1. Premessa
Questo saggio ha un itinerario un po’ azzardato, per la mole di riferimenti che prova a tenere insieme nello spazio limitato di queste poche pagine. Il tentativo è legare la riflessione ricoeuriana sulla colpa - complessa, articolata, disseminata - con la sua attenzione al tema della pena - una sorta di corrente carsica, che attraversa l’opera intera del filosofo francese. Il filo interpretativo è unire riflessione sulla pena e sulla colpa nella cifra della violazione e ricostruzione della reciprocità e, quindi, di un ripensamento della struttura relazionale dell’umano: non si pensano né l’una né l’altra se non all’interno di un legame costitutivo, interrotto e da ricostruire. In buona sostanza vorrei “usare” il modo in cui Ricoeur parla della colpa, principalmente in Finitudine e colpa, per arrivare al modo in cui il modello retributivo di giustizia risulta, nei suoi scritti dedicati al “diritto di punire”, oramai insufficiente, costringendo a ripensare la pena. La convinzione è che da qui si possa cogliere il “peccato originale” dell’essere umano novecentesco: un rifiuto della sproporzione, che invece connota la sua condizione, e un’erronea assolutizzazione della dimensione della finitezza, che tradisce il senso del peccato, della colpa, della loro relazione e della risposta punitiva che a essi si deve.
Per farlo, in quello che sarà inevitabilmente il tratteggio di un panorama, più che un carotaggio in profondità delle singole questioni, forse è opportuno, in queste primissime righe, precisare il senso complessivo dell’itinerario ricoeuriano. Egli muove dal tentativo di costruire un impianto antropologico che sappia far tesoro della novità fenomenologico-ermeneutica e rigettare un’ontologia sostanzialista, per approdare a una serie di esplorazioni sul terreno della filosofia pratica, tra cui, appunto, la riflessione su ciò che è giusto, e quindi anche sulla giustezza della pena; in mezzo c’è il passaggio decisivo costituito dalla riflessione etica di Sé come un altro. Ricoeur punta dunque a riconoscere lo spessore esistenziale del soggetto, “reimmergendolo” nella propria carne, nel proprio vissuto, nelle proprie relazioni essenziali, facendone decadere una lettura funzionalista ed egocentrica, dopo l’esaltazione della res cogitans cartesiana: passare dalla percezione al senso. In seconda istanza, potremmo dire che egli sostituisca alla finitezza la finitudine, come spazio del limite ma anche come luogo dell’impegno e di una tensione all’infinito, ineliminabile: un io che si fa sé, non da sé, rileggendo la propria esistenza, incastonata in quello spazio intermedio tra finito e infinito, dentro al quale declinare alcune, proprie, specifiche capacità. Se la finitudine è dunque terreno di investimento, mai chiuso su se stesso, è allora qui che si manifestano reciprocità e riconoscimento, espressioni di quell’apertura che fonda la nostra identità, giustifica il nostro impegno e invoca una struttura politica e giuridica in grado di tutelarla e portarla a compimento.
Dentro questo tragitto si incornicia l’obiettivo, affidato alle pagine seguenti, di mettere in collegamento Finitudine e colpa con il tema della pena. Finitudine e colpa, che doveva essere il secondo volume di una trilogia mai compiuta al servizio di una vera e propria filosofia della volontà, si configura come il tentativo, da parte di Ricoeur, di mettersi in ascolto dell’urgenza di alcune questioni morali rispetto all’impianto fenomenologico de Il volontario e l’involontario di qualche anno prima. La questione del male, della libertà, del peccato e della colpa iniziano a “conquistare” la riflessione ricoeuriana e a farlo dentro una doppia necessità: distinguere da un lato piano ontologico e piano etico del male e, dall’altro, matrice teologica del peccato e matrice antropologico-etica della colpa. Proprio questo duplice obiettivo si ritrova alle spalle della frequente, per quanto non sistematica, riflessione ricoeuriana sul fondamento della pena e sul diritto di punire.
Ricoeur, in buona sostanza, non ci consente un guadagno teorico sulla colpa, ma, nella convinzione che della colpa non ci sia appropriazione concettuale, bensì esperienza, ci consegna le strutture antropologiche e istituzionali che sono rispettivamente alle sue spalle e agiscono in sua risposta, ripensandole in un’ottica relazionale e di reciprocità.
