Antonio Giolitti nacque a Roma il 12 febbraio 1915, primo figlio di Giuseppe, magistrato e figlio di Giovanni, più volte ministro e presidente del Consiglio, e di Maria Tami, figlia del senatore Antonio Tami, già presidente della Corte dei Conti e Senatore del Regno (cfr. Craveri 2015). L’ambiente casalingo in cui visse la sua giovinezza fu quello di una delle famiglie più in vista del Regno; la figura del nonno sarebbe stata un punto di riferimento importante per Antonio (cfr. Giolitti 1992, p. 7). Cresciuto tra Roma e la residenza estiva di famiglia di Cavour, l’educazione del giovane Giolitti si basò su una pratica rigorosa e austera tipica di un’origine familiare, rappresentata in maniera emblematica dallo statista Giovanni, ispirata ai valori risorgimentali che dal Piemonte si erano trasferiti nella capitale del Regno. L’istruzione ricevuta durante gli anni della formazione scolastica e liceale non sembrò affascinare particolarmente il giovane Antonio, il quale non ritenne di aver maturato un debito di particolare riconoscenza verso i suoi docenti della giovinezza, se non quello direttamente legato allo studio obbligatorio. Sentimenti simili egli provò anche in ambito universitario durante gli anni romani, a differenza di quanto sarebbe avvenuto per il gruppo torinese dell’Einaudi con Augusto Monti al liceo o lo stesso Bobbio all’Università. In sostanza, Giolitti riteneva di aver conosciuto dei grandissimi studiosi nel campo della Filosofia del Diritto, come egli stesso avrebbe ricordato anche ad Arturo Carlo Jemolo, che non avevano avuto però la capacità di approfondire temi legati alla politica e all’etica che invece il giovane Giolitti voleva affrontare. Ciononostante, la sua vita trascorse serena, tra lo studio (si laureò 1937 in diritto civile, relatore Filippo Vassalli, con una tesi “Sulla revoca della rinuncia all’eredità”), e le vacanze in montagna e al mare, in particolare a Castiglioncello dove conobbe Elena d’Amico, sposata nel 1939 e da cui ebbe tre figli Anna, Stefano e Rosa. Tramite la sorella della moglie, Filomena, conobbe inoltre Giaime Pintor (cfr. Calabri 2007, pp. 172-173), legame che diventò più solido quando entrambi entrarono in contatto col mondo della casa editrice Einaudi. La sua formazione culturale, nel frattempo, si strutturò sulla base delle letture coltivate tramite la biblioteca del nonno e dalle frequentazioni con amici come Paolo Milano, il quale lo avrebbe introdotto al marxismo anche se attraverso la mediazione liberalsocialista. Nel 1939 si trasferì di nuovo in Piemonte per lavorare nella fabbrica di lime dello zio Federico Giolitti, chimico e ammiratore del nazismo, con cui i rapporti non furono facili, tanto che nel 1940 egli tornava con la famiglia a Roma.
Di quell’intermezzo torinese si devono però ricordare le amicizie strette con Ludovico Geymonat, Giulio Einaudi, Norberto Bobbio e Cesare Pavese. Furono quelli i frangenti in cui Giolitti si avvicinò definitivamente al comunismo non solo sulla base delle sue riflessioni ideologiche-culturali, ma anche sulla base della consapevolezza che solo i comunisti agivano nel concreto contro il fascismo attraverso la lotta clandestina. Nel 1941 a Roma avvenne l’incontro col gruppo dei giovani intellettuali destinato poi a essere la fucina del PCI negli anni di Togliatti e anche in seguito. Tra i nomi si possono ricordare quelli di Paolo Bufalini, Antonello Trombadori, Mario Alicata e Pietro Ingrao. Nell’ottobre 1941 venne arrestato per attività antifascista, insieme al fratello Giovanni e, tra gli altri, a Paolo Bufalini. I giovani arrestati restarono in carcere fino al 28 febbraio del 1942, quando vennero scarcerati per insufficienza di prove e assegnati al confino su diretta richiesta di Mussolini. Impiegatosi part-time presso il Ministero dell’Educazione nazionale, dove condivise la stanza con Vasco Pratolini, non abbandonò i suoi interessi per la filosofia del diritto traducendo per Einaudi. La caduta del fascismo il 25 luglio e l’armistizio dell’8 settembre in particolare, vissuto a Cavour, segnano la svolta per la sua successiva partecipazione alla Resistenza. Il significato dell’impegno nella lotta partigiana aveva infatti un carattere di rigenerazione anche sul piano generazionale che si era esplicitato dopo l’8 settembre. Da Cavour, dove costituisce con personalità come Pompeo Colajanni una brigata partigiana di cui egli diventerà commissario politico per il PCI, viene poi trasferito nelle valli di Lanzo presso la II divisione Garibaldi nel maggio del 1944 (cfr. Salvati 2012, pp. 25-29). Nel mese di settembre di quell’anno subisce un grave incidente automobilistico, in cui riporta una brutta frattura a una gamba; trasportato in Francia e ricoverato all’ospedale di Aix-les-Bains, passa in quel sanatorio una lunga convalescenza sino alla fine del conflitto e soltanto nel giugno del 1945 può riabbracciare la famiglia a Roma.
