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Piero Gobetti.
Tra democrazia ed élite

Pietro Polito
Articolo pubblicato nella sezione "Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana tra ’700 e ’800"

Come ha ricordato Norberto Bobbio, Piero Gobetti e il movimento gobettiano nutrono «una fiducia illimitata nelle minoranze eroiche, creatrici, battagliere, rivoluzionarie» (Bobbio 1996, p. 224). Tra i numerosi riferimenti che si potrebbero richiamare, ne indico alcuni più o meno noti ma tutti particolarmente significativi. Primo. Nella nota Uomini e idee dell'aprile 1922 dà questo giudizio della classe politica italiana: «La povertà della lotta politica in Italia si manifesta nella mancanza di preparazione dei capi partito» (Gobetti 1924, p. 9; SP, p. 569). Secondo. Mi sembra da sottolineare la scelta diversa che Gobetti e Carlo Rosselli compiono dopo il delitto Matteotti: l’urgenza di un maggior impegno diretto nella lotta politica porta il socialista liberale ad aderire al Partito socialista unitario, il liberale rivoluzionario alla creazione di «un'organizzazione politica» che corrispondesse al lavoro della rivista: i “Gruppi della Rivoluzione Liberale”. Terzo. Nella Lettera a Parigi, una delle sue pagine più belle e intense, verso la fine del 1925 si rivolge a un ideale amico parigino, come lui direttore di rivista. Rassicura l’amico che l'Italia non è finita come Paese moderno e civile con due argomenti: esiste in Italia, nel Nord, specialmente nel triangolo Genova-Torino-Milano, «un proletariato moderno» che, «con la sua intransigenza», «ha conquistato i suoi diritti civili» ed «è degno degli altri proletariati europei», ma esiste in Italia anche «un gruppo di uomini nei partiti e fuori dei partiti, gente che non ha ceduto e non cederà» (Gobetti 1925, p. 149; SP, p. 898).
L’idea che il riscatto delle classi popolari sia legato alla formazione di un gruppo di intellettuali liberali che le guidino o quanto meno le affianchino nella lotta politica è tipicamente gobettiana. Nella discussione seguita alla pubblicazione del Manifesto, con cui apre le pubblicazioni della rivista politica maggiore “La Rivoluzione Liberale”, aveva chiarito che «il problema rivoluzionario sarà pure a un certo punto problema di uomini: noi prepariamo gli uomini che sappiano allora accettare la rivoluzione e operare realisticamente» (Gobetti 1922, p. 11; SP, p. 255). Di questo schema si serve sia per spiegare la sconfitta operaia del ’20, dovuta prevalentemente alla mancata «adesione di una aristocrazia politica liberale (quella che noi vorremmo creare) al movimento sorto dal basso» (Gobetti 1922a, p. 26; p. 294), sia per definire la forma dell'opposizione al fascismo, sostenendo che «le esperienze passate ci insegnano che il movimento operaio alla resa dei conti avrà bisogno di una classe dirigente sicura e moderna, dotata di spirito di sacrificio» (Gobetti 1924a, p. 113; SP, p. 764).
Non va taciuto che questa concezione della lotta politica o lotta di classe suscita problemi di interpretazione e desta non poche perplessità. Francamente inaccettabile è il modo in cui, sotto l'influenza di Sorel, in alcuni luoghi viene posto il rapporto tra l’azione dell'élite e quella delle masse. Il limite sta nell'accettazione del mito soreliano e nell'affermazione della necessità di miti per l'azione. Infatti, per lui, gli sforzi più originali di pensiero - il riferimento esplicito è a Marx e a Sorel - si sono sempre accompagnati «con un'intransigente elaborazione di miti d'azione e con una tragica profezia rivoluzionaria» (Gobetti 1922b, p. 104; SP, p. 410).
In alcuni passi, soprattutto nei primi anni, indulge ad una visione aristocratica nei confronti delle masse. Per esempio, in un articolo del ‘18 si legge: «E poi quello che importa è il pensiero degli uomini rappresentativi. La massa segue ed ubbidisce ai pochi» (Gobetti 1918, p. 4; SP, p. 9). Oppure in La rivoluzione italiana del novembre ‘20: «Io non coltivo miti: non credo che la massa sia evoluta e cosciente: non vedo nei più neanche il preludio di una cultura politica che sia pratica politica» (Gobetti 1920, p. SP, p. 190). Tornando su quegli avvenimenti nella Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale: «E poiché le masse non potevano intendere e partecipare volontariamente alle nuove idee, essi si assunsero il compito di guidarle, dove quelle non sapevano vedere, di farle trovare di fronte ad avvenimenti che le determinassero, coscienti o no, ad un'azione precisa» (Gobetti 1922a, p. 26; SP, p. 288).
Questa tendenza a considerare le masse incapaci di una azione politica al tempo stesso autonoma e cosciente e, per questo motivo, ad assegnare un ruolo preponderante all'élite risente dell’influenza di Mosca e Pareto ed è in contraddizione con il tentativo di connettere la dottrina dell’élite con una concezione liberale e democratica della vita politica. Nella controversia sorta tra i due maestri del realismo politico, che entrambi rivendicavano la paternità della dottrina, sembra mettersi dalla parte di Mosca, in cui intravede un punto di vista europeo. Anzi Mosca, Einaudi e Ruffini sono i tre «uomini europei» che l’Università di Torino ha dato alla cultura italiana (Gobetti, 1926; SP, p. 911). In particolare la ristampa degli Elementi di scienza politica (1923) di Mosca è per lui l’occasione per un giudizio apertamente positivo sull’opera di colui che era stato suo professore di diritto costituzionale all’Università di Torino: «La teoria di Mosca della classe dirigente è veramente una di quelle idee che aprono distese infinite di terre alla ricerca degli uomini» (Gobetti 1924b; SP, p. 656).
