Dico subito che non sono interessato a generiche lamentele, motivate ma inutili, sul sempre minor sostegno alla cultura e men che mai a polemiche piccole su questo o quest'altro nome. Vorrei andare un poco più in là.
Vi è qualcos'altro che mi sta particolarmente a cuore, e dal quale a mio parere discende la maggior parte dei malesseri di cui soffrono la diffusione e la fruizione musicale in Italia: la musica non è mai stata considerata parte integrante e fondamentale della crescita umana, culturale ed espressiva dell'individuo. Lo studio della musica, o il semplice approccio ad essa, sono assenti nei due momenti decisivi dello sviluppo della persona, e cioè nella fascia di età dai 4 ai 10 anni, laddove sarebbe possibile un approccio naturale al suono, alle sue potenzialità, un approccio ancora libero dalle banalizzanti sovrastrutture imposte dai mass media e dal pensiero corrente, un approccio che potrebbe essere fisico, ludico, non imbrigliato in categorie. Laddove si prova a fare questo è noto che i risultati sono straordinari: la libertà dei bambini, che possono giocare senza scandalizzarsi con il suono ed il rumore, con il timbro e con il ritmo, è straordinaria.
Dall'altra parte, non solo lo studio della storia della musica, ma anche il semplice ascolto del “suono della storia” è totalmente assente dai programmi delle scuole medie superiori: cioè, così come non si ritiene importante per lo sviluppo delle potenzialità espressive dell'individuo l'approccio al suono in tenerissima età, allo stesso modo non si è ancora ammessa la musica nel Tempio della Cultura, giudicando quindi ininfluente per la crescita dell'individuo la conoscenza dei percorsi storici del pensiero musicale quantomeno europeo.
Uno studente di un Liceo Classico legge testi da Cielo d'Alcamo a Pasolini, vede e studia quadri da Cimabue a Picasso: perché non dovrebbe anche ascoltare musica da Francesco Landino a Berio?
Ancor più: perché non è messo in condizione di collegare le cose, e di associare ad un sonetto del Poliziano e a un quadro di Piero della Francesca il suono di un mottetto di Josquin Desprez?
Come è possibile che a tutt'oggi si possa portare il Romanticismo alla maturità classica senza conoscere il nome e una nota di Robert Schumann? O, visto che siamo in Italia, senza aver visto e sentito un'opera di Giuseppe Verdi, che dovrebbe essere notoriamente importante sia per conoscere il Romanticismo italiano (non meno di Manzoni) sia il nostro Risorgimento?
Come non accorgersi che si tratta di una mostruosa concezione che affonda le sue radici nel pregiudizio antico secondo il quale la musica non è cultura né pensiero, ma semplice intrattenimento?
In tutti i licei vi è una materia che si chiama Storia dell'Arte, con l'articolo determinativo e la a maiuscola, e che si riferisce alle arti figurative come se esse avessero il monopolio della definizione di arte: e la musica che cos'è? È possibile che ancora non si accetti l'idea che la musica sia una forma altissima e profondissima di pensiero ed espressione, in grado di sondare gli abissi dell'animo e della psiche umana e di trasformarli in opere complesse e potenti, la cui conoscenza è fondamentale per l'approfondimento dell'essere umano?
A volte mi sento dire con sconforto che non si vedono giovani nelle sale da concerto e nei teatri. Io ribatto immediatamente che al contrario il mio stupore viene dal fatto di constatare ogni volta che malgrado tutto qualcuno ce n'è, di giovane: come ha fatto ad esserci, se nessuno a scuola gli ha mai detto, se non nelle desolanti ore di musica alle medie, che Verdi e Schumann sono esistiti?
Ma forse io sono ingenuo: vi una grande industria dell'intrattenimento, un'industria mediatica che spadroneggia nei mezzi di comunicazione di massa, che un tempo si chiamavano solo radio e televisione e che ora sono stati scavalcati a livello giovanile dal web, che ha travolto al di là di ogni buon senso i valori e gli spessori del pensiero musicale convincendo la coscienza collettiva del fatto che le canzoni da Festival di Sanremo o quelle di musicisti rock di livello appena leggermente superiore costituiscono “la grande musica d'oggi”, un'industria che è ben contenta (anzi grande sostenitrice) del vuoto pneumatico che vi è nella stessa coscienza collettiva per quanto riguarda la cultura musicale. L'aggettivo “grande” ha completato l'opera: fino a non molti anni fa, la stessa musica veniva definita “leggera”, quello che di fatto è, mentre ora, chiamandola “grande”, si completa un malefico sillogismo: Mozart e Beethoven erano i grandi musicisti di ieri, x e y, che riempiono gli stadi, sono i grandi musicisti di oggi, io sono vivo oggi, quindi la mia grande musica è quella di x e y. E persino Beethoven diviene un perdente.
Come si vede, pur essendo io un compositore, non ho nemmeno nominato, finora, la cosiddetta “musica contemporanea”, o “musica colta contemporanea”.
Non l'ho nominata perché non la considero un genere a sé, bensì la semplice prosecuzione della grande tradizione del pensiero musicale occidentale, che senza soluzione di continuità ci ha proposto Machaut, Palestrina, Pergolesi, Bach, Haydn, via via fino a Debussy, Ravel, Berg, Stravinskij e poi ancora Maderna, Ligeti, Berio, Kurtag fino agli attuali compositori giovani e meno giovani. Alcuni di loro lasceranno una traccia potente, la maggior parte no, come è sempre successo.
Quello che è certo è che la loro musica è espressione profonda e complessa dell'uomo, creatura che sa essere anche profonda e complessa, e quindi la loro fruizione non può essere ridotta a intrattenimento ed è quindi destinata ad un pubblico numericamente inferiore, è inutile negarselo.
E non si tratta di snobismo, perché l'elemento discriminante è l'amore per la musica come espressione profonda e sfaccettata dell'essere umano.
Quindi ciò significa che per me “tutto va bene così”? Ma nemmeno per sogno.
Qualora si riconoscesse il valore della musica come espressione e come pensiero, qualora si educasse alla musica si scoprirebbe che Schumann, Stravinskij come Ligeti e Maderna possono dare molto a molti esseri umani, quantomeno gli stessi che amano leggere Hugo o la Yourcenar, Heine o Mario Luzi. E si scoprirebbe che c'è spazio, ma in par condicio mediatica, cosa oggi certo assente, per l'intrattenimento spesso ben fatto di un gruppo rock quanto per l'ascolto di una Sinfonia di Mahler, ma su piani differenti dello spessore dell'uomo.
E ci si accorgerebbe, e qui va tutto il mio rammarico, al limite della rabbia, che molti lavori composti nei nostri giorni da autori della mia generazione o ancor più giovani potrebbero essere ascoltati e potrebbero arricchire tutti coloro che vogliano semplicemente “tenere le orecchie aperte” ed accogliere un messaggio anche se un poco complesso.
Che fare, dunque?
Continuare a credere nella musica, continuare, per me che faccio il compositore, a comporre con passione e dedizione assoluta, nella convinzione di avere, sia pure in tutta umiltà, una parola nuova da dire, una parola consapevole del mio essere uomo nato nella seconda metà del XX secolo, con un'immensa tradizione di pensiero ed espressione musicale sulle spalle, e tutt'intorno una ricchissima gamma di possibilità musicali nuove ed antiche al tempo stesso.
Ed insieme lavorare senza scoraggiarsi per allargare la diffusione della musica “d'arte”, mi si passi l'espressione, combattendo ciascuno negli ambiti in cui si ritrova ad essere.
Le orecchie aperte non mancheranno mai. E forse aumenteranno di numero.