2. “Prima” della colpa
Finitudine e colpa segue, come si accennava, Il volontario e l’involontario. Ricoeur “esce” dalla descrizione delle strutture eidetiche dell’umano, facendone tesoro; va così a esplicitare tutto quello che ne Il volontario e l’involontario si era messo tra parentesi, e cioè proprio la colpa e la trascendenza, per far emergere letteralmente una nuova tematica: la via d’accesso del male e il suo rapporto proprio con la trascendenza. Per farlo occorre una tessitura tra quelle che Ricoeur chiama, da un lato, una “empirica della volontà” e, dall’altro, una “mitica concreta”. Che significa? Innanzitutto, che la colpa non può rientrare in una eidetica, cioè non se ne può dare una descrizione pura. Potremmo dire, parafrasando quel che Lacan dice a proposito del padre, che secondo Ricoeur non esiste la colpa, ma le colpe. In seconda istanza, che neppure il passaggio dall’innocenza alla colpa è accessibile a una descrizione, ma si può solo raccontare dentro una cornice mitica. Come a dire che la caduta dall’innocenza obbliga la filosofia a rifare spazio al mito, ai miti della caduta, del caos, dell’esilio. L’esito di questo intreccio è la “simbolica del male”: «come se l’uomo potesse accedere alla sua profondità solo attraverso la via regale dell’analogia, e come se la coscienza di sé potesse esprimersi alla fine solo per enigmi ed esigesse, per motivi essenziali e non accidentali, una ermeneutica» (Ricoeur 1970, p. 57).
Tutto ciò però non impedisce di mettere a tema il cuore di quest’opera, quello che il filosofo francese chiama “il luogo umano del male”, espressione che quasi potremmo considerare il sottotitolo implicito di Finitudine e colpa. Non ci resta cioè che indagare, in un terreno anche qui di incontro - come è sempre nello stile ricoeuriano - tra ontologia e antropologia, il punto di inserimento del male nella realtà umana, accettando che di quel male non si possa dar conto in modo descrittivo diretto né della sua essenza né del suo momento originario. Ecco allora cosa intende Ricoeur per “fallibilità”, ovvero la «debolezza costituzionale che fa sì che il male sia possibile», la «struttura di mediazione tra il polo della finitezza e quello dell’infinità dell’uomo» (ivi, p. 58). L’umanità dell’uomo non è la causa (efficiente) del male, ma lo spazio di manifestazione del male. Questa categoria consente all’antropologia filosofica e alla simbolica del male di dialogare tra loro e quindi rendere proprio la simbolica del male in qualche modo un ambito del discorso filosofico e non un terreno meramente letterario. Il male entra nel mondo attraverso l’uomo, ma non è una proprietà della sua condizione di finitezza: c’è un’insorgenza che rende il discorso forzatamente indiretto e sfugge all’acquisizione speculativa.
Risulta molto interessante allora il passaggio che Ricoeur compie nelle pagine introduttive di questa opera, perché in poche ma densissime righe anticipa un concetto chiave per lui, quello di servo arbitrio, ma soprattutto anticipa la declinazione più ampia di questo tema. Vorrei partire da questo secondo aspetto. Ricoeur mette in luce come per mettere a tema una empirica della volontà non sia più sufficiente una riflessione sulle passioni (alla Tommaso, Cartesio, Spinoza), ma serva altro: colpevolezza e psicanalisi filosofia politica e questione del potere. E, appunto, evoluzione della criminologia e delle concezioni del diritto penale. Un’autentica empirica della volontà ha bisogno di una sorta di coalizione interdisciplinare, o meglio ancora di una visione integrale delle manifestazioni dell’umano, non concernendo esclusivamente il piano delle passioni. Qui Ricoeur è come se già indicasse la strada di uno degli sviluppi di questa sua riflessione, su cui torneremo più avanti: il modo in cui pensare la pena dipende dal modo in cui concepiamo questa empirica della volontà e del suo legame possibile con il male.
Il servo arbitrio, cioè un libero arbitrio che si trova sempre legato, è invece l’ambito dentro il quale Ricoeur trova l’equivalente speculativo dei temi mitici della caduta e la presentazione del male lontana da una sua declinazione nel senso di una consistenza ontologica. Per questo non è sufficiente, scrive Ricoeur, una visione etica del male. Che ha i suoi elementi fecondi, ma anche alcuni limiti sostanziali. Perché, da un lato, essa ha indubbi valori: se, come è, «la libertà è la ragione del male, ma la confessione del male è anche la condizione della coscienza della libertà», allora proprio questa confessione può cogliere «la sottile articolazione tra passato e futuro, tra l’io e gli atti, tra il non essere e l’azione pura, al centro stesso della libertà». Ma va anche detto che, se è vero che il male entra nel mondo in quanto l’uomo in qualche modo lo pone, però egli «lo pone solo in quanto cede all’urto dell’Avversario, rendendo così la libertà «preda di un Altro» (ivi, p. 65).
Cerchiamo allora di articolare meglio le conseguenze di queste premesse, anticipando che potremo concentrarci, per pertinenza e spazio, solo sulla duplice distinzione che Ricoeur compie tra il lato etico della fragilità (fallibilità) e quello ontologico (vulnerabilità) e tra peccato e colpevolezza, tralasciando l’excursus sulle rappresentazioni simboliche della questione dell’origine, nella consapevolezza che non è un’indagine sull’origine radicale del male, ma descrizione del luogo in cui il male appare e può essere visto.
