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Intellettuali e potere

Angelo d’Orsi

Il rapporto intellettuali/potere si può declinare lungo tre direttrici: 1) il peso, di varia natura, e spesso la fascinazione, che il potere – inteso come il potere dei poteri, ossia quello politico, ma anche il potere economico, e infine il quarto potere, il potere dei media – esercita sugli intellettuali; 2) il potere che gli intellettuali, in quanto tali, ossia svolgendo le proprie attività, esercitano (potere culturale, in genere); 3) il potere direttamente politico, o almeno mediatico – che ha assunto nel corso del secolo scorso una dimensione impensabile –, che gli intellettuali ambiscono, spesso, ad esercitare.
Se guardiamo alla storia degli intellettuali nel Novecento – chiamato, sovente, «il secolo degli intellettuali», prendendo come punto di partenza l’Affaire Dreyfus, negli anni Novanta dell’Ottocento –, non avremo soverchie difficoltà a scorgere, variamente incrociati, tali elementi, tutti connessi al tema decisivo del potere. In fondo, fin dalla loro prima espressione collettiva – l’automobilitazione per la difesa del capitano Alfred Dreyfus, nella Francia della fine XIX secolo, percorsa da forti tendenze antisemite – ci parla di una volontà di contare in quanto intellettuali, con una richiesta di trasformazione delle competenze tecniche in diritti politici, ossia la dichiarata aspirazione a diventare a tutti gli effetti personaggi pubblici. Che cosa dà ai firmatari di quello che fu poi chiamato Le manifeste des intellectuels (da Zola a tutti gli altri) la convinzione che la società francese abbia bisogno di ricevere dai chierici un indirizzo morale, o addirittura politico? Precisamente la loro riconosciuta, dichiarata, abilità nei rispettivi ambiti di lavoro: abilità di docenti, di artisti, di studiosi, di scienziati… In quanto tali, essi rivendicano il diritto di dire la loro, anche al di fuori di quegli ambiti, in quanto precisamente la lunga, faticosa acquisizione di quelle competenze, nella loro opinione, concederebbe diritti speciali, in particolare quello di uscire extra moenia, e di occuparsi anche delle cose di tutti, della cosa di tutti, la cosa pubblica.
Sarà probabilmente avendo a mente questo esordio, che poco più di mezzo secolo dopo Jean-Paul Sartre definirà l’intellettuale un uomo «che abbraccia intera la sua epoca» e, ancora più chiaramente, uno che non si fa gli affari suoi: ossia, si fa gli affari di tutti, della comunità; insomma, egli coltiva non soltanto il suo giardino, ma si occupa dei problemi della polis.
Al di là dello specifico, nobile scopo che la mobilitazione di scrittori, giornalisti, docenti ha nella Francia dell’Affaire, non v’è dubbio che essa apra la strada a quel protagonismo dei chierici che si esprimerà, in Francia, ma forse persino più vivacemente, in Italia, tra fine secolo e Prima Guerra mondiale. Sono scrittori che premono sugli editori, pubblicisti che si servono delle riviste e dei giornali per conquistarsi visibilità, sono artisti che praticano i salons, prevalentemente, sono scienziati che propongono una medicina, una zoologia, una fisica che abbia risvolti sociali e pubblici; tutti cominciano a sognare una diretta influenza su quella che ormai si va consolidando come pubblica opinione. Il culmine è segnato in Italia dall’ubbia del «partito intellettuale» dei vociani, un’idea che non mancherà di sedimentare, dai futuristi, se vogliamo, fino al Partito d’Azione, nella lotta contro il fascismo e nel primissimo post-fascismo, almeno nella concezione che ne avrà una sua cospicua parte. Intellettuali che vogliono contare di più, intellettuali che, riconoscendosi come gruppo sociale sganciato dalle classi di provenienza, ritengono di avere diritto non soltanto a riconoscimenti sociali ben più significativi di quelli cui erano avvezzi, tra mugugni e speranze, ma addirittura a svolgere un ruolo direttamente politico. L’antigiolittismo dei letterati si spiega in ragione di tale mancato riconoscimento. La richiesta di un potere diretto, o quanto meno di un riconoscimento adeguato, nasce dall’accresciuta influenza di scrittori, giornalisti, redattori editoriali, artisti, gente di spettacolo (teatro, cinema, musica…), professori universitari con una crescente trasformazione in addetti esterni dell’industria culturale in quella che va configurandosi ormai come una società di massa, con una conseguente cultura di massa.
