Forse non si è abbastanza riflettuto sulla circostanza che il rilancio della filosofia europea, dopo l’apparente esaurimento sperimentato negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, è passato per una sorta di dislocazione che l’ha spinta «fuori di sé». Fuori in senso geografico, per la forzata emigrazione di alcuni tra i suoi massimi rappresentanti in America. E fuori in senso concettuale, nella presa di distanza da un paradigma che l’aveva caratterizzata nei decenni precedenti. Il paradigma che la filosofia europea si lascia alle spalle dopo la guerra è quello che possiamo ricondurre alla categoria di «crisi». Come è noto, esso è stato fatto proprio da un vasto fronte intellettuale che va da Mann a Ortega, da Spengler a Croce. Ma ha trovato negli scritti di Valery sulla crisi dello spirito, di Husserl sulla crisi delle scienze europee e di Heidegger sulla crisi della tradizione metafisica, i testi più celebri. Nonostante le differenze interne, comune ad essi è il presupposto che, per svincolarsi dalla stretta mortale che lo attanaglia, il pensiero europeo debba riterritorializzarsi, ritrovando la propria radice greca e ricostituendosi su di essa. Questa argomentazione, che lega in un periplo circolare origine e fine, arche e telos, si ripete, con poche variazioni, in tutti i loro scritti del periodo: soltanto se riguadagnerà il proprio rapporto originario con la Grecia, al di qua delle deviazioni che ne hanno compromesso lo sviluppo, il pensiero europeo ritroverà il proprio primato sulle altre culture compiendo l’opera di civilizzazione cui è da sempre destinato. Che la parola d’ordine intorno alla quale questi autori si concentrano sia «spirito», «essere» o «ego trascendentale» non muta i tratti di fondo del dispositivo della crisi che domina la grande riflessione filosofica europea fino all’inizio degli anni Quaranta.
L’esito della guerra non soltanto segna il fallimento di tale progetto, ma costringe il pensiero europeo, sfibrato dalla ricerca senza esito di un’origine introvabile, ad uscire da sé per reinventarsi lungo altre traiettorie. La migrazione dell’intera intelligenza ebrea-tedesca negli Stati Uniti al montare del nazismo costituisce l’occasione drammatica di questo esodo, aprendo un primo varco verso l’esterno che sembra ridare fiato alla filosofia europea. Esso non solo la libera dal dispositivo regressivo della crisi, ma costruisce la condizione per una rinascita che in alcuni casi ne rilancia il protagonismo su scala mondiale. Nonostante che per i filosofi della Scuola di Francoforte si usi comunemente la denominazione di «teoria critica», essi mantengono, soprattutto da parte di Adorno e Marcuse, un lessico strettamente filosofico. È vero che, secondo il progetto dell’Istituto, la filosofia deve fondersi con altri linguaggi – dalla sociologia alla psicoanalisi, all’estetica. Ma tutt’altro che limitarsi ad mimarne le procedure, immette in essi una dimensione teoretica che, contestandone la pretesa di autonomia, li pone in contraddizione con se stessi. È perciò che – senza conferire all’espressione alcun accento nazionale, anche perché si tratta soprattutto di intellettuali di matrice ebraica – è possibile definire questo primo spostamento del pensiero europeo fuori dalle sue frontiere con il termine di German Philosophy.
Se si pensa alla straordinaria influenza esercitata, soprattutto da Marcuse, ma anche da Adorno e Horkheimer, sulla cultura politica del tempo (nonostante il difficile rapporto di questi ultimi col Movimento studentesco), si può ben dire che il passaggio americano abbia avuto l’effetto di restituire nuovo respiro alla filosofia europea. Non va sottovalutata la novità contenuta in tale evento. Forse per la prima volta nella storia moderna l’espansione di una data filosofia è stata direttamente proporzionale alla sua deterritorializzazione. Non solo il distacco dalla propria terra d’origine non ha prodotto le conseguenze di depotenziamento diagnosticate da Heidegger e dai filosofi della crisi, ma ne ha determinato una formidabile espansione. Come sosterranno più tardi Deleuze e Guattari, inaugurando il loro discorso sulla «geofilosofia», non si tratta di un dato contingente, ma di un elemento strutturale del linguaggio filosofico: la deviazione verso l’esterno non è solo un dato storico-geografico, ma un tratto strutturale del discorso filosofico: solo uscendo da se stesso, prendendo congedo dalla propria (pretesa) matrice, il pensiero trova la carica necessaria per rinnovarsi in profondità.