Vi è un disordine tra intelligenza e volontà che Ricoeur sostiene trovi manifestazione in tre sproporzioni. Questo disordine è prima di tutto però l’occasione per affermare, da parte del filosofo francese, che l’uomo non si riduce alla sua finitezza, muovendo così, come anticipato, una critica a tutte quelle filosofie del Novecento che sono giunte a questa assimilazione. Cosa egli intende dire? Che fallibilità è il concetto che indica «come l’uomo si trovi “soggetto” a fallire» (ivi, p. 70). La ratio di questo concetto è la sproporzione dell’io a se stesso, il suo «essere-intermediario» che «opera mediazioni», il suo non ridursi alla propria finitezza, la sua continua e permanente possibilità (incompiuta) di infinità. L’esperienza di questo concetto è il patetico della miseria, ovvero il sentimento che l’uomo avverte della propria condizione. L’espressione di questo concetto sono le tre sproporzioni concernente il conoscere, il volere e il sentire, e una dialettica triadica, per la quale ognuna delle sproporzioni vive di tre tappe (affermazione, negazione e presunta mediazione), ci consegna tre sintesi (quella trascendentale, quella pratica e quella affettiva), lasciando in eredità una problematicità aperta e ancorata alla limitatezza della condizione umana: una sproporzione eminentemente esistenziale, generata dall’essere qualcosa e dal non essere tutto, dal considerare l’infinito oltre il finito un’intenzione mai adeguabile.
La conclusione che Ricoeur trae da questo è che «la possibilità del male morale è inscritta nella costituzione dell’uomo». E quindi nella sua limitazione, ovvero nella sua vulnerabilità, il contesto ontologico della fallibilità. Perché non ogni limitazione può accostarsi alla soglia del male morale, come scrive Ricoeur, ma «quella limitazione specifica che consiste per la realtà umana nel non coincidere con se stessa» (ivi, p. 228). Una debolezza costituzionale, il rapporto sproporzionato tra finitezza e infinità, rende il male possibile. Il male non si lega alla finitezza, ma alla sproporzione; la vulnerabilità non è il sinonimo della finitezza: «io sono la vivente-non-necessità di esistere». Per questo l’uomo è la gioia del sì nella tristezza del finito. Il poter fallire consiste dunque in una sintesi fragile, frangibile, nella fragilità della mediazione. Ricoeur la sintetizza, in modo ancora più radicale, così: «la “sproporzione” dell’uomo è potere di fallire, nel senso che rende l’uomo capace di fallire» (ibidem).
Nell’essere umano coabitano dunque male e bene: c’è dualità e non dualismo; il male non è simmetrico al bene, ma avviene come potere della fragilità, come potere di fallire. Ricoeur riconosce un “potere” anomalo, una sorta di potere della debolezza, il potere della sproporzione rispetto al male e alla sua possibilità: insieme occasione, origine e capacità. La fallibilità è cioè occasione del male, che, dal punto di vista della descrizione antropologica, resta al di qua del male, è solo possibilità del male; ma, dal punto di vista dell’etica, è la realtà stessa del male: in mezzo vi è il salto dal fallibile al decaduto che si affida al mito e al simbolo.
E qui arriva la questione della colpevolezza e del peccato, introdotte entrambe dal tema dell’impurità, ma soprattutto dal valore che Ricoeur riconosce, nella costituzione di una filosofia della colpa, alla confessione della coscienza religiosa. Ecco da dove rientra il tema, insieme, della colpa e della trascendenza, esclusi da Il volontario e l’involontario: il riferimento all’homo religiosus. La confessione interessa la filosofia perché è una parola che un individuo pronuncia su se stesso. E anche qui Ricoeur capovolge le gerarchie: il peccato originale non è la prima ma l’ultima parola, figlia di una razionalizzazione, ingannevole, conseguenza a sua volta della pretesa della gnosi di conoscere i misteri di Dio; anche se questo non la rende qualcosa di gnostico.
La prima esperienza non è il peccato, ma l’impurità, che è già un linguaggio simbolico: «la paura dell’impuro e i riti di purificazione stanno sullo sfondo di tutti i nostri sentimenti e comportamenti relativi alla colpa» (ivi, p. 271). Questa è esperienza individuale, che diventa etica nel momento in cui offende la reciprocità del legame umano. Questo è un altro punto centrale, perché lo ritroveremo al centro dell’attenzione ricoeuriana alla pena. Comunque, qui Ricoeur pone una riflessione molto importante sul timore dell’impurità, che forse è una delle dimensioni a cui oggi ci siamo maggiormente anestetizzati, e che precede, a suo dire, ogni esperienza di peccato e colpa.