Sarà la Grande Guerra, a livello sovranazionale, a rivelare, con le ambizioni dei chierici, le loro debolezze: il sogno della universale Repubblica delle Lettere cede rapidamente davanti alla chiamata alle armi, concreta o metaforica, tra il 1914 e il 1918. Agiscono come sirene non soltanto il nuovo potere, seduttivo, della incipiente società di massa, che fa salire le ambizioni di autori di libri dalle tirature inusitate (tutti voglion diventare un D’Annunzio, in Italia, un Barrès in Francia…), ma il potere delle ideologie fascinatrici – nazionalismo, imperialismo, colonialismo, bellicismo, superomismo… – che si accompagnano al passaggio abbastanza repentino di un’ampia quota di intellettuali da simpatie socialiste alla vicinanza a nuove ideologie e nascenti forze reazionarie. Il ruolo svolto dai nazionalisti francesi e italiani, fra gli anni Novanta del XIX e gli anni Dieci del XX, è significativo; si tratta di pattuglie di perlopiù giovani scrittori, pubblicisti, professori che si prodigano in un attivismo frenetico, tra conferenze e articoli, redazioni di periodici o di case editrici, percorrendo chilometri di strada, riempiendo migliaia di fogli. Una mobilitazione a carattere politico che passa attraverso il protagonismo dei chierici. Che vogliono il potere per se stessi e per le classi di riferimento, che sono i ceti borghesi, anche quando da essi fustigati, per la loro «arrendevolezza» dinnanzi alla marea montante del proletariato. Il grido di Enrico Corradini, nell’editoriale di uno degli incunaboli del nazionalismo italiano, «Il Regno» (novembre 1903), è emblematico: il loro vuol essere «un grido contro la viltà presente». E Marinetti, ancora più esplicitamente di quanto facciano e faranno i nazionalisti, invocherà, riprendendolo da Mario Morasso (a cui ruba anche il paragone con la Nike di Samotracia), l’aristocrazia dei creatori, degli scrittori, degli artisti. Il partito politico futurista, che compie alcuni tentativi di nascere, tra anteguerra e dopoguerra, si collocherà su questa direttrice. L’ambizione degli intellettuali a giungere direttamente al governo della nazione. O, quanto meno, a esercitare una forte influenza sul ceto politico, insufflandolo, dando ad esso direttive d’ordine generale, e, nel contempo, ispirandogli politiche di sostegno delle categorie intellettuali, attraverso strumenti come sindacati, commesse pubbliche, riconoscimenti di varia natura.
Lo scoppio della guerra, dunque, allinea i chierici; e le eccezioni sono davvero molto poche. La più luminosa è quella di Romain Rolland, che prova a teorizzare un uomo di cultura devoto esclusivamente alla verità, e dunque necessariamente, obbligatoriamente, estraneo alla canea nazionalistica, alla schiavitù delle «patrie». Lo scambio indecoroso di accuse tra letterati, artisti e scienziati è significativo di un fallimento; il potere ha allineato gli uomini di cultura e la patria transeunte – la nazione – ha sconfitto la patria perenne senza Stato né territorio: la verità, la ragione critica, la cosmopoli universale. Va segnalata, in Italia, l’azione diuturna di demistificazione della guerra svolta da un giovane giornalista, Antonio Gramsci, sulle pagine di giornali del Partito socialista, da quella Torino che nel dopoguerra gli parrà la sola città capace di diventare la Pietrogrado d’Italia. Demistificare significa anche demitizzare. Ossia rovesciare i rovesciamenti di verità che la costruzione ideologica e la giustificazione della guerra comporta: se la guerra si fonda sulla menzogna, il giornalismo di tipo nuovo proposto dal giovane Gramsci a Torino è una vera e propria strategia per la verità. In tal senso, il lavoro di Gramsci, come il grido di Rolland, costituiscono esempi di un ruolo dell’intellettuale che ne interpreta al meglio le funzioni critiche: l’intellettuale, che qualche tempo dopo, riprendendo in qualche modo Rolland, Julien Benda arriverà a definire sacerdos veritatis.