Il secondo passaggio per il «fuori» è quello effettuato, agli inizi degli anni Settanta, dalla cosiddetta French Theory. In questo caso si è trattato di un movimento spontaneo, non determinato, come nel caso della diaspora tedesca, da eventi traumatici, e perciò privo di ogni risonanza tragica. Essa ha riguardato una serie di intellettuali già molto noti nel loro Paese e in genere in Europa – e proprio per questo invitati ad insegnare nei campus americani. Eppure anche in questo caso, ancora più che in quello precedente, la contaminazione che ne è derivata ha prodotto una diffusione del loro pensiero che ha assunto il carattere di una vera e propria egemonia in tutta una serie di discipline che vanno dalla critica letteraria agli studi di genere, a quelli postcoloniali. Certo, come è stato sostenuto, quella che è stata percepita aldilà dell’Atlantico non è la «vera» filosofia di Derrida, Deleuze, Lyotard, Foucault, Baudrillard, ma un amalgama in cui pezzi del loro pensiero sono fusi in una nuova miscela che ha assunto il nome polivalente di «theory». Essa rispondeva alle esigenze di rinnovamento delle Humanities praticate nelle Università americane. Sta di fatto che proprio a tale fenomeno di ibridazione va fatto risalire lo straordinario rilancio della filosofia francese nel resto del mondo: quanto avveniva a New York, come a Chicago e a Los Angeles, si riproduceva a macchia d’olio non solo in tutti gli States, ma anche a Tokyo e a Toronto, a Buenos Aires e a Sidney. Ancora una volta un passaggio per il fuori ricreava le condizioni per un’inaspettata espansione della riflessione filosofica europea, riattivando un primato che questa temeva di aver perduto per sempre. Mai come allora un manipolo di filosofi europei, divenuti vere star anche nel sistema mediatico d’oltreoceano, aveva influenzato un territorio altrettanto vasto precisamente attraverso un’operazione di deterritorializzazione rispetto al proprio Paese d’origine.
È possibile riconoscere – per venire alla domanda al centro del nostro incontro – dopo la German Philosophy e la French Theory, un Italian Thought? È la domanda da cui nasce questo convegno e che ormai circola con insistenza non solo in Italia. La risposta non può che essere estremamente prudente. In questo caso non si può parlare certo di egemonia e neanche di una dislocazione materiale – ma del fatto che il successo, in qualche caso clamoroso, di alcuni filosofi italiani è avvenuto in America prima che in Italia e di lì, ancora una volta, si è trasmesso in altri Paesi. Si tratta di un processo allo stato nascente, e per ora meno identificabile di quelli che l’hanno preceduto, anche per la diversità, a volte marcata, dei cantieri di ricerca aperti dai filosofi italiani più conosciuti all’estero. Eppure è innegabile che da qualche anno una «differenza italiana», anche se in maniera latente, si vada delineando, come prova il numero crescente di convegni, libri, saggi ad essa dedicati.
Intanto una prima osservazione per quanto riguarda il nome – quel thought che prende il posto della philosophy tedesca e della theory francese. Nel libro che ho dedicato alla filosofia italiana, intitolato Pensiero vivente (2010), ho dato a tale termine un significato performativo. Performativo, sia nel senso del rapporto tra teoria e prassi che caratterizza il pensiero italiano fin dalle origini – un pensiero della prassi e, insieme, una pratica di pensiero. Sia in quello che la sua identificazione – compresa quella qui tentata – è parte integrante di esso. Piuttosto che in seguito a teorizzazioni preliminari, è come se esso si costituisse nel suo stesso farsi. Il pensiero italiano non si genera, come la Scuola di Francoforte, dal programma di un Istituto e neanche dalle teorie complesse che, a ridosso della stagione strutturalista, hanno caratterizzato i primi testi degli autori francesi. Esso è nato nelle dinamiche politiche dei primi anni Sessanta in Italia – solo successivamente e non sempre confluite nel più largo flusso del movimento studentesco internazionale. In questo modo la prassi ha preceduto la teoria, interagendo con essa secondo un’ulteriore connotazione del «fuori» – non tanto riferito a una dislocazione geografica o alla creazione di nuovi comparti disciplinari, quanto piuttosto alla dimensione del «politico». Il «fuori» che mobilita l’Italian Thought non è né il «sociale» dei tedeschi né il «testo» dei francesi, ma lo spazio costitutivamente conflittuale della prassi politica.