Troppo a lungo, però, l’abbiamo inserita in una meccanica di causalità, razionalizzazione: «se soffri, se sei malato, se fallisci, se muori, è perché hai peccato» (ivi, p. 278). La sofferenza ha valore rivelativo del male morale. E a questo è stato collegato un corollario: «se è vero che l’uomo soffre perché è impuro, allora Dio è innocente». Fino al momento in cui non abbiamo imparato a distinguere mondo etico del peccato e mondo fisico della sofferenza e, come scrive Ricoeur, è stato necessario «che la sofferenza divenisse assurda e scandalosa perché il peccato, dal canto suo, avesse accesso al suo specifico significato spirituale» (ibidem). Qui le parole di Ricoeur sono molto forti: «Pagando questo prezzo terribile, il timore che vi era collegato ha potuto diventare timore di non amare abbastanza e dissociarsi dal timore di soffrire, di fallire; in breve, il timore della morte spirituale ha potuto scindersi dalla paura della morte fisica. Questa conquista è stata pagata molto cara: il suo prezzo è stata la perdita di una prima razionalizzazione, di una prima spiegazione della sofferenza; è stato necessario che la sofferenza diventasse inspiegabile, diventasse male di scandalo, perché il male d’impurità divenisse male di colpa» (ivi, p. 279).
La seconda figura della coscienza non più innocente è quella del peccato. Il peccato ha uno scarto fenomenologico, e non storico, rispetto all’impurità e la colpevolezza non è sinonimo di colpa. Ciò che determina il peccato è il “davanti a Dio”, e quindi la rottura di un patto. Proprio il rapporto con Dio segna lo spazio fenomenologico di differenza tra il peccato e l’impurità. Non la coscienza infelice hegeliana svuotata della sua sostanza davanti a un totalmente altro, e neppure la trasgressione di un valore o di una regola, ma la rottura di un legame personale che diventa esperienza di potere.
La terza figura è la colpevolezza. E la colpevolezza non è la colpa, anzi, essa indica «il momento soggettivo della colpa, come il peccato ne è il momento ontologico». Essa è misurata dalla coscienza dell’uomo colpevole, che si sente e si sa autore dell’atto malvagio: l’uomo consapevole di non aver usato giustamente la sua libertà, percepisce una mancanza compiuta.
Si conclude così il movimento di interiorizzazione, da un lato aprendo al versante etico, dall’altro investendo sull’imputazione personale (dal noi della confessione dei peccati alla colpevolezza individuale). La colpevolezza è “misurata” dalla coscienza che l’essere umano ha di essere colpevole, di essere l’autore dell’atto malvagio, avvertenza del peso della colpa, che si esprime ancora in una modalità che potremmo dire non è pubblica, ma interiore: l’essere umano non subisce più il contagio della macchia, ma se ne sente protagonista, non è punito per aver violato qualche divieto ed è consapevole di non aver usato giustamente la libertà.
Questo momento soggettivo contribuisce a definire il servo arbitrio, che costituisce la principale acquisizione concettuale di questa riflessione. Emerge il debito alla dialettica paolina tra schiavitù e libertà e quindi al pensiero protestante: forte è l’accentuazione della natura corrotta dell’umana natura. Ma la colpa non si pone solo come esperienza esistenziale umana; piuttosto l’essere umano la porta come responsabilità personale, il che indica che la sua libertà è in qualche modo causa del male; una libertà comunque che, non essendo mai pura, ma connotata da una serie di elementi involontari, vede attenuarsi la propria responsabilità. La libertà si manifesta empiricamente come serva, schiacciata dal peso del male: la dimensione della libertà è inseparabile da quella della schiavitù.
In conclusione, mi interessa evidenziare questo: “prima” della colpa - in senso fenomenologico, ma non temporale, potremmo dire parafrasando Ricoeur - esistono l’impurità, il peccato e la colpevolezza, che sono le strutture antropologiche di consapevolezza di un male compiuto, ben prima del riconoscimento esterno, da parte di qualcuno, di quella medesima colpa. Tutto e tre sono espressione di una relazione, pur restando all’interno di una dimensione antropologica: l’impurità è la paura di una violazione, il peccato è la rottura di un legame personale con Dio, la colpevolezza il senso di un cattivo uso della libertà tramite un mio potere di cui ignoro l’origine, ma che c’è. Pur restando esperienze personali, connotano l’intrinseca relazionalità di ogni individualità. Il piano ontologico è di mediazione e quindi di relazione; quello etico è di reciprocità e quindi anch’esso di relazione.
E tutte e tre queste figure di una coscienza non più innocente comportano una sofferenza che ha valore rivelativo di un cattivo uso della libertà. Una tristezza figlia di un non essere stati completamente all’altezza della nostra umanità. Un carattere rivelativo che questa sofferenza non ha più nel caso della pena e della sua deliberata inflizione, e che, su questo terreno, invece di essere rivelativa della nostra naturale sproporzione a cui abbiamo dato cattiva declinazione, diventa qualcosa di razionalmente insopportabile: “la” questione della pena.
