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Natura umana e idea di uomo in Karl Jaspers

ELENA ALESSIATO
Articolo pubblicato nella sezione Il futuro della natura umana

Kant fu una presenza costante e ricorrente nel lavoro filosofico di Karl Jaspers, a tal punto che Hannah Arendt, allieva e amica del professore di Heidelberg, ebbe ad affermare che questi fu «l’unico successore che Kant abbia mai avuto» (Jaspers - Arendt 2014, p. 62).
Il metodo critico e l’approccio trascendentale al pensiero costituiscono solo una componente di questa influenza. Ancora più centrale è l’impostazione strutturale del pensiero che Jaspers adotta dall’autore delle tre Critiche e che gli suggerisce di riformulare i famosi interrogativi con i quali Kant aveva efficacemente sintetizzato il senso dei diversi orientamenti delle sue ricerche, e con esse le domande fondamentali della filosofia: Cosa posso conoscere? Cosa devo fare? Cosa mi è consentito sperare? Dimensione teoretica, dimensione pratica e dimensione etico-religiosa: l’essere umano si costituiva dalla sovrapposizione, intersecazione e interazione di esse. Tant’è vero che quelle tre domande trovavano la cifra sintetica del loro porsi nella domanda che tutte le racchiudeva: Cosa è l’uomo?
La filosofia di Jaspers può essere intesa come una prassi di ricerca e di pensiero articolata intorno all’enigma rappresentato da questa domanda. Con Jaspers cerca l’uomo, o meglio, cerca di rintracciare le condizioni mediante le quali divenga possibile realizzare l’umanità potenziale di ogni uomo e l’umano dell’umanità (das Menschliche der Menschheit). «Lo spirito ha le sue possibilità certo sempre sotto le condizioni dell’esserci, ma è di una propria origine indipendente. È mediante la libertà. Per questo esso vive tramite l’autocoscienza del singolo. La strada verso il futuro passa mediante il singolo, ciascun singolo» (Jaspers 1986, p. 263). Ci troviamo qui in presenza di uno scarto che agisce come principio di mobilitazione delle potenzialità prospettiche e semantiche della filosofia jaspersiana. L’uomo, infatti, per Jaspers può dirsi in tanti modi. O meglio: molte sono le modalità nelle quali l’uomo, der Mensch, articola il suo essere-uomo, la sua umanità. “Natura umana” è solo una di queste. Essa sta al principio, ma non rappresenta il principio regolativo e prospettico del processo, il cui significato più proprio consiste nel trascendimento continuo e voluto di quella natura.
L’espressione “natura umana” non è estranea alla terminologia jaspersiana, che pur è contraddistinta da una innata mancanza di coerenza lessicale e semantica. Forse anche questo può essere ricondotto all’essenza di una visione sostanzialistica dei concetti. E certo nel caso della natura umana quest’assenza si fa particolarmente evidente, con l’insieme di ambiguità e opzioni che essa porta con sé.
Si potrebbe dire che per Jaspers la natura umana è un composito. In quanto tale, non trova corrispondenza in un oggetto determinato né in un assetto di contenuti. La matrice kantiana del pensiero jaspersiano si specifica qui in un approccio trascendentale al sapere sull’uomo che ricerca non gli oggetti e i contenuti del suo essere ma le condizioni del suo formarsi e divenire. «L’uomo è sempre più di quel che egli sa e può sapere di sé» (Jaspers 2000, p. 816). L’uomo vanta una differenza fondamentale rispetto a tutti gli oggetti intorno ai quali si affatica la sua conoscenza: l’uomo è sempre più dei suoi oggetti e dell’oggetto del suo conoscere. L’uomo non è mai solo oggetto. È sempre anche soggetto del processo conoscitivo e orizzonte ulteriore rispetto a ogni conoscere. «L’uomo non è in sé un essere di per sé sufficiente, chiuso in sé, ma quel che l’uomo è, lo è attraverso quel che l’uomo fa suo» (Jaspers 1976, p. 398).