Anzitutto Gobetti si serve della nozione di classe dirigente o classe politica come di uno schema di interpretazione storica. Infatti, il Gobetti storico del Risorgimento individua nella decadenza della classe politica piemontese una delle cause del fallimento del moto italiano e nel Manifesto espone le linee del programma di ricerca storica e di azione politica del suo gruppo, proponendo ai collaboratori un piano di indagini diretto a spiegare le ragioni per cui nella storia d'Italia non si è affermata una classe dirigente come classe politica. Quanto al programma d'azione, egli informa i lettori che “La Rivoluzione Liberale” continua ed amplia il movimento iniziato con “Energie Nove”. Scopo del nuovo movimento è quello di «venir formando una classe politica che abbia chiara coscienza delle sue tradizioni storiche, delle esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita dello Stato» (Gobetti 1922c, p. 1; SP, pp. 225-226). Una tesi ribadita, in modo direi definitivo, nelle conclusioni del volume La Rivoluzione Liberale: «Se il libro offre la teoria di una classe dirigente, un primo nucleo di questa si può vedere intorno alla rivista, dove molti giovani si sono raccolti a una specie di necessario noviziato morale e pratico» (Gobetti 1924c, p. 177). Ma forse la pagina più incisiva è quella che chiude il suo Manifesto: «Un compito tecnico preciso ci attende: la preparazione degli spiriti liberi capaci di aderire, fuor dei pregiudizi, nel momento risolutivo, all'iniziativa popolare: dobbiamo illuminare gli elementi necessari della vita futura (industriali, risparmiatori, intraprenditori) ed educarli a questa libertà di visione» (Gobetti 1922d, p. 22; SP. p. 240).
A poco a poco in Gobetti la teoria della classe dirigente perde la funzione antidemocratica che aveva nel pensiero dei conservatori e ha uno sviluppo in una interpretazione democratica e conflittualistica del concetto di élite. Egli sa che la teoria è entrata nella cultura politica italiana in una accezione conservatrice e che inizialmente nella riflessione di Mosca sembrò che il concetto di classe politica comportasse «la rovina di ogni concetto democratico e di ogni sistema parlamentare. L'interpretazione che egli ne diede, appena lo trovò, fu aristocratica» (Gobetti 1924b; SP, p. 656). Gobetti, inoltre, si confronta con Giuseppe Prezzolini al quale riconosce il merito di avere divulgato attraverso “La Voce” «il pensiero dell'élite da costruire», trasformando quella che era una «obiettiva considerazione» in un «programma per l'avvenire» (Gobetti 1923a, p. 20; SP, p. 471). Ma la ripresa della teoria da parte di Prezzolini va in una direzione opposta a quella auspicata da Gobetti. Il tentativo di far intendere ai nazionalisti Mosca e Pareto è fallito perché caduto tra spiriti impreparati, rivelandosi inadeguato alle trasformazioni strutturali intervenute nella dinamica sociale e politica del conflitto. D’altronde, come ha osservato Bobbio, il dissenso con Prezzolini, e con Giovanni Papini, non derivava dal fatto «che una teoria scientifica fosse stata distorta ai fini politici, quanto dalla constatazione che la distorsione fosse avvenuta in senso opposto a quello che gli pareva utile» (Bobbio 1996, p. 228).
D’altra parte, sviluppando la teoria della classe politica in chiave democratica, Gobetti non fa altro che riprendere l’originaria ispirazione salveminiana. La formazione di una nuova classe dirigente è un tema ereditato dalla cultura del tempo, in particolare dal maestro Salvemini che era venuto elaborando «il vero pensiero politico delle future classi dirigenti e delle attuali» al di fuori della politica militante. Per Gobetti, «l'espressione più completa di tale attività si ebbe nel problemismo dell'“Unità”», che considera la rivista politica più importante dei vent'anni trascorsi, ed è qui che «s'incontrano almeno tre diverse aspirazioni: il pensiero di creare una nuova élite, la preoccupazione mazziniana di rinnovare lo spirito popolare, l'esigenza di studiare a fondo i problemi della vita italiana» (Gobetti 1923a, p. 21; SP, pp. 470-471).