È una caratteristica, questa, che si può ben definire di lungo periodo, legata alla storia originaria degli intellettuali italiani fin dagli albori del mondo moderno. La mancanza della mediazione di uno Stato unitario li ha situati fin da subito a ridosso del potere politico locale e di quello ecclesiastico, in una condizione ambivalente e spesso contrastiva verso di esso. Fuori da questa particolarissima condizione non si capirebbe il destino politico di autori esiliati come Dante e Machiavelli, bruciati come Bruno e Vanini, costretti all’abiura o alla prigione come Galilei e Campanella, morti ai lati opposti della stessa linea come Gramsci e Gentile. Quasi a dimostrazione del fatto che se, come è stato detto, il potere genera resistenza, in determinate condizioni ciò vale ancora di più per la filosofia. Quella italiana è stata sicuramente più una filosofia della resistenza che del potere. Non è un caso se ad essere tornato al centro degli studi in tutto il mondo è Gramsci e se il nucleo germinale dell’Italian Thought è l’operaismo italiano degli anni Sessanta nelle sue varie anime.
Un ulteriore elemento tipico del pensiero italiano è costituito dalla sua tendenza alla contaminazione con altri paradigmi. È un altro modo di praticare l’esteriorità come forma, e anche contenuto, del pensiero. Anche in questo caso si tratta di una caratteristica di lungo corso. Gli autori italiani sono da sempre disponibili alla rielaborazione originale di lessici filosofici provenienti da altri Paesi. La deterritorializzazione dei filosofi e delle opere italiane non nasce né da una necessità, come per i tedeschi, né da una richiesta delle Università americane, come per i francesi, ma da un’attitudine all’ibridazione che si può far risalire al Rinascimento. Ciò in entrambi i sensi – dall’Italia all’estero e dall’estero all’Italia – secondo un costume che ha coinvolto l’intera cultura europea tra Quattro e Cinquecento. Qualcosa di questa tendenza è rimasta tuttora. La presenza di lemmi tedeschi e francesi negli esponenti dell’Italian Thought è tanto intensa da scioglierli da ogni identificazione nazionale, senza per questo cancellare un rapporto particolare con la lingua filosofica di Dante e Bruno, di Vico e Leopardi.
Ma a caratterizzare il pensiero italiano non è solo l’intreccio con la prassi – la sua anima politica – o il contagio con altre tradizioni. È da un lato l’asse categoriale prevalente, dall’altro la modalità peculiare con cui è assunto. Quanto al primo, basta un semplice confronto con le altre culture filosofiche per individuarlo. Se l’ambito d’intervento prescelto della scuola di Francoforte è stato il mutamento socioculturale, mentre quello della decostruzione francese la scrittura, l’orizzonte semantico del pensiero italiano è la categoria di vita. Non penso solo alla biopolitica – che pure in Italia ha trovato quella qualità interpretativa che le pionieristiche ricerche di Foucault negli anni Settanta non hanno prodotto altrove. Penso a una presenza anche qui di più lungo periodo, che si può far risalire alle fonti – da Machiavelli, a Leonardo, a Bruno. Questo è il motivo per il quale in Italia non c’è stato bisogno di una specifica filosofia della vita – come quella diffusa in Germania e in Francia nei primi decenni del Novecento. Si può dire che tutto il pensiero italiano sia stato un pensiero della vita nella sua tensione con la politica e la storia. La nostra non è stata né una filosofia della coscienza, come quella classica francese, né una elaborazione metafisica come la tedesca. Ma non è stata neanche una filosofia della logica e del linguaggio, come nei Paesi anglosassoni. Non è stata un’analitica dell’interiorità, della trascendenza, delle strutture logico-linguistiche, ma un sapere della vita, del corpo e del mondo.