Costante in tutto il pensiero di Jaspers è il sottolineare la natura irriducibile e inoggettivabile dell’uomo. La distinzione di soggetto e oggetto, che contrassegna ogni forma di possibilità conoscitiva dell’uomo nel mondo, è potenziata dal fatto che quella dualità non può essere mai perfettamente sciolta, bensì necessariamente mantenuta come principio di attivazione del conoscere e insieme come condizione obbligante del suo superamento. L’uomo vuole conoscersi per poter essere più di quel che può sapere di sé: per diventare quel che è, quel che può (kann) e deve (sollen) essere. «Al contrario l’uomo, secondo la sua essenza, non può essere così com’egli è per una volta. Può incorrere in vicoli ciechi, degenerazioni, capovolgimenti, autoestraniazioni. Ha bisogno di salvezza, guarigione, liberazione, di venire-a-se-stesso. Ma questo succede non in una direzione conosciuta o creduta universalmente valida di una forma di essere uomo vera in modo esclusivo» (Jaspers 1974, p. 59)
L’assenza di una proposta sostanzialistica contrassegna specificamente questo processo di divenire. Non si tratta, infatti, di raggiungere, in questo processo, un oggetto determinato, un risultato ultimo e conclusivo, uno stato d’essere definitivo. La natura dell’uomo di Jaspers è aperta nel senso di essere sollecitata in un percorso di autoconsapevolezza e (auto)costituzione di sé che è per definizione infinito perché proiettato verso uno stato di perfezione in sé irraggiungibile. «Anche nella chiarificazione filosofica non si ottiene alcuno schema univoco dell’essere umano. […] Permane in lui l’impulso verso quell’uno, che egli non è né possiede. Questa è l’incompiutezza o la frattura dell’uomo» (Jaspers 2000, p. 809).
Nel saggio Die geistige Situation der Zeit, Jaspers, riferendosi al futuro, distingue tra previsione contemplativa e previsione energetica. In entrambi i casi, l’uomo è messo di fronte alla responsabilità della propria storia e del proprio avvenire. «L’essenza autentica degli uomini non può esser voluta come uno scopo. Gli uomini sono infatti quel che sono non soltanto per nascita, selezione ed educazione, ma in virtù della libertà del singolo fondata sul suo esser dato a se stesso» (Jaspers 1982, p. 235).
Questo saggio, importante nel percorso di Jaspers perché costituisce il tentativo di un filosofo di fare una diagnosi, lucida e acuminata, del suo tempo e delle dinamiche in atto nella società in cui viveva, propone una primissima e sintetica formulazione di quell’orientamento di pensiero che egli svolgerà diffusamente nei tre tomi di Philosophie. Non è dunque un caso che proprio in esso Jaspers contesti le tre scienze che, nel suo tempo, pretendevano di fornire il sapere più alto ed esatto sull’uomo. Da un lato, la sociologia, in particolare nella sua versione marxista, riduceva l’uomo ai modi della sua socializzazione, alterando la dimensione descrittiva del comportamento storico-sociale con previsioni di natura profetica che tradivano una componente ideologica illiberale e costrittiva. «L’uomo – questa era la fede di quegli pseudo-scienziati – ha compreso la propria essenza e ora può pianificare e spianare la strada a ciò che, comunque, dovrà venire necessariamente» (Jaspers 1982, p. 181). Dall’altro, la psicologia, nata come scienza delle «facoltà dell’anima», era arrivata a fare dell’uomo la «marionetta del proprio inconscio». Per lo più intesa nella variante offerta dalla psicanalisi di Freud, essa pretendeva di individuare l’essenza dell’uomo nell’intrico di impulsi basici ed esperienze infantili, le quali andavano disvelate e decostruite, facendo regredire l’essere umano a uno stato di natura così inglobante da far venire meno il bisogno di essere più che natura (Jaspers 1982, pp. 184-5). Infine, l’antropologia mira a studiare «l’essenza primigenia dell’uomo visibile» (Jaspers 1982, p. 185) ma, nella misura in cui essa guarda alle sole manifestazioni naturalistiche dell’essere dell’uomo, è ridotta da Jaspers a scienza delle razze.