3. “Dopo” la colpa
La grande scommessa sul piano della riflessione intorno alla pena è per Ricoeur la definizione possibile dei contorni razionali della pena stessa. In buona sostanza, la pena appare agli occhi del filosofo francese come un vero e proprio dilemma teoretico, in cui la giustizia incontra il male, la ragione è chiamata a misurarsi con alcuni propri limiti, la religione si confronta con la violenza e la teologia con la vendetta. Il tutto su uno sfondo conteso tra la consapevolezza tragica di uno scacco sempre impellente e la speranza di poter rigenerare e rendere a sua volta rigenerante la rottura che ogni male commesso e subìto porta con sé. E questo impegna due terreni, comportando due sfide: un ambito teologico, con la conseguente necessità di una dedivinizzazione della pena; uno giuridico, con la conseguente necessità di riconoscere il limite di un paradigma meramente retributivo.
Nel 1958, anno in cui Ricoeur scrive un primo saggio col titolo Il diritto di punire (ne seguirà uno diverso ma con lo stesso titolo nel 2001), è già forte, soprattutto in Francia, il dibattito sulla laicità e sulle derive secolarizzanti della modernità e Ricoeur, in un certo senso, vi incornicia il tema scivoloso della pena, in un modo molto ricco. Da subito con una presa di posizione netta: l’evoluzione del diritto penale non va in alcun modo nella direzione di un attacco alla religione, alla giustizia divina, agli uomini e donne di Chiesa, ma addirittura finisce per essere di aiuto nello svelare letture cristiane deformate del peccato e della colpa, della penitenza e della punizione; anzi, diversamente da quanto si potrebbe pensare, proprio il diritto di punire ci conduce nella prossimità di alcuni dei più radicali nodi della stessa teologia cristiana. Per comprendere tutto ciò occorre provare a rispondere a tre domande: «cosa si punisce, chi punisce ed in vista di che cosa si punisce?» (Ricoeur 2012, p. 33).
Innanzitutto, il diritto di punire collega la legalità dei delitti e delle pene (per cui ciò che è vietato è stabilito dalla legge) con quell’elemento morale che è l’intenzione colpevole (ciò che rende punibile in quanto rende imputabile): solo se c’è colpevolezza vi è punizione; solo se c’è colpevolezza la pena diventa responsabilità di qualcuno e non dell’intera società. «Insomma, la colpevolezza non è nulla di altro se non la realtà che, per la nostra libertà, un’altra scelta si sarebbe potuta compiere» (ivi, p. 34). E questo tema ha per Ricoeur delle immediate ricadute teologiche. In primo luogo, la secolarizzazione dell’imputazione, poiché in questo modo si finisce per separare l’infrazione da ogni nozione di peccato: se a quest’ultimo è essenziale la dimensione della coscienza “davanti a Dio”, essendo il peccato «una disposizione generale di tutta l’esistenza nei riguardi di Dio», per l’infrazione vale invece la legge, ci si concentra sugli atti e non sulla persona, e «il giudice non indaga i meandri del cuore» (ivi, p. 35). Da qui la conclusione: «è bene che la società rinunci a determinare il peccato di un uomo? Rispondo francamente di sì. Se il peccato è la nostra reale situazione davanti a Dio, questa situazione non può essere valutata da nessuno. Il peccato è oggetto di predicazione o di confessione; e per accusare direttamente il peccato, ritengo che occorra essere un profeta. Il peccato non è veramente peccato che laddove è riconosciuto» (ivi, p. 36).
Tale attenzione al rapporto tra responsabilità e libertà, con una particolare sottolineatura nei confronti dell’ambiente e delle condizioni di vita in cui maturano le colpe, ha rimesso in discussione e ampliato progressivamente le zone di non responsabilità dell’individuo: «la maggior parte dei crimini avvengono in una zona che non è né quella della chiara responsabilità […], lucidità padronanza della volontà, né quella delle […] non responsabilità - si potrebbe dire - grossolane, passive, costituite, per l’appunto, dalla minorità, dalla costrizione o dalla pazzia» (ivi, p. 38). Ciò, agli occhi di Ricoeur, porta direttamente al cospetto della seconda conseguenza teologica, spingendo a riconsiderare la centralità della dimensione comunitaria tanto del crimine quanto del peccato. L’estensione della non responsabilità dell’essere umano è apparsa agli occhi delle personalità religiose come la privazione di un loro diritto di decisione; ma, evidenzia il filosofo francese, «i veri peccati raramente compaiono nei tribunali […]. Sospetto che agli occhi di Dio i peccati più gravi appaiano raramente nella forma d’infrazioni giudiziarie: le mancanze d’affetto, le ingiustizie profonde, il modo in cui si può spezzare la vita degli altri nei silenzi, nelle omissioni, nei sotterfugi, distruggono la vocazione degli altri molto più di certi crimini che risultano essere probabilmente dei sottoprodotti del peccato degli altri» (ivi, p. 43). Per cui, conclude Ricoeur, «fino a quando il diritto moderno separa il crimine dal peccato resta molto rispettoso della dimensione religiosa del peccato e, nello stesso tempo, molto rispettoso del mistero d’iniquità che costituisce il peccato e non è presente nel criminale. Che il legislatore ignori questo mistero d’iniquità penso faccia parte del suo credo» (ivi, p. 44).
