1. Fede nella ragione o ragione della fede?
In questo breve intervento si intenderanno offrire più domande che risposte, più sollecitazioni e dubbi che proposte, dato il timore nell’affrontare il tema del rapporto tra fede e ragione a causa della sua complessità e della necessità di non correre il rischio di banalizzare in poche battute una disputa millenaria, che non è risolta e che, quand’anche non si presenti sempre chiaramente sotto questa dicotomia, ritorna comunque come sottofondo ogni volta che l’argomento è l’uomo. Il che già solleva un primo dubbio sulla possibilità di una definizione dei due termini che sono stati presi e sono ancora utilizzati in vario modo. Cosa è la ragione? Che cosa è la razionalità? Si identifica essa totalmente, come sembra essere oggi, con la razionalità scientifica? Ma anche qui esiste una sola razionalità scientifica o anche questa è soggetta al dinamismo storico? E, per converso, che cosa è fede? L’atteggiamento fideistico appartiene solo alla religione e può identificarsi totalmente, quando se ne discute, con la fede cristiana? Non c’è anche una fede nella ragione così come c’è una ragione della fede? Ad esempio quando parliamo di assolutizzazione della ragione, dimentichiamo che anche la piena accettazione della ragione è un atto di fede che nasce da una opzione precisa, che non può essere giustificata e argomentata senza possibilità di dubbio e non può essere esente da perplessità, non foss’altro che per la ampiezza di una definizione di ragione. È anche il tema della verità, tema complesso che non può anch’esso essere risolto in brevi cenni e a riguardo del quale non posso che concordare su quanto, in una prima parte della sua allocuzione, dice Benedetto XVI sulla sensibilità per la verità, intesa come continua ricerca della verità. Occorre restare in cammino con questa domanda che non è mai posta e mai risolta definitivamente, in cammino con i «grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni risposta». Ed è anche il tema del Mistero verso il quale, pur nella difficoltà di ricondurre tutto ai due estremi della fede e della ragione –che peraltro non ritengo siano tra di loro in alternativa, in quanto possono esistere posizioni intermedie o di mediazione– si può avere sia l’atteggiamento di chi ritiene di espungerlo o di arrivare a penetrarlo con la ragione, sia l’atteggiamento di chi si affida ad esso solo con la fede nella consapevolezza della sua impenetrabilità. In entrambi i casi, proprio sulla base della consapevolezza dell’irraggiungibilità del suo svelamento totale, occorre avere nei confronti della verità e del mistero un atteggiamento di umiltà. Anche se umiltà non significa che occorra procedere forti nella fede nella ragione, nella possibilità di avvicinarsi a sciogliere il mistero e a spostare quanto più possibile in avanti il limite, ma significa essere umili di fronte alla realtà della possibilità e della persistenza dell’errore e, quindi, non disdegnando di ascoltare anche le ragioni della fede.
2. Autorità della verità o verità dell’autorità?
Nella sua allocuzione, Benedetto XVI afferma che l’Università deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Mi viene da ricordare come uno dei problemi che riguardano l’autorità della verità sia il fatto che essa possa trasformarsi nel suo opposto, vale a dire diventare la “verità dell’autorità”, che rimanda anche alla tradizione e al suo rapporto con la verità. E qui bisognerebbe vedere cosa si intende per autorità. Chi detiene l’autorità della verità in modo da far accettare la verità dell’autorità? Essa dipende dal consenso di chi si affida ad una autorità perché ritiene di non avere gli strumenti per la ricerca personale o perché ha paura di questi strumenti? Gli ambiti culturali sono tali da non consentire un disgiungimento della tradizione da quella che Benedetto chiama la ragione etica dell’umanità. Ma anche qui occorre forse contestualizzare: la ragione etica dell’umanità è quella della verità di una autorità o richiede ancora quel confronto tra le verità delle varie autorità e delle varie tradizioni culturali e religiose? E non è certamente un caso che negli ultimi tempi si torni a parlare con insistenza di identità religiosa e si auspichi anche un ritorno al senso religioso, che sembra assumere le vesti di un ethos collettivo in grado non solo di garantire una appartenenza socio-culturale specifica, rappresentando un fattore decisivo di identificazione societaria, ma anche di riattualizzare col suo apparato simbolico e rituale, fatto di una memoria collettiva, un repertorio di valori e di orientamenti. È da notare, peraltro, che si comincia anche a guardare alle «chiese e alle religioni in termini universalistici, come realtà depositarie di una humanitas che va oltre le diverse culture, in grado di accentuare quei valori comuni che si sprigionano da riferimenti religiosi specifici e particolaristici».