Pur nella loro diversità di metodo e di oggetti, quelle scienze avevano in comune una tendenza al contempo assolutizzatrice e riduzionistica: riducendo l’uomo a oggetto, eliminavano ogni traccia o possibilità di incondizionato, «facendo del proprio sapere un falso incondizionato» (Jaspers 1982, p. 189). A esse Jaspers oppone la filosofia dell’esistenza, intesa come quella forma di ricerca sull’uomo che si serve dei saperi specialistici per superarli, allo stesso modo in cui rifiuta di poter fissare l’essenza dell’uomo in un risultato, in un insieme di dati o valori. Riconoscendo il carattere aperto e sempre mobile, transeunte, dell’essere dell’uomo, egli individua l’unica condizione che rende giustizia all’incondizionatezza, e incondizionabilità, della sua natura: la libertà della scelta, la possibilità della spontaneità, l’assunzione della responsabilità personale. «Quel che accadrà non lo dice nessuna risposta alle nostre domande; lo dirà l’uomo vivente col suo essere. La previsione energetica del possibile può soltanto avere il compito di far sì che l’uomo si ricordi di se stesso» (Jaspers 1982, p. 241). Similmente la filosofia dell’esistenza, senza fissare certezze, sollecita un «domandare appellante» con il quale «l’uomo tenta oggi di ritrovare se stesso» (Jaspers 1982, p. 193), mirando così a dispiegare alla coscienza dell’individuo le diverse possibilità del suo essere-in-divenire.
Il secondo tomo di Philosophie, pensato e composto in un lungo lavoro di studio solitario e pubblicato nel 1931, poche settimane dopo l’uscita del saggio Die geistige Situation der Zeit, sarà dedicato a illustrare le condizioni attraverso e grazie alle quali l’uomo può intraprendere quel percorso di autochiarificazione che, sospingendolo sempre al limite delle sue possibilità, lo mette nella condizione di realizzare il suo essere più proprio. Esse sono le categorie che definiscono la Existenzphilosophie di Jaspers: comunicazione, storicità, relazionalità, situazioni-limite. Rispetto a ciascuna di esse non ci sono prescrizioni o norme: l’uomo è solo e libero. Alla domanda «Was ist der Mensch?» ciascuno è chiamato a rispondere con i pensieri e gli atti del proprio esistere. «Per il fatto che l’uomo è onnicomprensivo nelle sue possibilità, non è determinabile nella sua natura» (Jaspers 2000, p. 810). Indeterminatezza significa, insieme, incertezza e possibilità, indeterminazione e autodeterminazione, lotta e libertà.
Jaspers è consapevole del rischio che una tale forma di pensiero degeneri nel mero soggettivismo e in un solipsismo “senza finestre”. Per questo è particolarmente attento, in più punti della sua vasta e prolissa produzione, a individuare, a partire dall’osservazione dell’esperienza, quelle forme nelle quali gli individui si possono riconoscere e che, disposte su livelli diversi ma coimplicati, permettono di dispiegare una nozione molto articolata di “natura umana”. È vero, come è stato detto, che il percorso di autochiarificazione coinvolge il singolo nel suo sforzo di appropriarsi della sua umanità irriducibile e della sua possibilità più propria. Tuttavia il medesimo discorso di Jaspers, incentrato sulle possibilità di umanizzazione del singolo e di valorizzazione dell’umano – in questo una forma ammodernata, e pensata sotto nuove «condizioni», di «umanesimo» (Jaspers 1997) – non sarebbe possibile senza fare riferimento a forme e categorie capaci di unificare le singole esperienze individuali.
La concezione che Jaspers ha dell’uomo visto nelle sue caratteristiche fondamentali distingue infatti quattro livelli: l’esserci; la coscienza, della quale Jaspers arriva a distinguere tra coscienza individuale, coscienza di ciò che è valido, e poi, soprattutto, coscienza in generale (Jaspers 1978, pp. 296-7), per indicare il piano del pensiero logico e universalizzante; lo spirito, che coincide con il livello comprensivo della ragione; infine, l’esser-sé autentico, che chiama in causa l’esistenza. Il livello precedente non è mai dipendente da quello successivo, ma è piuttosto quello successivo che si basa su quello precedente, cosicché ad ognuno di questi livelli l’uomo raggiunge comunque una forma di sapere, in una successione nient’affatto finalizzata a raggiungere la forma più compiuta. Non c’è forma compiuta perché c’è sempre la possibilità della sua perdita, della sua regressione. Tuttavia quel percorso, e la riflessione filosofica su di esso, pur nelle sue ambizioni esistenziali-esistenzialistiche, non potrebbero nemmeno avviarsi se non a partire dalla presenza, e correlata presa di coscienza, di forme e condizioni comuni, che rappresentano quel livello di congenericità, necessaria ma non vincolante, nei quali i singoli possono ritrovare i tratti della loro comune natura, della loro comunanza. L’uomo non è un Sosein, un essere determinabile in un modo definit(iv)o ed esclusivo, ma, per poter divenire un’esistenza, non può fare a meno di riconoscersi anche come Dasein, come parte di un mondo che è quello della natura, della corporeità e della vitalità, dell’esperienza e dell’oggettività.