Che le voci di Rolland o di Gramsci siano, negli anni fra il ’14 e il ’18, inascoltate, è dimostrato appunto dal pamphlet che qualche anno più tardi un connazionale di Rolland, ma altresì suo concittadino della polis immateriale del Pensiero, il citato Benda, dà alle stampe. Si tratta di un vibrante J’accuse, quasi a mostrare la continuità, rispetto al grido di Zola del 1898, di quel ruolo di controllori critici del potere che gli intellettuali dovrebbero/vorrebbero svolgere, ma che, a differenza di allora, ora sembrano aver lasciato cadere: La trahison des clercs (1927) rimarrà fino ai nostri giorni l’atto d’accusa più efficace contro i «chierici traditori». Le seduzioni del potere appaiono più forti della difesa della libertà di pensiero, dell’indipendenza di giudizio, della dignità dell’uomo di cultura. Piegarsi alle ragioni della guerra – allora come oggi – risulta uno dei peggiori cedimenti che si possano fare al potere, una delle più gravi rinunce all’esercizio della ragione critica.
Il conflitto del ’14-18 è un tristissimo campionario in tal senso (il Journal di Rolland ne offre preziosa testimonianza) se, a distanza di una quindicina d’anni dal suo scoppio, Benda prova l’esigenza di ritornarci e di lanciare la sua dura reprimenda ai chierici. Si può dunque compromettere con il potere un intellettuale? Benda ci dice di no: sia che gli si voglia piegare, sia che ambisca ad esercitarne. Il solo potere lecito – questo sottotraccia il messaggio dello scrittore – è quello connesso direttamente all’esercizio degli strumenti intellettuali; il potere che nasce dalla cultura, che nondimeno, in versioni come quelle proposte per esempio dai futuristi, assume il grottesco sembiante del diritto degli «intelligenti», all’interno di ideologie super-elitiste, aristocraticistiche o decisamente superomistiche.
Sarà negli anni fra le due guerre, comunque, che soprattutto verranno al pettine i nodi: dopo l’entusiasmante stagione succeduta alla Rivoluzione d’Ottobre – quando cento fiori sbocciano e la cultura sembra davvero giungere a svolgere un ruolo-chiave nel grandioso processo di edificazione del primo Stato socialista della storia, se si eccettua la breve stagione della Comune – mentre nell’Urss presto orfana di Gorkij, con Lunacarskij defenestrato, si giungerà a imbavagliare la libera espressione delle idee e a tentare di governare autoritariamente (e poi, via via, sempre più tirannicamente) la creatività, si avvia sulla scena internazionale la grande restaurazione. Gli intellettuali si affermano come funzionari dei regimi fascisti, a cominciare dall’Italia mussoliniana e poi dalla Germania hitleriana, e quindi della Spagna franchista: ci sono anche gli intellettuali militanti, ossia coloro che aderiscono in base a una fede, a un credo; ma gli uni e gli altri, di fatto, si mescolano al potere politico, che li cattura in base alla consonanza ideologica, ma soprattutto grazie alle offerte di prebende, di occasioni di lavoro, di un’allettante proposta in termini di prestigio e di status. Affiora l’ambizione direttamente politica nei confronti del potere: un potere che li fa sentire in Italia, accanto al Duce, alla testa di un moto presentato come epocale di creazione della Terza Roma, in Germania protagonisti, col Führer, della nuova grandezza del Reich, in Spagna, al fianco del Caudillo, i nuovi Crociati chiamati a scacciare l’«Anticristo rosso». Nuove strutture culturali, in quello che almeno in Italia e in Germania è comunque un processo di modernizzazione, si realizzano, anche in ragione della volontà dei regimi totalitari di tradursi in pietra o, detto altrimenti, dell’aspirazione, di ciascun capo, di lasciare monumentum aere perennius: nel marmo, nel bronzo, ma anche nella carta; si pensi all’esempio nostrano dell’Enciclopedia Italiana fondata e diretta dall’intellettuale del fascismo per antonomasia, Giovanni Gentile.