Nella Capitale, dove riprende a far politica nelle file comuniste, viene notato da Togliatti, che lo tiene in grande considerazione per la sua preparazione e per il suo percorso familiare. Candidato all’Assemblea Costituente nel collegio di Cuneo-Asti-Alessandria, venne eletto risultando tra i più giovani deputati. Nel frattempo, continua la collaborazione con Einaudi, di cui diviene tra i più importanti collaboratori con un ruolo significativo di contatto tra l’impresa editoriale e il PCI, peraltro non senza frizioni col suo partito in seguito a scelte editoriali non sempre condivise da Giolitti (cfr. Mangoni 2012, pp. 45-53; Munari 2012, pp. 55-65). Tornando al suo impegno come deputato alla Costituente Giolitti, che si era iscritto al gruppo del PCI il 28 giugno 1946, venne nominato, tra l’altro, segretario della commissione speciale per l'esame del disegno di legge sulla soppressione del Senato dal 15 ottobre 1947, carica che ebbe sino al 31 gennaio 1948. Fu inoltre componente della Giunta delle elezioni, partecipando anche ai lavori della Commissione per la Costituzione dal 29 maggio 1947 al 31 gennaio 1948 e quelli della seconda Commissione per l'esame dei disegni di legge dal 30 ottobre 1946 all'8 maggio 1947. In aula si segnalano, ad esempio, i suoi interventi nella discussione del 20 e 21 maggio del 1947 sul Titolo IV, relativo ai rapporti politici. Giolitti intervenne per esprimere il suo apprezzamento per gli articoli, dal 45 al 51, del Titolo IV, definiti «i più sobri e più limpidi» anche per la capacità di esprimere i propri contenuti in maniera raffinata sul piano giuridico tanto da presentarsi «come un sistema coerente e ben equilibrato di diritti e doveri» (Scroccu 2012, pp. 63). Nel suo intervento egli prestava anche una particolare attenzione agli articoli dal 45 al 48 relativi alla partecipazione dei cittadini alla vita politica e all’espressione della sovranità popolare, dedicando un passo importante al tema dell’età minima per il diritto di voto individuata nel diciottesimo anno di età, che a suo avviso non doveva essere fissata nella Carta ma successivamente tramite un provvedimento di legge. Analizzando i dispositivi dal 49 al 51, dove si esplicavano i doveri scaturiti dagli articoli precedenti, come quello di difesa della Patria e di fedeltà alle istituzioni repubblicane, oltre a quello relativo al pagamento delle tasse, egli si soffermò, in riferimento al primo comma dell’articolo 50 che sanciva il dovere della fedeltà del cittadino alla Repubblica e alla Costituzione, anche sulla necessità di inserire nella Carta un riferimento esplicito il diritto-dovere del cittadino di rispondere ad una eventuale oppressione esercitata dai pubblici poteri. Una perorazione che evidentemente rappresentava un forte richiamo alla Resistenza contro l’invasore tedesco e la dittatura fascista, da cui del resto derivava la stesura stessa della Costituzione e la nascita della Repubblica: «affermando nella Costituzione il diritto di resistenza all’oppressione, noi consacriamo l’atto di nascita, profondamente nazionale e popolare, della Repubblica Italiana» (ivi, p. 63). Per quanto riguarda l’intervento del 30 maggio 1947, Giolitti era stato firmatario, insieme a Grieco e a La Rocca, di un emendamento (poi trasformato in ordine del giorno) all’articolo 53 che rendeva esplicito il riferimento al sistema proporzionale quale legge elettorale a garanzia di un voto libero e segreto. Nel suo intervento, egli mise in evidenza la centralità di quella legge elettorale giudicandola necessaria proprio perché da essa derivava la composizione stessa della fisionomia della rappresentanza del Parlamento, a partire dal suo carattere democratico. Inoltre, quell’inserimento avrebbe rappresentato una clausola di garanzia per le minoranze, ed in particolare per «il loro diritto ad essere adeguatamente rappresentate nel Parlamento e ad avere quell’influenza che corrisponde al loro peso e alla loro entità nella vita politica del Paese» (ivi, p. 64). Durante il suo mandato di costituente, Giolitti avrebbe ricoperto anche incarichi di governo. In una lettera a Paolo Milano del 2 dicembre 1946, egli avrebbe raccontato della sua esperienza come sottosegretario agli Esteri, per il PCI, nel secondo governo De