Il secondo piano della riflessione riguarda l’origine del diritto di punire, rispetto alla quale «la perdita di un certo fondamento teologico non significa la perdita di ogni fondamento teologico, ma forse la riscoperta di uno più vero» (ibidem). Se la punizione deriva dalla vendetta arcaica, la necessità di una sua misura “diritta” proviene invece dal principio della legalità e taglia gli ormeggi definitivamente da ogni origine pre-cristiana del diritto di punire come vendetta, interpretazione umana della vendetta divina. Ricoeur si spinge poi oltre: la legalità che elimina ogni arbitrarietà, ogni eccesso e smoderatezza ha come motivo proprio l’eliminazione della collera divina.
A questo punto quale è allora il fondamento del diritto di punire? Il filosofo francese è chiarissimo: l’idea di difesa sociale. «Si tratta di proteggere la comunità del popolo sanzionando tutto ciò che ne minaccia l’esistenza […] è la difesa dell’ordine di questa società, quell’ordine che organizza, orienta e dona un futuro a tale medesima società» (ivi, p. 47). E qui ritrova persino il fondamento teologico, apparentemente in modo paradossale, in realtà nell’unico modo in cui i due fondamenti possono essere vicini. Le sue parole sono di nuovo nette e lucide: «la giustizia degli uomini è divina per quel tanto che resta umana: direi che la sua istituzione divina ne fonda la vocazione ad essere umana e nient’altro che umana. La giustizia è nel nome di Dio non quando è giustizia di Dio, ma quando è istituzione umana volta al servizio del bene umano. Ci domandiamo se il cristiano debba, per motivi di coscienza, appoggiare questo movimento di laicizzazione del diritto di punire: io dico fermamente di sì, perché la divinizzazione del diritto di punire è proprio la sua demonizzazione e la sua menzogna principale. La giustizia umana, nient’altro che umana, è d’istituzione divina» (ivi, p. 50).
Terzo passaggio. Se puntiamo lo sguardo sul fine della pena, cosa possiamo notare? Ricoeur compie qui l’ultimo “azzardo”. Vi è nella storia del pensiero occidentale una teologia della collera che vaga, disperata, in affannosa ricerca di voci e volti: sconfitta prima dai tribunali civili della Grecia, figli della trasformazione delle Erinni vendicatrici in Eumenidi, e allontanata poi dal tentativo di far proprio il terreno della pena, si trova di fronte un’ultima vittima possibile, l’espiazione, ovvero «la pretesa che si possano cancellare, attraverso la sofferenza, gli effetti propriamente morali della colpa: legge di compensazione di un male morale attraverso un male di sofferenza» (ivi, p. 51). Cerca allora di farne il proprio terreno di conquista con un messaggio che punta a darle nuova linfa: «soffriamo perché abbiamo peccato e siamo responsabili perché siamo capaci di sopportare la sofferenza come conseguenza della colpa» (ibidem).
Ma anche su questo terreno la teologia della collera deve arrendersi al cospetto di una doppia evoluzione: in prima istanza perché all’espiazione si è sostituita l’idea della difesa della società e del mantenimento dell’ordine; in secondo luogo, perché all’espiazione si è sostituito l’emendare. L’annidamento di ogni teologia della vendetta nell’espiazione viene così sconfitto, secondo Ricoeur, da una maturata attenzione nei confronti della relazione con gli altri (“la società è il fine della pena”) e con il tempo (“la pena è volta al futuro ed è elemento di trasformazione”). A contribuire a questa espulsione della pena e della punizione dalla teologia ha contribuito il cristianesimo, che è religione dell’emendare e non dell’espiare, proprio perché dove davvero «la punizione incontra le teologia direi che non è tanto la dottrina della giustificazione, a dispetto dell’apparenza ingannevole delle parole, ma la santificazione» nella misura in cui «l’espiazione è morta perché è stata compiuta una volta per tutte o perché è stata trasfigurata, se la passione di Gesù Cristo ha un senso, niente e nessuno può aggiungere nulla di altro alla sua espiazione. La morte di Gesù è la morte dell’espiazione» (ivi, p. 54).
Ecco allora il traguardo, in cui si ritrovano riflessione teologica e giuridica. Alla prima è chiesto di capire che si tratta di «sfrondare, convertire, o, per meglio dire, perdonare e liberare, e non giudicare, espiare, compensare e restaurare. Che la penitenza sia una forma di tristezza e di sofferenza non significa che porti all’espiazione» (ivi, p. 55). Alla seconda compete avere chiaro che «nessun tribunale può amministrare la penitenza; il potere del giudice non è il “potere delle chiavi”: questo spetta alla comunità dei santi e non al tribunale degli uomini. Pertanto, la sola cosa che possa fare il tribunale degli uomini è aiutare l’uomo a riprendere il suo posto nella società» (ibidem).