L’atteggiamento dei collaboratori rispetto all’impresa gentiliana appare degno di rilievo: sono oltre 4000 i collaboratori reclutati, in base a un principio di eccellenza, e Gentile è studioso troppo attento, organizzatore troppo sagace, per non saper scegliere i migliori in ogni campo. Dei suoi interpellati, praticamente il solo che opporrà un no, sarà Benedetto Croce, ma soltanto perché ormai si è consumata, irrimediabile, la rottura personale fra i due ex amici e sodali. L’Enciclopedia nasce nel 1925, dunque nel momento in cui il fascismo al potere comincia a mostrare il suo volto feroce; è stato consumato l’omicidio Matteotti, del quale Mussolini si è assunta intera la responsabilità, con l’arroganza di chi sa di poter contare su alte protezioni (il re), nel momento in cui ha avviato la «seconda ondata». Dunque l’avvio dell’impresa culturale per eccellenza del regime è coevo all’avvio dell’edificazione politica del regime totalitario: ne è, anzi, parte integrante. Non è forse «Libro e moschetto» uno dei motti del tempo? Ma nessuno degli intellettuali è attraversato dal dubbio davanti alle proposte gentiliane, o esprimerà anche ex post una resipiscenza; tutti convinti, in sostanza, che il loro è un lavoro tecnico, che nulla ha a che fare con la politica. Ed è questo l’atteggiamento prevalente fra coloro che nelle università, nelle accademie, nei centri di ricerca, negli atelier, nelle case editrici, persino nei giornali, aderiscono al fascismo – o al nazismo – con una sostanziale tranquillità di spirito. Vivono dell’illusione – lo scriverà Cesare Pavese, che in fondo è uno di loro, pur non coinvolto nell’impresa gentiliana – che basti scavarsi una nicchia e accucciarvisi dentro, per aspettare di passare indenni il tempo della buriana. La cultura, il mestiere, come scudi e armature a difendere gli intellettuali dalle contaminazioni della politica. Una pia illusione, come fu un’altra illusione – spesso meno ingenua della prima – quella che l’adesione al regime totalitario, quale che esso fosse, sarebbe stata innocua, se limitata all’esteriorità: la teoria della maschera indossata per quieto vivere. Sarà Leone Ginzburg, uno dei pochi autentici eroi dell’antifascismo intellettuale europeo, a osservare che la maschera «troppo a lungo indossata si incolla sul volto». Nello stesso anno in cui si conclude la pubblicazione dell’opera ideata e diretta da Gentile (in ben 35 volumi), il 1937 – che è anche l’anno in cui il fascismo, con la creazione del Min.Cul.Pop., porta a compimento da una parte la cattura degli intellettuali, dall’altra lo sforzo (ovviamente non riuscito) di realizzare «l’italiano di Mussolini» – Antonio Gramsci muore, sostanzialmente ucciso dal regime mussoliniano, dopo oltre dieci anni di carcere duro. In prigione, in pagine destinate a essere sepolte con lui, e fortunosamente salvate, e palesatesi poi, nei cosiddetti Quaderni del carcere, come un autentico tesoro del pensiero, egli si conferma un intellettuale che riflette sugli intellettuali, lasciandoci intuizioni illuminanti, decisive per capirne il ruolo: ad esse chiunque oggi voglia studiare «la classe dei colti» deve necessariamente far riferimento. Altri due intellettuali, Carlo e Nello Rosselli, in quello stesso 1937, tre settimane più tardi la morte di Gramsci, vengono eliminati, a colpi di revolver e pugnale, dai sicari francesi del fascismo italiano.