Gasperi, incaricato durato tre mesi, cioè dal 17 luglio al 18 ottobre 1946, dopo i quali, arrivato Nenni alla Farnesina, sarebbe stato sostituito da un esponente democristiano (cfr. Martinelli 1995, p. 224). Un incarico delicato che lasciava pochi spazi di manovra in un clima dove iniziavano già ad emergere le questioni divisive legate alla guerra fredda. Questo non impedì comunque a Giolitti di ricevere un biglietto di auguri e incoraggiamento di De Gasperi l’8 settembre 1946, con il quale il Presidente del Consiglio si rivolgeva al suo sottosegretario ribadendo di avere «fiducia nell’esperienza nuova che vorrà fare al servizio del paese» (Scroccu 2012, p. 65). In questo periodo approfondì le letture e le competenze in materia di politica economica, con particolare attenzione ai temi della programmazione. Problematiche non sempre in linea con la proposta ufficiale del PCI, su cui Giolitti avviò una riflessione anche come segretario del Movimento dei consigli di gestione e interloquendo con i dirigenti della CGIL impegnati sulla proposta del Piano Di Vittorio. Rieletto alla Camera nel 1948 e nel 1953, si impegnò in particolare nella commissione Finanze. Sarà però il 1956, con i drammatici fatti dal XX Congresso del PCUS agli avvenimenti polacchi e di Budapest e le inevitabili ripercussioni sulla sinistra italiana (cfr. Scirocco 2010, pp. 163-264), ad allontanarlo dal suo partito, di cui era uno dei giovani più quotati. Le sue argomentazioni critiche verso il dogmatismo e il centralismo democratico del PCI rispetto ai drammatici avvenimenti dell’Europa orientale e in relazione alle rivelazioni sui crimini di Stalin, dopo una fase più cauta in cui sembrò voler mantenere il suo dissenso all’interno del partito, Giolitti le espresse pubblicamente, dopo un lungo periodo in cui venne invitato a mantenere il suo dissenso in un’ottica tutta interna, nel corso del suo intervento all’VIII Congresso del PCI (cfr. Ricciardi 2012, pp. 189-194; Scroccu 2012, pp. 113-126). Con quel discorso, pronunciato il 10 dicembre del 1956 con fermezza nonostante l’ostilità della platea, egli ribadì la sua critica al modello unico imposto da Mosca, richiamando la necessità della libera discussione e la necessità di garantire rispetto e tutela nel partito a chi dissentiva. Giolitti chiese, in sostanza, l’applicazione di una più ampia partecipazione nel dibattito politico del partito e la conseguente accettazione del metodo democratico come elemento peculiare per concretizzare l’aspirazione alla realizzazione di una prospettiva socialista in Italia, autonoma rispetto alle decisioni prese su scala internazionale. Tali posizioni vennero ribadite ulteriormente, nonostante gli inviti a mitigare o quantomeno a evitare di continuare a rendere pubblico il dissenso, all’interno di un memoriale che mesi dopo sarebbe stato pubblicato da Einaudi col titolo di Riforme e Rivoluzione (cfr. Giolitti 1992, p. 107). Una pubblicazione che meritò in breve tempo una risposta di Togliatti e un saggio di Luigi Longo, cui seguì, caso eccezionale, la possibilità per il deputato in odore di eresia di replicare su “Rinascita” (cfr. Scroccu 2012, pp. 137-139). Una situazione simile fece oramai preconizzare esiti di rottura, come dimostrò anche la pubblicazione del pamphlet di risposta scritto da Luigi Longo e intitolato “Revisionismo nuovo e antico”. Uscito dal PCI nel luglio del 1957 dopo aver presentato una lettera al comitato federale di Cuneo, missiva accettata e che quindi non formalizzò la sua espulsione (cfr. ivi, pp. 140-157), Giolitti si trovò ben presto nella condizione di andare alla ricerca di un nuovo spazio politico, e nello specifico di un partito dove poter militare e portare avanti le proprie idee, nonostante fosse ancora forte l’impianto concettuale che egli aveva incamerato durante l’importante esperienza nel PCI. In questo senso sarà fondamentale il passaggio intermedio, tutto di riflessione politico-intellettuale, in riviste come “Passato Presente”. Un cenacolo di approfondimento cui parteciparono non pochi ex comunisti in un dialogo intenso, almeno sino al concretizzarsi del progetto del centro-sinistra, con intellettuali di provenienza socialista come Raniero Panzieri, poi spostatisi su posizioni più critiche (cfr. Scotti 2011).