Ma, come si è già detto, egli trova un fondamento autorevole nello stesso inventore della dottrina, Gaetano Mosca, che nella seconda edizione degli Elementi di scienza politica corregge il giudizio negativo sul regime parlamentare non più ritenuto il nemico da sconfiggere. Non gli sfugge l'evoluzione del pensiero dello studioso siciliano: «Il compito della speculazione politica che proseguirà l'opera del Mosca è di accentuare questa interpretazione democratica e liberale, di mettere audacemente d'accordo i due concetti di élite e di lotta politica» (Gobetti 1924b, p. 71; SP, p. 656) Se Mosca si è limitato a riconoscere la compatibilità della sua teoria col sistema parlamentare, richiamandosi a Sorel che ha saputo coniugare la teoria dell'élite con la lotta di classe, Gobetti compie un passo ulteriore. Nelle sue mani la teoria diventa uno strumento conoscitivo che «avrebbe potuto illuminare i significati della lotta nel campo sociale se fosse stata connessa più direttamente con le condizioni della vita pubblica e con il contrasto storico dei vari ceti» (Gobetti 1924c, p. 46). In altre parole se ne serve per indagare più a fondo le principali forme di conflitto tra i partiti in parlamento e tra le forze o classi nella società.
Considerando la lotta di classe «lo strumento infallibile per la formazione di nuove élite, la vera leva, sempre operante, per il rinnovamento popolare» (ivi, p. 134), egli si muove effettivamente nella direzione opposta a quella di Prezzolini e Papini: «il sogno nazionalista della distruzione o dell'addomesticamento delle classi ha la stessa natura del sogno pacifista e dimentica la funzione educativa del contrasto nella vita degli uomini» (ivi, p. 135). La visione del conflitto dei nazionalisti si fonda sulla separazione tra l’azione delle classi dirigenti e quella delle masse popolari. Ad essi rimprovera di avere ignorato «il problema operaio» che per lui è «il problema per eccellenza, intorno a cui avrebbero dovuto impegnarsi, di vita o di morte, i partiti del nostro secolo» (ivi, p. 114).
Per Gobetti, il conflitto svolge una funzione liberale quando si manifesta nella forma di «iniziativa popolare diretta». Anzi questo processo, da cui scaturiscono continuamente nuove élite, è da lui considerato sia liberale che democratico. Chiara è, infatti, l’intenzione di innestare la teoria elitistica nella concezione conflittualistica del liberalismo: «Il concetto di una élite che si impone sfruttando una rete d'interessi e condizioni psicologiche generali, contro vecchi dirigenti che hanno esaurita la loro funzione, è schiettamente liberale», mentre meno chiaro è cosa egli intenda quando afferma che «il processo di genesi dell'élite è nettamente democratico» (ivi, p. 46). Da un lato sembra che le élite si formino nella lotta politica intesa come conflitto tra i partiti in parlamento; dall'altro, invece, pare che scaturiscano dalla lotta di classe, intesa come lotta tra “forze” operanti nella società. Entrambi questi processi, quello parlamentare e quello rivoluzionario, gli appaiono democratici.
A torto sovente è stato visto nella svalutazione o quanto meno nell'incomprensione del ruolo dei partiti uno dei limiti della concezione gobettiana della lotta politica (Grassi, Quagliariello 1996). Invece, la funzione positiva attribuita ai partiti è implicita nel valore che egli riconosce al sistema parlamentare: «il sistema parlamentare è ancora il miglior strumento perché si formi, si raffini, si differenzi, si esprima la minoranza direttrice provando, attraverso il lungo noviziato della libera lotta e della critica aperta, le sue attitudini» (Gobetti 1924b, p. 71; SP, p. 656). Le forze che scaturiscono dalla lotta e a loro volta la alimentano in una democrazia moderna tendono ad organizzarsi nella forma del partito politico. Ed egli, perfettamente consapevole che in parlamento la lotta politica non può manifestarsi che come lotta tra partiti, difende i vantaggi del parlamento dagli attacchi dei rivoluzionari e dei conservatori. Contro entrambi, nell'aprile 1924, traccia un bilancio definitivo dell’ideologia soreliana (da cui egli stesso non era rimasto immune), una ideologia che era servita indifferentemente al sovversivismo di destra e di sinistra. Il Gobetti che si è liberato dei veleni del sorelismo pone sotto accusa e rifiuta «l'essenza della critica sindacalistica al parlamentarismo» (Gobetti 1924d, p. 72; SP, p. 657). In La nostra cultura politica chiarisce: «Il problema istituzionale è ignorato, non si osa discutere uno Statuto trasgredito ogni giorno, vecchio di settant'anni, improntato a uno spirito tirannico e teocratico; invece di criticare il parlamentarismo si pensa di distruggere il parlamento; manca agli italiani ogni senso più elementare di libertà e di Stato» (Gobetti 1923a, p. 17; SP, p. 459).
La difesa del parlamento è una conseguenza logica della sua concezione conflittualistica della società. Dalla opposizione a ogni tentativo di limitare o soffocare il conflitto deriva una visione del parlamento come l'istituzione più adeguata per il governo di una società dove i conflitti non vengano repressi ma esaltati: in particolare il parlamento è la garanzia del libero svolgimento del conflitto tra i partiti. È esemplare la polemica contro l'ideologia del partito unico: «L'ideale di un partito unico resterà sempre il sogno mediocre dei regimi teocratici corruttori e basta pensare che ne vedemmo il risorgere nelle ideologie fasciste» (Gobetti 1924c, p. 48). Ma la principale conferma del valore del ruolo dei partiti viene dalla sua difesa storica della proporzionale:

L'utilità della proporzionale non fu quella di uno strumento di conservazione, come crede alcuno, ma si rivelò nel creare le condizioni della lotta politica e del normale svolgimento dell'opera dei partiti. [...] La democrazia trovava la sua atmosfera ideale: la proporzionale obbliga gli individui a battersi per un'idea, vuole che gli interessi si organizzino, che l'economia sia elaborata dalla politica (Gobetti, 1925a, p. 22; SP, pp. 810-811).

D’altronde, tra l’affermazione del partito unico e l’attacco alla proporzionale Gobetti stabilisce un nesso storico e teorico: «Il solo effetto sensibile della marcia su Roma è stato l’abolizione della proporzionale. Così la deviazione del dopoguerra è stata corretta e l’Italia torna in minorità politica» (Gobetti 1924e, p. 61; SP, p. 637. Il corsivo è di Gobetti).
Il problema di Gobetti non è solo la giusta rivendicazione del pluralismo politico. La sua democrazia è una “democrazia conflittuale” - la formula è di chi scrive (Polito 2018, pp. 39-47) -, pluralistica in quanto conflittuale, conflittuale in quanto pluralistica. Il suo scopo è l'affermazione del valore primario del conflitto tra le forze nella società, tra i partiti in parlamento, tra le elite nella lotta delle idee. Una interpretazione che restringesse il conflitto alla sola tribuna parlamentare sarebbe riduttiva. Considerandosi ed essendo uno scrittore rivoluzionario, Gobetti accoglie anche l'altra via attraverso la quale le élite sono l'espressione delle forze sociali e scaturiscono dal processo naturale, «quasi fisiologico», della lotta politica. A suo giudizio, non se ne intende la genesi se non dentro la lotta politica: «Élite infatti è scelta, che deve intendersi non nel senso che ci sia chi scelga, ma nel senso di un processo storico attraverso cui si rivelano i migliori» (Gobetti 1924b, p. 71; SP, p. 656). Ebbene, quando precisa che non è necessario «che ci sia chi scelga» fa capire esplicitamente che la loro formazione e selezione non avviene, o almeno non avviene sempre o esclusivamente, attraverso il metodo dell'elezione.
Con l'espressione «processo storico» si riferisce a quella forma di conflitto che si manifesta fuori dal parlamento: la rivoluzione. Indicativo è il modo in cui, in una nota dell’aprile 1922, pone il rapporto tra governo e volontà collettiva. In che modo la volontà collettiva può diventare governo? Accanto al modo parlamentare riconosce ed ammette il modo rivoluzionario:

La sola volontà collettiva valida non è quella che si otterrebbe da un consenso di tutti a un determinato apostolato, a una determinata propaganda; ma si crea nella lotta, dalle forze che nella lotta intervengono e si estrinseca non ordinatamente ma rivoluzionariamente attraverso feroci intransigenze, integri esclusivismi, incorrotte volontà (Gobetti 1922e, p. 34; SP, p. 317).

Le oscillazioni del suo pensiero derivano dall’uso non lineare del concetto di democrazia che viene definita con accezioni diverse e con opposte connotazioni di valore. Quando ne dà un giudizio negativo la democrazia è intesa per lo più come eguaglianza, statalismo, riformismo o unanimismo, collaborazionismo. Ma che cosa intende per democrazia quando ne dà un giudizio positivo? Qual è, per esempio, il significato che la parola democrazia ha in quella che può essere considerata una delle pagine più alte della letteratura democratica? Si noti che a scrivere è un Gobetti giovanissimo, all’età di diciotto anni:

L’idea democratica, nonostante tutte le aberrazioni dei seguaci e degli avversari, è ancora l’intima realtà della società moderna che anima tutte le concezioni dello Stato come organismo che ha una storia ed una funzione. Ed i problemi politici che oggi ancora ci travagliano sono ancora essenzialmente problemi della democrazia, cioè problemi che hanno la loro origine in errori e deviazioni ideologiche di un unilateralismo di visioni democratiche e che troveranno la loro soluzione in una più perfetta fusione degli elementi costitutivi dello Stato democratico-liberale (Gobetti 1919; SP, p. 105).