Non vi è dunque contraddizione tra la laicità del diritto di punire e una sua possibile e autentica fondazione trascendente, proprio perché il suo senso autentico, la libertà umana, ci testimonia come la giustizia sia nel nome di Dio solo quando non è di Dio, ma, appunto, umana e niente altro che umana. Divinizzare il diritto di punire vorrebbe dire idolatrarlo e riattivare un ancoraggio teologico politico morto, che impedisce di pensarne un’alternativa. Rivendicare una giustizia niente altro che umana per Ricoeur vuol dire riconoscere l’autenticità di un’origine trascendente, che è tale solo nella misura in cui lascia spazio alla libertà umana.
«Direi […] che il punto di congiunzione tra l’emendare e la penitenza, il solo punto che si può dire di confine tra i due ordini, è il pentimento. La giustizia laica non lo esclude del tutto. Anzi, il fine della giustizia laica è arrivare almeno fino al pentimento, al riconoscimento di una colpevolezza e dunque ad una certa volontà di cooperare all’inserimento nella comunità: ciò è del tutto compatibile con l’idea laica di diritto penale […]. In fondo, il pentimento è la presa in carico da parte dell’uomo del proprio emendarsi, come la colpevolezza è la presa in carico della colpa: il pentimento segna il punto in cui la penitenza può avere un’efficacia possibile. In relazione alla penitenza, le cose stanno per il pentimento allo stesso modo in cui l’ordine politico sta in rapporto alla salvezza […]. Direi dunque che la regola del magistrato cristiano, che può essere la regola d’oro di tutto il sistema penitenziario, dovrebbe essere: mai schiacciare, mai umiliare, mai avvilire un colpevole al punto da rendere impossibile la mestizia della penitenza. Ma nessun ordine laico può andare al di là di ciò, perché il passaggio dal pentimento alla conversione, dall’emendare alla penitenza non è opera della magistratura» proprio perché la «giustizia è istituita da Dio quando rinuncia ad essere divina e accetta di essere umana e nient’altro che umana» (ivi, pp. 56-57).
Accanto a questo c’è la necessità di ripensare la pena oltre il retributivo, a partire dalla questione per Ricoeur lacerante di quella che egli chiama l’«aporia della razionalità della pena» (Ricoeur 1972, p. 367): ciò che pretende massimamente alla razionalità, la pena, provando ad incarnare proporzione e giustizia, si trova di fronte ad una «razionalità introvabile» (ivi, p. 368), che finisce per scoprirsi attuabile solo nella misura in cui resta violenta. Se la pena ha come primo dovere quello di far equivalere il male commesso e il male inflitto, spesso finisce per essere il filo atroce che collega un male morale a un male fisico. La ragione vive la ricerca angosciata dell’equivalenza e scopre di avere in mano una sola arma: sforzarsi di approssimare, tramite un calcolo, due ordini tra loro distinti, ovvero la colpevolezza e la pena, e accorgersi, in realtà, che è solo in grado di imporre una sofferenza a fronte di una colpa commessa. L’esito è emblematicamente descritto da Ricoeur nel saggio Interpretazioni del mito della pena: «ciò che nella pena è massimamente razionale, cioè il fatto che essa valuta il crimine, è nello stesso tempo massimamente irrazionale, e cioè il fatto che lo cancella» (ivi, p. 371); tale cancellazione di un male (quello commesso) avviene - si potrebbe aggiungere - per tramite di un altro male (quello subìto).
Il compito più arduo che spetta al diritto penale è dunque uno sforzo di razionalità per “misurare” la pena e renderla proporzionata alla colpa, cercando di affinare un processo di razionalizzazione della proporzionalità che sappia sciogliere il dilemma terribile tra violenza della pena e formalità astratta della legalità. A monte, si scorgono una serie di interrogativi radicali: si può giustificare il fatto che la società, per punire chi le ha inferto una sofferenza, finisca inevitabilmente per infliggerne a sua volta un’altra? Non è questo un interstizio istituzionalmente mascherato in cui si insidia nuovamente la vendetta, o, peggio ancora, un buco nero per la ragione? Si potrà mai arrivare a una giustizia non violenta? Come punire con proporzionalità, senza infliggere sofferenza?