L’ingresso nel PSI fu un percorso non immediato per Giolitti, anche per le resistenze e le cautele degli stessi socialisti, che, soprattutto nella componente di sinistra, non volevano irritare gli ex alleati comunisti in un momento in cui il percorso autonomistico andava evolvendosi tra mille difficoltà. Rieletto alla Camera nel maggio 1958 come indipendente del PSI nel suo tradizionale collegio, Giolitti si collocò da subito nell’ottica dei ragionamenti di Riccardo Lombardi, sposando insieme a lui la teoria delle riforme di struttura e tentando di farne il perno caratterizzante della proposta del PSI verso il nuovo governo di centro-sinistra. Egli, in quel frangente, incarnò uno dei punti di riferimento per quei socialisti che, pur favorevoli al centro-sinistra, interpretavano questa prospettiva politica come momento di trasformazione concreta degli assetti economici italiani nel senso di una vera e propria ridistribuzione delle ricchezze, intesa come alternativa al modello capitalista e monopolista. In questo senso, al prediligere di Nenni della tattica politica sugli aspetti progettuali, Giolitti cercò di condizionare l’approdo del partito alle trattative affinché l’ingresso al governo contribuisse a ridefinire il modello di società in una prospettiva autenticamente socialista. Il capitalismo, infatti, non sembrava prossimo al crollo e pertanto una partecipazione governativa doveva avere chiara l’impronta ideale e programmatica delle riforme strutturali che voleva realizzare. Da qui nacque anche la richiesta di un centro-sinistra che doveva essere più avanzato nei programmi e non ridursi a mera formula politica, presa di posizione all’origine della famosa “Notte di San Gregorio” e del momentaneo freno alle iniziative del PSI proprio da parte di uomini come Lombardi e Giolitti. Superato questo scoglio, le trattative per il governo continuarono seguendo un crinale non privo di asperità, diffidenze e lunghe interlocuzioni, che non a caso, proprio sul nome di Giolitti quale ministro del Bilancio nel primo dicastero Moro, videro sollevarsi malumori tanto da parte dei socialdemocratici che dei liberali, oltre che di importanti componenti della stessa DC (cfr. Scroccu 2011, pp. 344). Davanti al bivio della scelta tra governo e opposizione, il partito fece alla fine la propria scelta ma al caro prezzo dell’ennesima scissione della sua storia. Una valutazione che ebbe un peso non irrilevante nelle successive, immediate difficoltà, legate non solo a vicende come quella del cosiddetto “Piano Solo”, ma anche alla difficile situazione economica a partire dalla crisi della lira, che portano al ridimensionamento dell’esperimento di centro-sinistra. Tenutosi fuori dai successivi governi di centro-sinistra, Giolitti si collocò con Lombardi all’opposizione interna, diventando uno strenuo oppositore dell’unificazione coi socialdemocratici, da lui considerato un processo verticistico e che rischiava di far passare in secondo piano il profilo ideologico e in particolare la riflessione sulla programmazione (cfr. Scroccu 2013, pp. 225-229). Nel frattempo, portò avanti la sua riflessione sui temi economici e sulla prospettiva del socialismo, pubblicando presso Einaudi nel 1967 il volume Il socialismo possibile, dove egli declinò la prospettiva della programmazione economica calandola all’interno della contemporaneità e della società dei consumi (cfr. Gervasoni 2012, pp. 160-161).