In primo luogo, quando Gobetti dà un giudizio positivo sulla democrazia, egli la intende nel suo significato tecnico e si riferisce alle due principali istituzioni politiche rappresentative, il regime parlamentare e il sistema proporzionale, in breve gli istituti della democrazia moderna. Chi scrive ritiene che in Gobetti si possa scorgere una ulteriore accezione positiva della nozione di democrazia. Accanto alla concezione tecnica, egli è il fautore di una concezione etica della democrazia, intesa come quella forma di governo che meglio e più di altre favorisce «la partecipazione di nuove masse» alla vita politica (Gobetti, 1924f, p. 30; SP, p. 604). Così intesa la democrazia fa propria la lezione della modernità: «Le esperienze della storia moderna sono iniziativa di popolo e la difesa della libertà, contro l'autorità degenerante in dispotismo, non spetta più a nessuna dottrina o padre spirituale, ma ai cittadini stessi che difendono la loro dignità di coscienze autonome» (Gobetti 1923; SP, p. 768).
La concezione della democrazia di Piero Gobetti, che mira a coniugare l’aspetto procedurale e quello etico, è alla base del programma dei “Gruppi della Rivoluzione Liberale”, fondati all’indomani del delitto Matteotti nel giugno 1924. Infatti i due principali obiettivi della nuova organizzazione sono, da un lato, la creazione di una nuova classe dirigente «sulla base delle nostre pregiudiziali e delle nostre soluzioni», dall'altro la promozione di «un rinnovamento di democrazia moderna nell'ambito dei vari partiti». Il programma ribadisce che l'opposizione al fascismo deve trovare il suo fulcro nelle forze affermatesi per «la legge infallibile e ineluttabile della lotta di classe». Ma lo scopo dell’antifascismo viene individuato nella «eliminazione dei governi personali e la loro sostituzione con un regime di moderna democrazia diretta e laica, fondato sulla rappresentanza proporzionale ed espresso dalla libera lotta dei partiti» (Gobetti 1924g, p. 110; SP, pp. 759-760).
Non si potrebbe esprimere meglio l’idea che gobettianamente la lotta di classe è una forma di conflitto che si manifesta fuori dalle istituzioni ma non contro il sistema democratico- parlamentare. La sua rivoluzione liberale non è rivolta a sovvertire il sistema democratico; semmai per restaurarlo, o meglio ancora, per instaurarlo finalmente, dopo la parentesi di medioevo rappresentata dal fascismo, in una forma rinnovata più avanzata socialmente e istituzionalmente rispetto alla democrazia prefascista.
Da un punto di vista etico, per democrazia si può intendere gobettianamente un processo di allargamento delle istituzioni democratiche che favorisca il continuo ricambio delle classi dirigenti e a lunga scadenza prepari l'affermazione della nuova classe dirigente espressa dalle classi popolari. In questa prospettiva si attenua e si compone quella contraddizione che abbiamo segnalato nel suo pensiero. In estrema sintesi Gobetti sostiene che il conflitto tra i partiti in parlamento si riduce a una mera contrapposizione tra schemi, se i partiti non sono espressione di forze reali attive nella società; contemporaneamente ritiene che il conflitto tra le classi, intese come grandi forze collettive che si affacciano sulla scena politica, si rivela distruttivo se non si compone in parlamento: «Il regime parlamentare - scrive nel volume La Rivoluzione Liberale -, nonché contrastare a questa legge storica della successione dei ceti e delle minoranze dominanti, non è che lo strumento più squisito per lo sfruttamento di tutte le energie partecipanti e per la scelta pronta dei più adatti» (Gobetti 1924c, p. 46).
Gobetti suggerisce una grande distinzione tra due categorie di conflitto: da un lato le «forme di attività e conseguente lotta, più vive, più proficue», che occorre favorire, dall’altro le forme di lotta «che non corrispondono più all'esigenza di lavoro e di progresso» (Gobetti 1919a, p. 1; SP, p. 84), e quindi da abbandonare. Se il giudizio di Gobetti sulla violenza non è univoco e si inserisce nella considerazione generale del suo tempo - la violenza è una manifestazione quasi naturale del processo storico - diversamente almeno tendenzialmente la guerra viene in un primo momento accolta, in un secondo rifiutata. Sia pure in maniera contraddittoria Gobetti avverte che la guerra non svolge più, se mai l’ha svolta, una funzione benefica e che essa è un tipo di conflitto destinato gradualmente a scomparire. All’indomani di una guerra di proporzioni immani e gigantesche afferma che tra le forme di lotta - che non sono «più vive» né «proficue» - «noi comprendiamo la guerra per la guerra esaltata dai nazionalisti; comprenderemo domani magari ogni forma di guerra come confluire di attività esplicantesi in forme brute» (ivi, p. 84).
Il conflitto tra le forze o classi, tra i partiti e i movimenti, tra le élite e i corpi intermedi, ha un valore educativo per le sorti stesse della democrazia. Nel saggio Democrazia Gobetti contrappone la democrazia conflittuale alla democrazia armonica, attaccando la «democrazia dei positivisti» che è l’idea di democrazia adottata dai democratici italiani (si riferisce in particolare a Eugenio Rignano e a Napoleone Colajanni): «Un concetto statico di armonia sociale, concepito secondo analogie biologiche, col pregiudizio dell'evoluzione graduale da accettarsi pacificamente; una democrazia fatta, mentre la nostra è una democrazia da fare» (Gobetti 1924h, p. 77; SP, pp. 676 e 678).
I positivisti «concepiscono la società come armonia, non come contrasto». Si spiega così «l'odio più implacabile» per Marx. La democrazia armonica considera i conflitti, specie quelli tra classi, fenomeni disgregatori dell'«armonia sociale», perciò diseducativi in quanto dissolvono il senso di solidarietà sociale nelle classi popolari, mentre la democrazia conflittuale fa propria la lezione di Marx: «Perciò una democrazia vera deve nascere sul terreno storico del marxismo e i democratici italiani che sulle orme del buon Colajanni imprecano a Marx son fior di reazionari». Ironicamente: «A giudicare dal grado raggiunto di solidarietà sociale se non si accetta il materialismo storico avremo un tutore» (ibidem).
Il principale teorico della democrazia conflittuale in Italia è il maestro di Gobetti, Luigi Einaudi, che, muovendo dalla convinzione liberale che il progresso storico dipende dalla lotta incessante di individui e gruppi, ha riconosciuto la funzione educativa del conflitto tra operai e industriali. Infatti Einaudi attribuisce una funzione positiva al conflitto sindacale che educa i contendenti, e soprattutto gli operai, al senso dell'interesse generale. Tuttavia, al maestro Gobetti rimprovera di non aver colto il carattere politico e non meramente economico della lotta degli operai. Per lui la fecondità del «risveglio operaio» non è da scorgere in «alcuni risultati empirici d'azione socialista» ma nello «spirito autonomista e antiburocratico» (Gobetti 1922f, p. 38; SP, p. 329).
Gramscianamente, per Gobetti, il sindacato «è organo di resistenza, non di iniziativa, tende a dare all'operaio la sua coscienza di salariato, non la dignità del produttore: lo accetta nella sua condizione di schiavo e lavora per elevarlo, senza rinnovarlo, in un campo puramente riformistico e utilitario» (Gobetti 1924c, p. 103). Non sappiamo quale sarebbe stato il posto dei consigli nel «regime di moderna democrazia diretta e laica» vagheggiato da Gobetti. Certo è che, per lui, mentre il sindacato è l'espressione di un contrasto di interessi, diversamente il consiglio si rivela un formidabile strumento di lotta per la conquista del potere politico:

Nel consiglio invece l'operaio sente la sua dignità di elemento indispensabile della vita moderna, si trova in relazione coi tecnici, cogli intellettuali, cogli imprenditori, pone al centro delle sue aspirazioni non il pensiero dell'utile particolare, ma un ideale di progresso e di autonomia per cui egli possa rafforzare le sue attitudini, e cerca di fondare un'organizzazione pratica attraverso la quale la sua classe conquisti il potere (ibidem).

La principale caratteristica della democrazia conflittuale è la formazione continua di nuove classi dirigenti. Nelle sue pagine si incontrano numerosi luoghi dove si assume la formazione di «una classe dirigente più colta» (ivi, Gobetti 1924i, p. 40; SP, p. 626), come scopo dichiarato della propria iniziativa politica. Non a caso, riassumendo «il problema centrale del metodo e della tattica della R.L», nella rubrica Esperienza liberale si pone la domanda: «Ma il nostro compito dichiarato non è appunto la formazione di una classe politica su nuove basi di onestà culturale e di organicità storica?» (Gobetti 1922g, p. 68; SP, pp. 378 e 379). Sta qui il nucleo fondamentale della rivoluzione liberale in un Paese come l'Italia che è sempre stato privo di una lotta politica aperta. Scrive nel Manifesto:

Mancò il primo principio dell'educazione politica, ossia della scelta delle classi dirigenti. Mentre la vitalità dello Stato [s’intende lo stato democratico], presupponendo l’adesione - in qualunque forma - dei cittadini, si fonda precisamente sulle capacità di ognuno di agire liberamente e di realizzare proprio per questa via la necessaria opera di partecipazione, controllo, opposizione (Gobetti 1922d; SP, p. 229).

La nuova classe dirigente avrebbe dovuto nascere dalle lotte operaie ed essere espressione del movimento operaio nascente che è venuto ereditando la funzione libertaria originariamente esercitata dalla borghesia. Icasticamente Gobetti afferma: «Per noi la democrazia è il regno dell’iniziativa» (Gobetti 1922h, p. 32; SP, p. 309). Il modello che egli ha in mente è l'Inghilterra:

L’iniziativa e il contrasto sono i soli giudici autorizzati. Si possono migliorare i conflitti delle classi: per esempio i conflitti in Inghilterra si svolgono su un piano diverso dai conflitti italiani. Ma questo è problema di stile e lo stile non s'impara; si conquista con gli esperimenti del ‘19 e del ‘20, tanto aborriti dai nostri democratici (Gobetti 1924, p. 9; SP, p. 573).

In Gobetti ricerca teorica e azione pratica sono attività interdipendenti nel senso che la nozione di classe dirigente occupa un posto di primo piano, come si è visto sia nella sua teoria che nel suo programma politico. Intesa come un ideale da perseguire, l’élite che avrebbe dovuto scaturire dall’«iniziativa popolare diretta» diventa il fine della rivoluzione italiana. Agli occhi di Gobetti il fascismo è stato la reazione alla rivoluzione in corso e un brusco arresto di quel processo. Mi sembra di poter ritrovare qui una delle radici del suo antifascismo: nell'ideale politico di una nuova classe dirigente, espressa principalmente dal movimento operaio, in antitesi alla vecchia classe dirigente, responsabile della malattia mortale del fascismo.
La previsione che ritroviamo nelle conclusioni dell’articolo Democrazia (1924), dopo vent’anni di fascismo storico e a fronte della persistenza del fascismo eterno, si rivela una utile avvertenza da non dimenticare: «La democrazia nascerà [e prospererà, aggiungiamo noi] come conseguenza della maturazione capitalistica e della lotta tra i partiti. Oggi possono lavorare per prepararla i partiti che combattono senza tregua il fascismo per seppellirlo» (Gobetti 1924h; SP, p. 678). Allora, al tempo di Gobetti e dei suoi eredi per farla nascere, oggi al tempo nostro per - la democrazia - consolidarla e renderla duratura negli anni a venire.