Interviene qui il tema dell’interculturalità e della multiculturalità e, quindi, il tema della coesistenza di varie culture e di vari ordini morali, giuridici e religiosi e il problema della mediazione che deve realizzarsi tra il pluralismo culturale e politico. L’unità, che pure si rende necessaria, non può però più rispondere ad una logica di verticalità, comunque intesa, ma deve rispondere ad una logica di coordinamento, vale a dire anche di riconoscimento della diversità.
Vorrei però tentare di inserire il tema del rapporto tra fede e ragione nel contesto più ampio della “cultura”. I processi culturali, pur nella loro lentezza, sono comunque dinamici. Per cultura assumo la definizione di Geertz come «contesto locale comunicativo», perché fa rilevare come nel contesto locale comunicativo debbano intervenire tutti gli attori che queste reti di significato intessono e perché mette in evidenza come questo tema sia strettamente collegato al linguaggio e alla comunicazione. La cultura può però essere anche «una serie di meccanismi di controllo –progetti, prescrizioni, regole, istruzioni (quello che gli ingegnosi informatici chiamano “programmi”) per orientare il comportamento»1. Questo aspetto della cultura come meccanismo di controllo porta a interessanti implicazioni per il concetto stesso di libertà. Mette in relazione, infatti, la discrasia che esiste tra potenzialità appartenenti a ciascun individuo e a ciascun contesto veritativo e la realizzazione di queste potenzialità in un contesto comunicativo che realizza un sistema di controllo e di orientamento di comportamenti, tanto più pesante quanto meno in questo contesto intervengono attivamente tutti i soggetti che vi appartengono.
Ho l’impressione comunque che quando si parla di ragione la si intenda non in senso ampio, ma limitandola alla ragione scientifica. In questo senso si impone allora qualche precisazione sulle trasformazioni verificatesi nell’ultimo secolo in ambito scientifico, nei metodi che non sono più di conoscenza e quindi collegati ad una verità che si svela ma piuttosto di “progettazione” e, quindi, ad una verità che si crea. Nella ricerca di vie percorribili la ricerca scientifica preferisce ragionare in termini di “progettabilità”, per cui anche il rapporto tra libertà e processo conoscitivo si trasforma, modificando il rapporto dello scienziato con la verità. Se nei tempi passati si poteva parlare di mancanza di libertà di fronte al processo conoscitivo, il che comportava anche la libertà della ricerca e la possibilità di parlare di verità scientifiche (non modificabili dall’uomo), oggi il problema si inverte e la libertà sta proprio nella capacità di indirizzare il processo conoscitivo e di suscitare nuove risposte grazie alla capacità e alla decisione di porre nuove domande. La conoscenza stessa resta legata all’invenzione. Si incrocia qui il problema del rapporto tra libertà e scienza e la conseguente accresciuta responsabilità dello scienziato nel procedere in termini di responsabilità nella sua ricerca. Possiamo essere ancora del tutto convinti che la conoscenza non abbia niente a che fare con la decisione e che il ragionamento dimostrativo concluda ma non decida sempre e comunque? In questa situazione due sono le domande: che diritto si ha di impedire che la scienza faccia i suoi esperimenti? La scienza deve operare con una delega in bianco ma che titolo ha per operare con una delega in bianco?
Al relativismo e all’onnicentrismo contemporaneo sfugge la stessa presentazione della dogmatica della fede, da una parte, e della dogmatica della ragione o scienza dall’altra, entrambe viste come assoluta verità pur nella consapevolezza piena e dichiarata della irraggiungibilità della verità. Fede nella fede o fede nella ragione diventano, così, un assoluto valore che nessuno dei contendenti osa mettere in discussione. Anche se tale verità si fonda su una visione sostanzialmente relativistica perché sostanzialmente volta verso la ricerca, che aborre, quindi, ogni forma di fondamentalismo, in realtà fa assumere ai suoi difensori l’attitudine del crociato che deve imporre la sua visione a tutti e deve battersi non per difendere la sua verità come verità assoluta e per presentarla in termini culturali attraverso quella capacità dialogica e aperta alla scoperta che la contraddistingue, ma per esportarla nelle realtà altrui, che su altre opzioni si fondano, e per rifiutare acriticamente la visione dell’altro. Io mi chiedo sempre se la desacralizzazione dei tempi attuali non scada poi in una sacralizzazione diversa della propria opzione, che si assolutizza come verità.