Anche per quanto riguarda la declinazione dell’Italian Thought, la si può ricavare dal confronto con la German Philosophy e la French Theory. La modalità tipica della Scuola di Francoforte è stata quella della negazione. Da questo punto di vista la Dialettica negativa di Adorno non costituisce soltanto l’opera di punta della German Philosophy, ma anche la sua chiave di lettura generale. Rispetto al dispositivo teleologico della crisi, Adorno non solo elabora una posizione radicalmente negativa, ma la contrappone alla dialettica in cui Hegel imprigionava la negazione, condizionandola ad un esito risolutivo. Adorno, confrontando la negazione solo a se stessa, ne fa non solo la forma, ma anche il contenuto del concetto, precludendone ogni approdo positivo. Sia pure in maniera diversa Horckheimer arriva alle stesse conclusioni: la potenza critica del negativo è tanto acuta da rivolgersi contro la stessa teoria che l’attiva, negandone ogni esito affermativo. Quella aperta a Francoforte è una lotta del concetto contro se stesso tanto inesorabile da condurlo all’autocontraddizione. Si tratta, per Adorno, di una conseguenza non subìta, ma in certo senso teorizzata come l’unica opzione possibile per la filosofia dopo Auschwitz. Il che non cancella l’impressione di un blocco teoretico oltre il quale, dentro quella modalità di pensiero, non è possibile procedere ulteriormente.
Se la categoria modale della German Philosophy è il negativo, quella della French Theory è il neutro. Come è noto, il neutro è una categoria usata da Blanchot e ripresa, in forma diversa, da Derrida e da Foucault in un modo che esplicitamente rimanda ad un pensiero del «fuori». Ma neutrale – perché non orientata né all’uno né all’altro, sospesa tra il sì e il no, e anzi collocata nel punto del loro incrocio, è l’intera decostruzione. Da qui la sua distanza sia dal paradigma di crisi sia da quello di critica. Lo stesso programma di decostruzione della metafisica, come è elaborato da Derrida, piuttosto che negarne il meccanismo escludente, tende a sospenderlo applicandolo anche a se stessa in un movimento autodissolutivo. E ciò non perché la French Theory – in nessuno dei suoi pensatori maggiori – aderisca all’esistente, da cui assume sempre le più nette distanze. Ma perché tale distanziamento, distanziandosi anche da se stesso, assuma un profilo autoironico che, a un certo punto, inibisce ogni presa di posizione, negativa o affermativa che sia. Perfino il movimento della differenza, in tutte le modalità con cui il termine è stato declinato da Derrida, Deleuze e Lyotard, coincide con il suo apparente contrario – con la ripetizione. Così come il molteplice di Deleuze può essere letto, per esempio da parte di Badiou, addirittura nei termini di una metafisica dell’Uno.
Se l’esito della German Philosophy è la negazione e quello della French Theory la neutralizzazione, si può avanzare l’ipotesi che la tonalità prevalente dell’Italian Thought sia l’affermazione. Naturalmente per «pensiero affermativo» si possono intendere cose assai diverse. Il significato cui alludo rimanda a una filosofia dell'immanenza che naturalmente va ben aldilà della filosofia italiana, per coinvolgere una linea di pensiero che congiunge Spinoza a Nietzsche, Bergson, Deleuze. Senza sottovalutare le loro differenze, anche assai marcate, si può dire nel complesso che lo sforzo prevalente dei filosofi italiani sia stato quello di pensare non in modo reattivo, ma attivo, produttivo, affermativo. Perfino la biopolitica italiana è stata elaborata in una forma che non ne esclude una declinazione affermativa. Certo, si può discutere il senso e gli esiti di questa affermazione, ma resta la direzione di insieme che essa indica. Quale? Cosa afferma, nel suo insieme, la filosofia italiana? La tesi che mi sentirei di avanzare è che essa affermi la critica della teologia politica. Tale critica sta nelle corde del pensiero italiano classico – lungo una tradizione laica che lega i pensieri di Machiavelli, Bruno, Genovesi, Leopardi. Anche la biopolitica è oggi pensata in Italia nel rovescio della teologia politica.
