblica attraverso l’argomentazione e la testimonianza, un’altra è l’attività di lobbismo con la quale, tramite delle mere operazioni di contrattazione politica (spesso occulta), ottenere dei privilegi o l’approvazione di norme gradite. A questa attività si accompagna sempre di più il tentativo di trasformare il cristianesimo in una religione civile, l’insistenza sulla sua utilità sociale e politica; infine, si cerca di legittimare la valenza pubblica di principi cristiani facendo leva sulla matrice cristiana della nostra identità culturale. In questo modo, sulla scena pubblica il cristianesimo appare sempre di più ridotto a struttura di potere, fattore di coesione sociale e principio identitario.
Un ulteriore aspetto critico è dato dalla tendenza, per certi versi crescente in questi ultimi anni, a far calare il peso della Verità su molti temi che rientrano nell’ambito dell’opinabile e dalla connessa pretesa di affrontare situazioni complesse, come quelle legate alla maternità o alla vita affettiva, facendo ricorso a dei principi dedotti, attraverso un procedimento che ricorda la “coerenza” delle ideologie, da assunti dogmatici. Ne risulta un atteggiamento astratto e intollerante, che appare cieco di fronte alle esistenze concrete e che consuma ogni margine di confronto ragionevole con chi non condivide gli orientamenti delle gerarchie vaticane. Questo fa pensare che all’interno di queste ultime alcuni, se fossero in grado di farlo, imporrebbero in modo autoritario, anche all’esterno oltre che all’interno della Chiesa, la propria Verità. D’altra parte ciò è accaduto, non di rado, in un passato dal quale sembra che non tutti abbiano autenticamente preso le distanze. Si tratta di un atteggiamento che, a mio avviso, è pericoloso e che va combattuto con fermezza, proprio per difendere i principi e le regole di quella sfera pubblica laica e democratica che non pochi, all’interno della Chiesa, mostrano di subire piuttosto che di condividere.
Quanto detto è connesso, infine, alla questione che mi colpisce maggiormente. Siamo in presenza di gerarchie che concepiscono la verità cristiana come una spada da brandire piuttosto che come un mistero carico di paradossi, di terribili labirinti per la ragione; un mistero la cui proclamazione, mi pare, richiederebbe più umiltà e silenziosa testimonianza esistenziale e meno lezioni dottrinali. L’esperienza quotidiana e diffusa della sofferenza degli innocenti non mina forse alla radice ogni discorso conciliante sui rapporti tra fede e ragione? Credo che se considerassero o, forse, se sentissero maggiormente i laceranti paradossi della fede cristiana e la tragica problematicità dell’esistenza, le gerarchie vaticane si concentrerebbero meno sul problema della difesa della vita, concepita spesso in maniera astratta, e di più su quello del senso della vita, assumerebbero un atteggiamento meno cattedratico e maggiormente capace di ascolto, si mostrerebbero più propense a condividere gli interrogativi e le sofferenze di chi vive esposto agli eventi, non protetto da certezze dogmatiche e garanzie politiche o economiche: sarebbero, cioè, più aperte al dialogo e tolleranti.


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