Ora, se anche riconosciamo il diritto alla sperimentazione continua e a tutto campo non abbiamo comunque bisogno di una regola? Ma dove potremo trovare l’autorità che la definisca e ne controlli il rispetto? L’autorità di una verità che discende dalla tradizione sapienziale è ancora possibile là dove le situazioni sono totalmente inedite e non esiste una esperienza stratificata? In base a quali parametri? E dove tracciare il discrimine? Non si può che concordare con l’affermazione secondo cui «la scienza cerca la verità»2. La scienza non ha, però, a sua volta bisogno di un controllo che la tuteli dal proprio accecamento quando, convinta di cercare la verità, potrebbe soltanto inseguirla senza una progettualità ben definita, andando, in questo suo affannarsi, contro la sua stessa verità di scienza? Il tema dell’autorità richiede un approfondimento e lo richiede anche con riferimento al tema della scienza. Come in questo campo può definirsi e a chi spetta una progettualità? Alla scienza o alle istituzioni, alla morale o alla religione? E che rapporti si creano tra questi momenti? I problemi che nascono quando si tenta di rispondere a queste domande sono molteplici. Per quanto riguarda la scienza è chiaro che la sua stessa continua innovatività le fa perdere il carattere autoritativo che era legato al paradigma scientifico moderno e alla sua coerente definizione della verità scientifica. Per quanto riguarda la religione essa entra in quel dialogo con gli altri parlanti, ma come deve entrarvi se non vuole operare cultura come controllo? In ogni caso diventa complesso risolvere questo problema che diventa politico e che impone una scelta, comunque la si voglia interpretare, ideologica. Gli interrogativi in relazione al tema del rapporto tra fede e ragione, che io allargherei piuttosto al rapporto tra religione, morale, politica e scienza, su cui la ragione deve riflettere e inserirsi, sono anche oggi drammatici, e ad essi non si può dare una risposta univoca e universalizzabile ma solo una risposta ideologica, fideistica, o nei riguardi di una religione tradizionale o nei riguardi della religione della scienza. A dividere i contendenti, infatti, sono due aspetti tra di loro inconciliabili e pure simili: la paura del futuro da parte di un uomo che teme le trasformazioni; la speranza nel futuro da parte di un uomo che scommette sul rischio; la speranza nel futuro da parte di chi, affidandosi alla fede, ha una ampia prospettiva ultraterrena, ma anche il timore del futuro da parte di chi, pur affidandosi al rischio, lo fa per perseguire una prospettiva tutta terrena. Ricompare qui il problema della dicotomia tra conservatorismo e progressismo e l’ulteriore domanda a cui è difficile rispondere: cosa è progresso? Quali sono ancora i parametri su cui misurarlo, se non alla luce della futura esperienza storica che proprio perché futura non è conoscibile?
L’opzione tra trascendenza e immanenza poggia su assiomi indimostrabili. Tuttavia, si tratti di un atto di fede o di ritornare al pari pascaliano, ogni esperienza richiede di essere confermata e anche qui le risposte possono esser ambigue. Il problema resta quello del tipo di conferma che deriva dall’esperienza, del limite che il “senso comune”, come portato di una tradizione in cui la rivelazione si esprime, o come portato di una storia nella quale la rivelazione non deve aver posto –ma sarebbe una constatazione antistorica– pone o deve porre alla stessa scienza. Nella allocuzione del Papa c’è un riferimento importante al fondo storico dell’umana sapienza, che è poi quel crivello della storia che, attraverso la durata, definisce ciò che è ragionevole. Senso comune o principio ordinatore intrinseco alla realtà? Che per il credente ha come ultimo suo supporto Dio che crea e dà a tutto la sua legge fondamentale, che viene riconosciuta e confermata proprio attraverso l’analisi dei rapporti di vita rivissuti e interpretati dall’autorità della Chiesa, e che per il non credente è legge immanente alla realtà stessa autoorganizzantesi, e quindi suscettibile di essere dalla scienza non solo studiata ma anche modificata in quelle che sono state fino ad oggi le sue stesse leggi. La struttura della realtà, dinamica anch’essa, funge da limite perché la realtà è tale in quanto ordinata secondo una organizzazione immanente che la definisce. Questo non può impedire però al credente di fare un passo ulteriore verso un legislatore superiore, né al non credente di non fare questo passo ulteriore verso la trascendenza per fermarsi alla struttura del reale sulla quale agire anche progettualmente.