Nel testo del 2001 Ricoeur ricostruisce alcuni paradigmi filosofici che hanno provato a dare una risposta a tali domande (da Platone ad Aristotele, da Kant ad Hegel), e prova a ridisegnare i passaggi che hanno consentito di abbandonare un sistema della vendetta per affidarsi ad uno della legge. In particolare, se l’etnologia ci ha permesso, nel tempo, di recuperare una nozione più costruttiva del sistema della vendetta, legandolo al suo presunto valore di regolamentazione sociale di alcuni gruppi umani antichi (anche se non per questo arcaici o barbari), la legge è arrivata a cancellare in maniera definitiva ogni possibile idea di giusta vendetta, senza che ciò abbia però significato l’eliminazione totale della carica di sofferenza che essa porta comunque con sé. A farci problema, sottolinea Ricoeur, è allora il legame tra la violenza contro la legge e la sofferenza in cui consiste la pena, così come la necessità di trovare una sanzione che corrisponda alla colpa e le corrisponda sempre allo stesso modo. Quale problema resta aperto per la ragione? L’incapacità di non far soffrire chi devo punire e l’incapacità di punire senza far soffrire; il fatto che a una violenza primaria si risponda inevitabilmente con una sorta di violenza secondaria, ma legale, così come che l’unico modo ad oggi “sul tavolo” per affrontare la questione resti la privazione della libertà. Se lo scacco di fronte a cui si trova l’etica è il tragico dell’azione, per cui volendo fare il bene finisco per compiere il male, lo scacco che coinvolge il giudiziario è il tragico della pena, ovvero che dovendo rendere giustizia a qualcuno finisco per infliggere sofferenza ad un altro.
Scriverà Ricoeur successivamente a questo testo: «Siamo a confronto con l’assenza di alternative praticabili alla perdita di libertà, all’imprigionamento […]. È un fatto che non disponiamo di alcun progetto percorribile di abolizione totale dell’imprigionamento» (Ricoeur 2007, p. 272). La sofferenza, intesa qui come privazione della libertà, è il solo canale di comunicazione e di proporzione, e rivela in ultimo l’impossibilità di eliminare definitivamente un residuo di violenza originaria che permane anche nella giusta pena, rischiando di farne una sorta di vendetta sotto mentite spoglie: è pensabile una giustizia che non abbia alcun residuo di violenza e che quindi risulti concretamente impermeabile a ogni possibile rigurgito di vendetta? È possibile pensare, per la ragione umana, una sostituzione della privazione della libertà?
Persino alla fine di quel confronto verbale che è il processo si apre la storia specifica della pena attraverso una parola di forza, l’amministrazione di una punizione; questa pena sopraggiunge come una sofferenza estranea all’essenza stessa del crimine, in quanto aggiunge un male fisico - il dolore della pena, la sofferenza inflitta - al male morale - il dolore della colpa, la sofferenza inferta. Ricoeur parla cioè del rischio di un’introvabile razionalità della pena: in primo luogo perché la pena implica un soffrire e l’imposizione di una volontà che colpisce un’altra volontà; secondariamente, perché si rivendica un carattere comune tra il soffrire della pena e il commettere la colpa: ma come il male fisico può equivalere, compensare, sopprimere il male morale? Ne segue che, nel momento in cui la punizione appare ragionevole e proporzionata, la sofferenza, che mai lo è, rischia di diventare assurda.
Resta una strada, non facile, da percorrere, che comporta un cambio di paradigma - e qui il saggio lancia la sua scommessa teoretica: «referente non è un destinatario determinato, fosse anche la vittima, ma la relazione di ciascuno nei confronti di tutti. Il potere che qui viene rianimato in ognuno è la capacità della relazione» (Ricoeur 2012, p. 87). Per donare soddisfazione al triangolo della pena giudiziaria, ovvero la legge, la vittima e il condannato non si deve andare nella direzione di uno spacchettamento delle responsabilità, quanto piuttosto verso la riabilitazione alla capacità di relazione; la relazione infranta deve di nuovo essere resa possibile attraverso «un progetto di giustizia, centrato sulla restaurazione e sulla ricostruzione del legame sociale […] e potrebbe trovare spazio nella realtà solo ri-orientando di nuovo le componenti principali […], e cioè l’accusato, la vittima, la legge. Attraverso i termini restaurare e ricostruire, si coglie quindi un cambiamento di finalità nel trattamento dei conflitti sociali. Il destinatario non è né la legge, né la vittima, né l’accusato, ma il legame organico che fa tenere insieme una comunità umana» (ivi, p. 82).
4. Conclusione
La capacità di relazione: in fondo, infine, sta tutto qui. Noi siamo la capacità di relazione tra la condizione di finitezza e la tensione verso l’infinito, e questa difficile relazione è la porta del male compiuto; la sofferenza non è la conseguenza del male commesso, ma il “sapore” di una mediazione tradita. Noi siamo la capacità di relazione con gli altri e il suo tradimento costituisce la ragione della pena; ma l’inflizione della pena non può essere afflizione di sofferenza. L’esercizio difficile e sempre rinnovabile di tessitura tra libertà e responsabilità, limite e capacità deve allora consentirci sempre di non riconoscere come una “macchia” ontologica quella che potrebbe apparire come una inevitabilità del cattivo equilibrio tra finitezza e infinità, così come di riconoscere che ogni pena o riabilita la capacità di relazione o è semplicemente violenza.
Bibliografia
Ricoeur P. (2012), Il diritto di punire, Morcelliana, Brescia.
- (2007), Il Giusto. Vol. 2, Effatà, Cantalupa (To).
- (1993), Sé come un altro, Jaca Book, Milano.
- (1990), Filosofia della volontà 1. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova.
- (1972), Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano.
- (1970), Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna.
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