Le elezioni politiche del 1968, un grave insuccesso per il partito socialista unificato, che infatti non resse di lì a un anno alla debacle elettorale, lo convinse a riconsiderare l’orizzonte della partecipazione al governo, tema su cui si evidenziò la distanza con Lombardi, fermo sulla sua linea antigovernativa. Dopo aver costruito la piattaforma congressuale di “Impegno socialista” in vista del Congresso di Roma di fine ottobre 1968, insieme a personalità come Bobbio, Scalfari, Codignola e Rossi-Doria, Giolitti acquisì un nuovo ruolo da protagonista dopo la scissione del partito unificato. Nominato presidente del gruppo parlamentare, venne richiamato al governo: in particolare egli fu ministro del Bilancio nel III, IV e V governo Rumor e nel primo esecutivo Colombo (cfr. Scroccu 2016, pp. 52-69). In questa veste dovette muoversi in un frangente caratterizzato da una forte crisi economica, acuita anche dallo shock petrolifero del 1973 e da un momento di grave difficoltà per i conti pubblici, tanto che l’Italia col IV governo Rumor si trovò nelle condizioni di dover richiedere un ingente prestito al Fondo Monetario Internazionale. Proprio su questo tema avvenne un duro scontro nell’esecutivo tra Giolitti, contrario al prestito in qualità di ministro del Bilancio, e i favorevoli La Malfa e Colombo, rispettivamente al Tesoro e alle Finanze.
Nel frattempo, le elezioni del 1976 segnarono per il PSI un forte arretramento tanto che il partito, guidato da De Martino, raggiunse appena il 9,6% dei consensi. Si aprì allora una forte discussione critica nei confronti della segreteria e della sua linea di sostanziale subordinazione rispetto al PCI e al compromesso storico. Giolitti, contrario a questa prospettiva e più favorevole all’ipotesi dell’alternativa di sinistra con un ruolo da protagonista per il PCI, venne considerato come possibile sostituto di De Martino, ma alla fine il Comitato Centrale del PSI, riunito nel luglio del 1976 all’Hotel Midas, scelse Bettino Craxi (cfr. Colarizi, Gervasoni 2005, pp. 18-27; Mattera 2010, pp. 197-200; Spiri 2012, pp. 62-74). Verso la nuova segreteria Giolitti ebbe inizialmente un atteggiamento di attenzione e apertura, e sarebbe stato proprio Craxi a caldeggiare la sua designazione come Commissario europeo nel 1977 in sostituzione di Altiero Spinelli. Un incarico tenuto sino al 1984, che certamente contribuì ad arricchire il suo bagaglio di esperienze e che gli diede un osservatorio privilegiato sulle prospettive della politica continentale. Grazie al suo impegno l’accrescimento del Fondo regionale e la modifica delle procedure a vantaggio dei parametri comunitari su quelli meramente nazionali acquisirono un loro profilo specifico, connettendosi ai problemi più generali dello sviluppo industriale e a quelli relativi all’efficienza amministrativa. Giolitti, durante la sua esperienza a Bruxelles, cercò di dare il suo contributo affinché la Commissione svolgesse un ruolo non di mero esecutore, ma da protagonista nell’ideazione e nella concreta realizzazione delle politiche europee (cfr. Scroccu 2016, pp. 71-88).