Naturalmente ciò presuppone un interesse diffuso per tale categoria. È un dato di fatto che gran parte degli esponenti dell’Italian Thought – da Tronti a Cacciari ad Agamben – hanno, pur se con prospettive diverse, riflettuto sulla relazione tra teologia e politica. Ad essa rimandano anche le teorie della secolarizzazione elaborate negli anni Ottanta e Novanta da Marramao e Vattimo. Come, per altri versi, l’opposizione della linea Machiavelli-Spinoza-Marx a quella Hobbes-Kant-Hegel, delineata da Negri già negli anni Settanta. È, per tornare a quanto si diceva, lo sforzo di sottrarre il politico sia alla semantica tedesca della negazione che a quella, francese, della neutralizzazione. Ovviamente per cogliere fino in fondo il senso di quanto sostengo, bisognerebbe indicare cosa si intenda per teologia politica. Come è noto, di essa si sono date, nel dibattito novecentesco, definizioni diverse e anche opposte – dalla legittimazione religiosa del potere all’uso politico della teologia; dalla provenienza delle categorie politiche da quelle teologiche alla derivazione, inversa, del religioso dal politico. Personalmente, in Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero (2013), ho ricondotto la teologia politica a qualcosa di più di un semplice concetto, vale a dire a un dispositivo di lunghissimo periodo i cui effetti perdurano ancora oggi. Richiamandomi a Heidegger e a Foucault, ho individuato nella teologia politica una sorta di macchina che funziona separando la nostra vita da se stessa, sia nel senso della negazione che in quello della trascendenza. Essa, nata dall’incrocio tra teologia cristiana e diritto romano, si presenta, nel corso del tempo, in forme diverse, ma tutte riconducibili a un dispositivo di inclusione escludente. Come indica lo stesso lemma «teologia politica» – si tratta dell’unificazione in una stessa categoria di due elementi contrastanti, impegnati nella reciproca esclusione o sottomissione. Se ci facciamo caso, tutti gli universali dell’Occidente – compresa l’idea di Occidente, espressiva di una parte che si vuole tutto –, riproducono ossessivamente questa struttura antinomica. Il fatto che essa non smetta mai di funzionare significa che non si tratta né di un evento né di una ideologia, ma del modo stesso in cui è pensato l’ordine nel mondo occidentale. Teologia politica va intesa come la forma ricorrente attraverso la quale un Due tende a farsi Uno escludendo, o emarginando, l’altra sua parte.
La lunga lotta della Chiesa, prima con l’Impero e poi con gli Stati nazionali, né costituisce solo l’espressione più palese, ma tutt’altro che unica. Cosa è, del resto, la globalizzazione se non l’unificazione del mondo lungo le linee di separazione in zone inconfrontabili per risorse e potenza militare. Allo stesso meccanismo escludente si può ricondurre l’attuale relazione tra politica ed economia, a sua volta governata in maniera solo apparentemente oggettiva dalla tecnica. Ciascuna di esse tende a catturare l’altra dentro i propri dispositivi, depotenziandola. Ma ciò che conta, sul piano strutturale, è la loro connessione polemica, originata dalla comune matrice teologica. Giorgio Agamben ha sostenuto che dalla teologia cristiana sono emersi due paradigmi distinti e complementari alla cui confluenza si produce il governo delle nostre società: e cioè la teologia politica del potere sovrano e la teologia economica del governo amministrativo. Ma la prevalenza che il secondo pare avere realizzato sul primo non deve ingannare. Anziché segnare la fine della teologia politica, essa la porta al suo culmine, alimentando sempre più la macchina dell’inclusione escludente.
Se così è, se l’attuale teologia economica non è che una piega della teologia politica, a sua volta interna all’orizzonte metafisico, io credo che il compito del pensiero sia quello di cercare di affacciarsi sul suo esterno – sapendo che ciò è tutt’altro che facile, dal momento che il nostro linguaggio concettuale coincide in larga misura e da troppo tempo con quello teologico-politico per potersene rapidamente liberare. Le stesse categorie di «secolarizzazione» e «profanazione», che pure sembrano contrastarlo, nascono all’interno di esso, nel suo rovescio. Perfino il concetto di ateismo, che sembra espandersi a vista d’occhio nel mondo occidentale, non è enunciabile se non a partire dal quella idea di Dio che pure rinnega. Detto questo, il tentativo di fuoriuscita dalla teologia politica resta al cuore della filosofia contemporanea. Io credo che il pensiero italiano abbia avuto, e possa avere, un ruolo di rilievo in questa ricerca, dal momento che, come si è visto, è appunto un pensiero del fuori, da sempre orientato all’esterno, antitetico all’interiorità, alla trascendenza, alla separazione. Naturalmente ogni autore può interpretare tale scarto in modo diverso. Ma si può dire che tutte le principali categorie italiane vadano in questa direzione.