Siamo tutti convinti della necessità della libertà scientifica, ma credo anche che non possano essere trascurati i problemi di carattere etico e filosofico che ogni tipo di ricerca solleva, sia quella sugli embrioni che quella sulle armi. Potrebbe creare forse qualche problema constatare che se nei tempi passati la scienza poteva affermare: “datemi dei fini e io vi darò i mezzi per raggiungerli”, oggi la situazione sia invertita e la scienza, alleata alla tecnica, dice: “io vi fornisco i mezzi sulla cui base stabilire fini” o, ancora di più, “cerco mezzi e dopo vedrò a quali fini mi condurranno”.
La vita come esperimento continuo in tutte le sue forme è forse il motto del XXI secolo. Il che richiede alla scienza uno statuto non solo epistemologico, ma anche deontologico e alla morale, alla politica, alla religione, una loro capacità di adeguare continuamente, in un continuo confronto tra di loro e con la scienza, questo processo conoscitivo che è diventato anche processo innovativo, senza chiudersi in una visione di tipo normativo assoluto che detta norme e modelli di condotta in insuscettibili di stare al passo coi tempi e con le evoluzioni della società e dei suoi modi di vedere. Il problema attuale non è più solo, dunque, quello del rapporto tra fede e ragione, tra religione e scienza, bensì si realizza la necessità di una correlazione tra morale, religione, diritto, politica e scienza, tutte attraversate dalla ragione. L’assolutizzazione della norma –che nel caso della scienza significherebbe il riconoscimento di limiti alla libertà scientifica, norma morale, religiosa o giuridica che sia– anche se dovesse sortire l’effetto di una adesione generalizzata al principio darebbe poi luogo alla dissociazione sul piano esecutivo. Il che porterebbe nuovamente al problema della distanza che separa validità ed efficacia.
Il fatto è che la domanda sulla norma del nostro comportamento rinvia necessariamente anche all'altra più fondamentale domanda: quale norma per quale uomo? E la visione dell’uomo dipende ancora da una opzione che alla fine è di natura ideologica.
È accettabile una teologia che voglia dare immediatamente una assicurazione dommatica nei confronti della società? Ma, d’altra parte, è possibile, nella situazione del mondo occidentale, impedire che la teologia senta l’esigenza di dare un’indicazione normativa su come le società e gli uomini devono comportarsi? È accettabile in toto una scienza che si ritenga depositaria della ricerca della verità e voglia affidarsi alla verità della sua autorità? Ma è possibile impedire che la scienza tenda a dare indicazioni di carattere anche normativo?Ancora due domande contrapposte alle quali è possibile dare risposte contrapposte, risposte che si danno per fede sia nell’uno che nell’altro caso. D’altra parte la teologia, pur col suo dommatismo, non si pone come stimolo critico, in quanto col porre la sua verità immette il seme del dubbio sulla verità altrui, vale a dire nei confronti di una scienza che si vuole depositaria della verità? E la scienza, con le sue scoperte, non si pone come fondamentalmente necessitante di una sua libertà anche dallo stimolo critico che comunque, se portato oltre i limiti, la paralizzerebbe?
3. L’evidenza della autorità e l’autorità dell’evidenza
Il rapporto fede-ragione, seppur con accezioni diverse, può essere sintetizzato nella distanza che separa una conoscenza-adesione che è fede e una conoscenza-adesione che è posta dalla ragione sulla base dell’evidenza –comunque intesa– dei dati, cioè per motivi inerenti alla dottrina e rientranti nel controllo della ragione. È quindi il rapporto tra teologia e filosofia, tra dottrina di fede e dottrina scientifica. Ma anche l’autorità dell’evidenza può trasformarsi in evidenza dell’autorità. L’evidenza sociale è diversa dall’autorità ma ha la sua autorità. L’autorità dell’evidenza, collegata però all’evidenza dell’autorità, in una temperie cristiana è il riflesso della grazia divina ed espressione della fecondità costitutiva di ogni realtà e, in una temperie non religiosa, è semplicemente espressione dell’esperienza. In una visione che accetta il trascendente il passo ulteriore è verso l’onnipotenza di Dio: in una visione immanentistica è il passo verso l’onnipotenza dell’uomo.
Chiudo con una riflessione sull’università e sulla necessità della sua autonomia da ogni autorità, sia essa politica o ecclesiastica, ma anche scientifica e sulla necessità che essa sia legata con l’autorità della verità e non con la verità dell’autorità: essa deve essere luogo di conoscenza e discussione su tutte le opzioni e tra tutti i parlanti, perché la cultura non sia strumento di controllo ma contesto comunicativo volto all’inseguimento inesauribile della verità.