Un monito, da queste morti, giunge davanti alla vera e propria voluttà di servire il regime mussoliniano: si pensi al plebiscito dei professori universitari con l’adesione alla nuova formula del giuramento di fedeltà al fascismo nel 1931; si pensi al silenzio complice nel 1938, con gli effetti delle leggi razziali. Gli intellettuali si piegano davanti al potere del vincitore, ormai compiutamente totalitario. Francesco Flora scriverà, in un memorabile articolo dell’agosto 1943, che se di servitù si era trattato, quella dei letterati italiani nel fascismo, piegati davanti al Duce, era stata «una servitù volontaria».
Un monito, dunque, si leva da quei pochi che si trovano in esilio, al confino, nelle galere, oppure ormai nella tomba: essi – i Gobetti, gli Amendola, i Gramsci, i Rosselli, i Salvemini…– sono gli sconfitti del loro tempo presente, essi saranno i vincitori del domani. Almeno così vogliamo credere e sovente affermiamo. Ma ne siamo sicuri? Siamo certi che la comunità solidale di intellettuali, operai, studenti, contadini e rivoluzionari di professione pensata dal giovane Gramsci sia un modello vincente nell’Italia o nell’Europa del secondo Novecento? Non lo sarà neppure l’intellettuale organicamente legato alla classe proletaria, che si pone al suo servizio per aiutarne l’emancipazione, in un processo di educazione reciproca. Il modello che sembra imporsi, anche doppiato il capo del 1945, se inizialmente è quello sartriano dell’intellectuel engagé (generalmente schierato a sinistra), secondo un trend che durerà, con alterne vicende, per un trentennio, in posizione sostanzialmente antagonistica nei confronti dei poteri costituiti – appelli, manifestazioni, libri impegnati, spettacoli portatori di «messaggi», riviste militanti etc. –, poi, doppiato il capo della Guerra del Vietnam e della «rivoluzione dei garofani» in Portogallo, dimenticata l’onda lunga del maggio ’68, davanti alle disillusioni e alle dissoluzioni, quel modello si perde quando non si rovescia. Negli anni Ottanta si passa dal disinganno al disimpegno. Si torna al «particulare». E gli intellettuali si distanziano dalla milizia delle idee, oppure si riavvicinano al soglio del potere costuito. Le loro ambizioni, sovente, non sono neppure politiche, ma puramente mercantili, sia pure nel senso più ampio: successo, successo, successo.
Ma è il loro ruolo sociale che va mutando. Da legislatori a interpreti, forse, per usare la formula di Baumann, efficace anche se discutibile. Da critici a obbedienti. Da militanti a televisivi. Di sicuro, la stragrande maggioranza tende a farsi, in modo via via più cosciente e addirittura a un certo momento esasperatamente sottolineato, protagonista di una cultura della presenza e, ancor più, dell’apparenza, affascinati tutti, complici e vittime, protagonisti o comparse, dal grande circo mediatico bollato con parole di fuoco da un Enzserberger. Invano, qualcuno – basti menzionare il nome di un individuo d’eccezione quale fu Edward Said o, su diverse posizioni, Norberto Bobbio – inviterà a rimanere fedeli al ruolo (che unisce in una linea di continuità ideale Rolland e Gramsci) di smascheratori della menzogna, di sentinelle dei cittadini – in specie di quelli più deboli socialmente – davanti a un esercizio del potere sempre più nascosto, sempre più incontrollato, sempre più invasivo. La gran massa di quelli che ormai sono operatori dell’informazione, tecnici dell’organizzazione culturale, strateghi del marketing et similia, è divenuta parte integrante del grande potere mediatico. Tutti pronti a (quasi) tutto per guadagnare un passaggio in tv. Sic transit.


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