Il Dasein, l’esserci, è quell’insieme di condizioni comuni a tutti gli uomini che risultano date non nel senso del loro contenuto singolo ma nella forma della datità che le accomuna. Dato, quindi, è che ciascuno ha un corpo con il quale poter stare al mondo; che è immerso in e assegnato a un contesto sociale e storico; dato è, infine, che ciascuno sia potenzialmente in grado di utilizzare la propria ragione e di poter ricorrere a forme logiche intellettive e razionali con le quali può instaurare un rapporto e un dialogo con i suoi simili. La datità di queste forme è. La loro conversione in realtà vissuta, il loro compimento come condizioni di esistenza, è una possibilità lasciata alla decisione libera e responsabile del singolo. A partire dunque dalla natura, intesa come l’insieme delle condizioni comuni da ammettere come necessari prerequisiti fisici (cioè anche letteralmente appartenenti al mondo della physis) e formali dello stare al mondo dell’essere umano, all’individuo è lasciata la libertà di realizzare la sua natura più propria, che è la sua essenza specifica nella misura in cui è sottratta a ogni genericità, universalità e necessità. Ecco perché, nella terminologia di Jaspers, il termine Existenz è sempre accompagnato dall’aggettivo mögliche: nessuna condizione data, fisica, formale o logica, è garanzia della sua realizzazione, del suo compimento. Questo si attua in un percorso di asintotico superamento delle componenti basiche − naturali, pulsionali, egoistiche – che accompagnano l’essere naturale dell’uomo, la sua natura nel senso di essere-dato-alla-natura come parte di essa.
Non è estraneo, Jaspers, ai convincimenti di un pessimismo antropologico che vede l’uomo come affetto da passioni insuperabili: è questo il retaggio di una lunga tradizione di pensiero che gli arriva soprattutto attraverso la mediazione di Max Weber. Tuttavia quella visione è integrata da una volontà di fede che è essenzialmente fede etica: fiducia nella possibilità dell’uomo di superare se stesso, aprendosi allo spazio dell’autenticità e della trascendenza. «Chi domanda dell’uomo, vorrebbe vedere l’unica immagine vera, valida di esso, l’uomo stesso, ma non può. La dignità dell’uomo consiste nell’essere rappresentante dell’indeterminabile» (Jaspers 1974, p. 67).
La filosofia di Jaspers è una filosofia dell’uomo nella misura in cui è una filosofia della dignità umana. E con questo ritorniamo al punto da cui siamo partiti: l’eredità kantiana, riarticolata all’interno di una riflessione che fa proprie le lacerazioni e la drammaticità della sensibilità moderna. Famosi sono quei passi della Critica della ragion pratica in cui Kant restituisce dell’uomo l’immmagine di un essere mobile e mediano: non pienamente animale né creatura celeste, ma continuamente in bilico tra i due estremi. «L’uomo è un essere bisognoso, in quanto appartiene al mondo sensibile […] Poiché è una creatura, e quindi […] sempre dipendente, non può mai essere interamente libera da brame e inclinazioni» (Kant 1999, pp. 245 e 305). Nondimeno «solo l’uomo, e con lui ogni creatura razionale, è scopo in se stesso. Infatti egli è il soggetto della legge morale, che è santa grazie all’autonomia della sua libertà» (Kant 1999, p. 313). Pungolato dalla legge morale in lui, l’uomo si dimostra non solo abile a mantenersi in equilibrio tra i due estremi dei mondi che abita, il sensibile e il sovrasensibile, ma capace di imprimere alla propria vita, e alle proprie scelte, una spinta da cui emerge la sua facoltà, che diventa capacità e possibilità, di elevarsi al di sopra dei condizionamenti del mondo naturale per volgersi alle idee che sono immagine della sua santità: «Se è vero che l’uomo è ben poco santo, tuttavia santa deve essere per lui l’umanità nella sua persona» (Kant 1999, p. 313).