In particolare tre di esse, su cui mi soffermo brevemente, nella loro tensione con ciò che le definisce per contrasto – e cioè la categoria di “comune” opposta a quella di “immune”, la categoria di “potenza” opposta a quella di “potere” e la categoria di “conflitto” opposta a quella di “neutralizzazione”. Partiamo dalla prima. Già negli anni Ottanta si è aperta in Italia una ricerca teoretica su un paradigma di comunità radicalmente decostruttivo delle modalità metafisiche con cui tale concetto era stato adoperato in precedenza – prima dalla sociologia tedesca della Gemeinschaft, poi dalle varie etiche della comunicazione e infine dal neocomunitarismo americano. Vero è che tale prospettiva è stata anticipata in Francia da pensatori come Blanchot e Nancy. Ma ciò che qualifica il pensiero italiano sulla comunità, conferendogli una tonalità politica, e anzi più precisamente biopolitica, assente nella decostruzione francese, è il contrasto con la nozione di immunità, anch’essa derivata, in forma negativa, dal termine latino munus, che ha il significato di legge del dono reciproco. Se communitas è ciò che lega i suoi membri in un impegno donativo dell’uno nei confronti dell’altro, l’immunitas è il dispositivo che esonera da questo onere. Ciò vale sul piano giuridico, secondo il quale è dotato di immunità chi non è soggetto alla giustizia comune. Ma anche nell’accezione medica o biologica, in base alla quale è immune l’organismo capace di resistere a un’infezione venuta dall’esterno.
Sovrapponendo le due semantiche – giuridica e biologica – si entra naturalmente nel campo di quella biopolitica al quale la nozione, puramente decostruttiva, di comunità «inoperosa» o «inconfessabile» non può immettere. Nel momento in cui un dispositivo immunitario sempre più invadente diviene la sindrome del nostro tempo, l’idea, e la pratica, di comunità diventa la forma politica di resistenza ad esso. Il problema va affrontato a doppio livello: quello della disattivazione degli apparati di immunizzazione e quello dell’attivazione di nuovi spazi comuni. Da questo punto di vista la riflessione, aperta prima che altrove in Italia, sul beni comuni e sul comune come bene di tutti, ha spostato in senso ancora più politico il discorso sulla comunità. Con la globalizzazione la tendenza moderna di riduzione del comune da un lato al pubblico e dall’altro al privato sembra pervenire al suo culmine. Ciò assume ancora più rilievo quando, nell’attuale regime biopolitico, ogni bene, materiale e immateriale, viene a riguardare il corpo umano, includendo in esso anche le risorse naturali del linguaggio e dell’intelligenza. Ora è proprio su questo terreno che va posta la questione della biopolitica affermativa. Essa deve rompere la tenaglia tra pubblico e privato che rischia di stritolare il comune. E infatti nella pratica del pensiero italiano la lotta contro la privatizzazione dell’acqua, della terra, dell’aria si incrocia con la teoria di un intelletto comune, lungo un percorso che da Averroè arriva al general intellect di Marx. La critica alla categoria giuridica di persona, centrale nel dispositivo teologico-politico, a favore di un pensiero dell’impersonale si riconnette alla stessa opzione.
La seconda categoria che, lungo itinerari diversi, unifica il pensiero italiano è quella di «potenza». Essa va pensata in autonomia, se non in contrasto, da un lato con quella di «atto» e dall’altro con quella di «potere». Che si riferisca al pensiero o ad una forma di soggettività molteplice, essa è comunque interna alla biopolitica affermativa cui abbiamo già fatto più di un cenno. Come già per il comune nei confronti dell’immune e del proprio, anche la categoria di potenza assume senso a partire dai suoi due poli di contrasto. Si conosce l’antitesi che, nella tradizione aristotelica, lega dialetticamente la potenza all’atto: in potenza è ciò che non è ancora in atto – anche se è proprio la necessità di tale passaggio dalla potenza all’atto che viene contestata dal pensiero italiano a favore di una potenza inattuata, non destinata di necessità all’attivazione e non risolta in essa.