In seguito alla tragica fine di Aldo Moro e alle dimissioni di Giovanni Leone, nei mesi di giugno-luglio 1978 si aprì la partita per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, destinato a essere scelto nell’area laico-socialista. Giolitti fu tra i più papabili nella rosa avanzata da Craxi, ma alla fine fu Pertini a emergere di fronte ai veti incrociati posti dai repubblicani e da una non piena disponibilità di democristiani e comunisti. Finita la contesa per il Quirinale e tornato al suo lavoro di Commissario europeo, Giolitti iniziò a guardare con insofferenza sempre maggiore al nuovo corso craxiano; tra il gennaio e il marzo del 1980 avvenne un fallito tentativo, messo in atto soprattutto dai lombardiani, di ribaltare i risultati del Midas, e di sostituire Craxi con Giolitti. Con il passare del tempo la strategia craxiana divenne infatti, per Giolitti, sempre più difficile da accettare, in quanto egli si convinse che la novità della proposta si fosse presto esaurita nella mera dimensione governativa, in un’alleanza acritica con la Democrazia Cristiana e nel controllo pressoché totale di un partito dove non era ammesso il dissenso e la messa in discussione dell’operato del leader. Il PSI gli sembrava sempre più piegato verso una dimensione esclusivamente spartitoria e di gestione dell’esistente, dove si era rinunciato alla prospettiva dell’alternativa per limitarsi a quella dell’alternanza nel governo del pentapartito.
La decisione di non rinnovare più la tessera e di lasciare di fatto il partito praticamente in coincidenza con la fine del suo mandato europeo lo rese di nuovo libero di guardare a quello che era stato il suo primo partito dai tempi della Resistenza, e da cui era uscito nel 1957. Il Giolitti che si riavvicinò al PCI e che venne candidato nelle sue liste alle elezioni politiche del 1987, risultando eletto da indipendente, era un uomo che appariva conscio del fatto che molta strada era stata fatta e che la lacerazione post invasione d’Ungheria non aveva più ragione d’essere. Dopo aver aderito al gruppo al Senato della Sinistra Indipendente, Giolitti non rinunciò a marcare la sua distanza su questioni in cui la sua visione era in disaccordo con quella del partito di Natta e poi di Occhetto, ad esempio sui temi della politica estera come in occasione della prima guerra del Golfo del 1990-91, o su alcuni temi di politica economica. La caduta del Muro e la fine del comunismo riaprirono il dibattito sulla costruzione di una nuova sinistra italiana, dove Giolitti non rinunciò a far sentire la sua voce. Non ricandidatosi nel 1992, si ritirò dalla vita politica istituzionale senza rinunciare a fornire il suo contributo alla gestazione del nuovo partito della sinistra nato sulle ceneri del PCI, ovvero il PDS. Sciolto anche il PSI in seguito al ciclone di Mani Pulite, egli pensò che fosse finalmente arrivato il momento di costruire una sinistra ispirata ai principi della socialdemocrazia europea, credibile e responsabile nel momento in cui non si tirava indietro nell’impegno a ridisegnare certi aspetti della spesa pubblica slegata da una seria politica della programmazione (cfr. ivi, pp. 134-140). Osservatore preoccupato delle vicende italiane tra la fine del secolo e del XXI secolo, soprattutto in relazione alla crisi della politica che colpiva a suo avviso anche la sinistra, molto critico verso l’ascesa di Berlusconi e del suo centrodestra, ma deluso anche dalle divisioni presenti nel centrosinistra, morì a Roma l’8 febbraio del 2010.
La vita di Giolitti, lunga quasi un secolo, ha toccato esperienze e temi fondamentali nella storia dell’Italia e dell’Europa del Novecento e dell’inizio del XXI secolo. La sua ricerca costante di coniugare il rispetto dei diritti della persona, a partire da quelli economici per arrivare a quelli individuali relativi, ad esempio, al diritto al dissenso e all’espressione delle proprie idee, ha rappresentato un punto di riferimento che si può apprezzare compiutamente nella valutazione storiografica della sua vicenda umana. Nipote di uno dei personaggi più importanti della storia dell’Italia contemporanea, antifascista e partigiano, poi giovanissimo deputato alla Costituente, comunista, socialista e comunque uomo intimamente di sinistra, aperto verso le questioni internazionali e capace da commissario europeo di comprendere la necessità di superare i gap economici tra le regioni del Continente. Da questo punto di vista emerge una figura che in un certo senso sembra anticipare tendenze, si pensi solo all’attenzione verso le tematiche economiche e verso quelle europee, che sarebbero diventate centrali nella discussione politica del XXI secolo. In conclusione, si può sicuramente affermare che Giolitti fu uomo di cultura e di governo, un politico ed un intellettuale che ha rappresentato un caso importante di personalità attenta e preparata culturalmente nel suo impegno pubblico, senza fermarsi però ad un livello meramente teorico in quanto sicuro nel ritenere che la prova su cui misurare la credibilità della sinistra fosse nella sua capacità di essere forza di governo.
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