La natura dell’uomo non si definisce qui, dunque, in relazione a un essere ma a un movimento: un movimento generato da una scelta, nel quale trova espressione il suo carattere più proprio ed esclusivo, la sua (possibilità di) libertà, e quindi la sua natura intrinsecamente etica. Jaspers fa propria questa impostazione, la quale emerge già, in maniera macroscopica, nella tripartizione stessa del suo capolavoro filosofico, la Philosophie, ordinata in una successione che parte dall’analizzare le condizioni, e i limiti, dell’essere dell’uomo nel mondo come parte del mondo della natura (Weltorientierung), per terminare con un discorso razionale che guarda a ciò che trascende il mondo reale e la razionalità (Metaphysik). In mezzo trova posto l’elaborazione delle esperienze essenzialmente umane in quanto costitutive dell’essenza più propria dell’uomo, che è essenza etica: l’uomo come essere esistenziale, esistenza possibile mai data a se stessa ma sempre proiettata in un movimento di (auto)riflessione e (auto)creazione. Vengono qui illustrate, nella terminologia di una chiarificazione esistenziale (Existenzerhellung), le condizioni che contrassegnano in modo specifico l’essere umano nell’esperienza, più che meramente intellettuale, dei limiti della sua natura di essere storico. Sono questi limiti che condizionano − nel duplice senso di intralciare e di rappresentare le condizioni di fattibilità − il salto verso l’origine del nostro essere più proprio. È così che Jaspers può osservare: «Dopo che noi, nel nostro apparire, mediante la natura e la storia siamo diventati ciò che ora siamo, è però come se noi allo stesso tempo provenissimo da fuori la natura e la storia e solo là avessimo la nostra origine e il nostro fine» (Jaspers 1974, p. 56).
Davvero Jaspers è erede di Kant nella misura in cui l’antisostanzialismo della sua concezione di uomo si esprime nell’elaborazione di una filosofia etica che ha nell’uomo – nella realizzazione della natura dell’uomo intesa come compito e destinazione, come attualizzazione sempre libera, sempre revocabile e precaria, della sua possibilità più alta − il suo fine e la misura del suo valore e, per corrispondenza e implicazione, nella formulazione di una filosofia della storia che fa della libertà dell’uomo la sua origine di senso e il suo principio di orientamento. In questa prospettiva paiono particolarmente felici le parole con cui Hannah Arendt volle definire il pensiero di Jaspers: «Spaziale» lo chiamò, «poiché in sé resta sempre riferito al mondo e agli uomini; non perché sia legato a uno spazio esistente, ma al contrario perché la sua più profonda intenzione è di “creare uno spazio” nel quale l’humanitas dell’uomo può apparire pura e chiara» (Jaspers-Arendt 2014, p. 70).


Riferimenti bibliografici

Jaspers, K. (1974), Kleine Schule des philosophischen Denkens, Piper, München.
Jaspers, K. (1976), Über meine Phiosophie, in Id., Was ist Philosophie? Ein Lesebuch, Piper, München, pp. 389-414.
Jaspers K. (1978), Filosofia 2: Chiarificazione dell’esistenza, Mursia, Milano.
Jaspers, K. (1982), La situazione spirituale del tempo, Jouvence, Roma.
Jaspers, K. (1986), Europa der Gegenwart, in Id., Erneuerung der Universität. Reden und Schriften 1945/46, Lambert Schneider, Heidelberg, pp. 243-274.
Kant, I. (1999), Critica della ragion pratica, Rizzoli, Milano.
Jaspers K. (20005), Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma.
Jaspers, K. – Arendt (2014), H., Verità e umanità. Discorsi per il conferimento del Premio per la pace dei Librai tedeschi 1958, Mimesis, Milano-Udine.



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