Ma la categoria di potenza ha altri due antonimi. Che sono da un lato la necessità e dall’altro il potere. In quanto possibilità, la potenza si situa nel polo opposto a quello della necessità. Il possibile è ciò che può essere altrimenti. Che può anche non essere. E che dunque non è necessario, come invece si tende spesso a ritenere secondo una amara filosofia della necessità. Si pensi a come oggi, nelle attuali politiche governative, si ci faccia scudo di vincoli infrangibili e dunque indiscutibili, come già Benjamin coglieva parlando di “capitalismo come religione”. Ebbene la categoria di «possibile» – intesa nella sua valenza creativa, inventiva, innovativa – è appunto ciò che si oppone a tale teologia economica, contestandone i presupposti metafisici. Da questo stesso lato incrociamo l’altra polarità contraria alla potenza, vale a dire una nozione chiusa ed escludente di potere. Potenza – che sia del pensiero o di una moltitudine – è ciò che forza dall’interno il potere dell’esistente. Se pensata in relazione all’espansione della vita, si tratta anche qui di biopolitica affermativa. La stessa contrapposizione tra potere costituente e potere costituito, teorizzata appunto nel pensiero italiano e in particolare da Negri, fa capo alla semantica della potenza, come capacità creativa di istituire qualcosa che non può mai bloccarsi in maniera definitiva senza perdere la sua energia vitale. Prima ancora che al dibattito contemporaneo, tale potenza energetica rimanda al classico da cui nasce il pensiero politico italiano. Alludo naturalmente a Machiavelli. Quando si dice che egli non è, come Hobbes, un pensatore dello «Stato», si deve intendere che egli pensa il politico nel suo divenire – dunque come ciò che non è mai solo «stato», che non «sta» se insieme non diviene.
Veniamo così all’ultima, e più politica, figura dell’Italian Thought, vale a dire al paradigma di conflitto. Perché la potenza possa, se non scardinare, quantomeno fronteggiare, il potere, deve presupporre la possibilità del conflitto con chi di volta in volta lo detiene. Come è noto, è precisamente questa la novità dirompente che Machiavelli insedia all’origine del pensiero politico, ma anche del pensiero italiano. Il carattere specifico della sua biopolitica costitutiva, tesa alla creazione di un potere costituente, è precisamente l’idea rivoluzionaria che l’ordine non esclude di per sé, ma include, il conflitto. Che senza conflitto – nel significato politico, e non bellico, del termine – l’ordine è destinato a inaridirsi e poi a spegnersi. Che il vero nemico della potenza non è il conflitto, ma la neutralizzazione. Senza volere allineare concezioni troppo lontane per essere paragonabili, resta un dato di fatto che l’operaismo italiano degli anni Sessanta riprende questa tesi, traducendola nella prassi politica. Che il punto di vista operaio sia diverso da quello del capitale – così come, nel pensiero femminile, lo sguardo della donna è differente da quello del maschio – situa la semantica del conflitto nel momento genetico dell’Italian Thought. Anche da questo lato il riferimento corre alla critica della teologia politica – cui ho riportato il senso complessivo del pensiero italiano. Se la macchina teologico-politica non fa che ridurre il Due all’Uno attraverso l’esclusione di una delle parti, la filosofia italiana rivendica la necessità del Due nell’orizzonte della politica. Anche per questo, soprattutto per questo, passa la differenza italiana.
* Intervento presentato al convegno internazionale: L’Italian Theory existe-t-elle?/Does Italian Theory exist?, Université Paris Ouest Nanterre La Défense/Université Paris-Sorbonne, 24-25 gennaio 2014. È stato pubblicato nel volume Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti (DeriveApprodi, Roma 2015). Sarà pubblicato in traduzione francese in S. Contarini – D. Luglio (a cura di), L’Italian Theory existe-t-elle?, Mimesis, Parigi 2015.
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