Bibliografia

1. Opere di Piero Gobetti

P. Gobetti (1926), Le Università e la cultura, Torino, in “Conscientia”, 23 gennaio (anche in SP).
- (1925), Lettera a Parigi, RL, a. IV, n. 37, 18 ottobre 1925 (anche in SP).
- (1925a), Difesa storica della proporzionale, RL, a. IV, n. 5, 1 febbraio (anche in SP).
- (1924), Spirito e realtà, in “La Rivoluzione Liberale” (d’ora in poi RL), a. III, n. 3, 15 gennaio 1924, p. 9; poi in Id. (1997), Scritti politici (1960), Einaudi, Torino (nel testo SP).
- (1924a), Come combattere il fascismo, RL, a. III, n. 30, 22 luglio (anche in SP).
- (1924b), Un conservatore galantuomo, RL, a. III, n. 18, 29 aprile (anche in SP).
- (1924c), La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, nuova edizione a cura di E. Alessandrone Perona, con un Profilo di Piero Gobetti di P. Spriano, Einaudi, Torino 1983; poi con un saggio di P. Flores d'Arcais, Einaudi, Torino 1995.
- (1924d), Sindacalismo e statali, RL, a. III, n. 18, 29 aprile (anche in SP).
- (1924e), Dopo le elezioni, RL. a. III, n. 16, 15 aprile (anche in SP).
- (1924f), Antifascismo etico, RL, a. III, n. 8, 19 febbraio (anche in SP).
- (1924g), Gruppi della Rivoluzione Liberale, RL, a. III, n. 18, 8 luglio (anche in SP).
- (1924h), Democrazia, RL, a. III, n. 20, 13 maggio 1(anche in SP).
- (1924i), Guerra agli apolitici, RL, a. III, n. 10, 4 marzo (anche in SP).
- (1924l), La filosofia di un fascista mancato, RL, a. III, n. 3, 15 gennaio (anche in SP).
- (1923), Note alla Settimana cattolica, in “Conscientia”, 27 settembre (anche in SP).
- (1923a), La nostra cultura politica, in “La Rivoluzione Liberale”, a. II, 8 marzo (anche in SP).
- (1922), Politica e storia. Polemica sul Manifesto, RL, a. I, n. 3, 25 febbraio (anche in SP).
- (1922a), Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale, RL, a. II, n. 6, 26 marzo (anche in SP).
- (1922b), Per una società degli apoti [I], RL, a. I, n. 28, 28 settembre (anche in SP).
- (1922c), Ai lettori, RL, a. I, n. 1, 12 febbraio (anche in SP).
- (1922d), Manifesto, RL, a. I, n. 1, 12 febbraio (anche in SP).
- (1922e), Esperienza liberale [III] Governo e volontà collettiva, RL, a. I, n. 9, 16 aprile (anche in SP).
- (1922f), Il liberalismo di Luigi Einaudi, RL, a. II, n. n. 10. 23 aprile (anche in SP).
- (1922g), Esperienza liberale, RL, a. I, n. 18, 18 giugno (anche in SP).
- (1922h), Esperienza liberale [II], a. I, n. 8, 9 aprile (anche in SP).
- (1920), La rivoluzione italiana. Discorso ai collaboratori di “Energie Nove”, in “L’Educazione Nazionale”, 30 novembre (anche in SP).
- (1919), Verso una realtà politica concreta, EN, serie II, n. 2, 20 maggio (anche in SP).
- (1919a), La nostra fede, EN, serie II, n. 1, 5 maggio (anche in SP).
- (1918), La questione jugoslava, “Energie Nove” (d’ora in poi: EN), serie I, n. 1, 1-15 novembre (anche in SP).


2. Altre opere

N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia (1969), nuova edizione accresciuta Laterza, Bari 1996.
F. Grassi Orsini e G. Quagliariello (a cura di), Il partito politico dalla grande guerra al fascismo. Crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell'età dei sistemi politici di massa (1918-1925), il Mulino, Bologna 1996.
P. Polito, L’eresia di Piero Gobetti, Raineri Vivaldelli, Torini 2018, pp. 39-47.


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