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"L'uomo è troppo bello per l'uomo che contempla": Nietzsche

MARIA CRISTINA FORNARI
Articolo pubblicato nella sezione Il futuro della natura umana
«Tutta la scienza non è che un tentativo di capire l’uomo, l’elemento antropologico: anzi,
più esattamente, di far sempre ritorno all’uomo per le più impensate vie traverse. Il rigonfiarsi
dell’uomo fino al macrocosmo, per dire infine: “Tu sei alla fine quello che sei”»
(F. Nietzsche, FP 19[91] 1872-1873).

Umano, troppo umano (1878), il “monumento di una crisi” (EH, “Umano, troppo umano” 1), è l’opera cui lo stesso Nietzsche assegna il significativo ruolo di spartiacque tra il suo periodo giovanile e l’aprirsi di nuove prospettive, filosofiche e metodologiche. Abbandonate le menzogne idealistico-metafisiche che lo avevano irretito fino a quel momento, Nietzsche avverte ora l’esigenza di volgersi alla storia, alla scienza, alla psicologia, per illuminare non solo le reali origini di ciò che tradizionalmente viene stimato superiore e sovra-storico, ma in particolare il ruolo dell’umano nel disegnare e dipingere un mondo che non è fatto a suo uso e consumo, ma che senz’altro diviene a sua misura. Forte della lezione del neokantismo contemporaneo (in particolare di Friedrich Albert Lange, per il quale la gnoseologia kantiana era stata confermata, sul piano sperimentale, dagli sviluppi e dalle scoperte della fisiologia degli organi di senso, allorché questa indicava nella nostra organizzazione psicofisica la condizione di ogni processo conoscitivo) e informato della teoria darwiniana – una “concezione di prim’ordine” che ritiene valida, sebbene terribile nelle sue conseguenze eversive –, Nietzsche immagina l’uomo (sulla scorta dei contemporanei studi di etnografia e di antropologia comparata, “l’uomo dei primordi”) come un essere naturale alle prese con un ambiente ostile e sfuggente, sottoposto alle continue oscillazioni della paura e costretto a ritagliarsi più o meno consapevolmente un mondo funzionale alla propria sopravvivenza, a costo di abiurarne la “verità”. Dalle fissazioni convenzionali del linguaggio (di cui Nietzsche si è occupato fin dallo scritto inedito del 1873 Su verità e menzogna in senso extramorale), alle premesse della matematica, fino alle «preziose, terribili, piacevoli» ipotesi religiose e metafisiche, tutto il nostro mondo altro non è che il risultato di una collezione di letture fantastiche e grossolane del reale, il prodotto di «antiche abitudini della sensazione» con le quali abbiamo cercato di venire a capo della nostra incerta e difficile esistenza; l’universo del senso comune è un universo di illusioni, frutto dell’errore e della fantasia (il “cattivo riconoscere” e “l’erroneo identificare”) con cui l’uomo si è accostato alla realtà, manipolando l’esperienza e intervenendo nella sua strutturazione (cfr. MA 16 e 32; FW 110).
L’uomo come essere naturale, dunque, che non solo ha visto sfumare la propria boria antropocentrica («Una volta si cercava di pervenire al sentimento della sovranità dell’uomo, indicando la sua origine divina: questa è ora divenuta una via proibita, poiché alla sua porta c’è la scimmia accanto ad altri orribili animali, e digrigna intelligentissima i denti come per dire: non oltre in questa direzione!»: M 49. Cfr. anche WS 14), ma ai cui occhi si è ormai svelata l’origine “umana, troppo umana” di tutto ciò che sembrava costituirne l’eccellenza («stimare le verità piccole e non appariscenti, che furono trovate con metodo severo, più che non gli errori letificanti e abbaglianti, dovuti a età e uomini metafisici e artistici», per Nietzsche costituirà sempre più il segno di una cultura superiore: MA 3).
L’uomo di Nietzsche è dunque necessariamente un uomo storico: il contrario di una aeterna veritas, di un’entità fissa in ogni vortice, di una misura certa delle cose; le sue categorie, persino le sue facoltà, si evolvono e si muovono con lui, tanto da non permetterci più di appiattirne la ricchezza e la complessità sulla modesta conoscenza che abbiamo della sua forma attuale (MA 2): e se, come apprenderemo dalla Genealogia della morale, «definibile è solo ciò che non ha storia» (GM II, 12), allora è vano azzardare una definizione della sua “natura” e meglio si comprende la delusione di Karl Löwith di fronte a quella che sente come una sorta di antropologia mancata (cfr. Rossini 2003, p. 82 ss.).
Se c’è qualcosa di pertinente alla “natura umana”, tuttavia, è il suo carattere latu sensu poetante. Le costruzioni menzognere a cui dà vita, «ciò che ora noi chiamiamo il mondo, è il risultato di una quantità di errori e fantasie che sono sorti a poco a poco nell’evoluzione complessiva degli esseri organici, e che sono cresciuti intrecciandosi gli uni alle altre e ci vengono ora trasmessi in eredità come tesoro accumulato in tutto il passato» – ma come tesoro: perché il valore dell’umanità riposa su di esso (MA 18).


I quattro errori. L’uomo è stato educato dai suoi errori: in primo luogo si vide sempre solo incompiutamente, in secondo luogo si attribuì qualità immaginarie, in terzo luogo si sentì in una falsa condizione gerarchica in rapporto all’animale e alla natura, in quarto luogo escogitò sempre nuove tavole di valori considerandole per qualche tempo eterne e incondizionate, di modo che ora questo, ora quello degli umani istinti e stati, venne a prendere il primo posto e in conseguenza di tale apprezzamento fu nobilitato. Se si esclude dal computo l’effetto di questi quattro errori, si escluderà anche l’umanesimo, l’umanità e la «dignità dell’uomo». (FW 115)


Per il fatto che «da millenni abbiamo scrutato il mondo con pretese morali, estetiche e religiose, con cieca inclinazione, passione o paura, e abbiamo straviziato nel pensiero non logico, questo mondo è diventato a poco a poco così meravigliosamente variopinto, terribile, profondo di significato, pieno d’anima e ha acquistato colore – ma i coloristi siamo stati noi» (MA 16). L’intelletto umano, trasferendo nelle cose le sue erronee concezioni fondamentali, ha dato vita a un mondo ingannevole quanto seducente, dal quale la “severa scienza” potrebbe liberarci solo pagando il costo altissimo del disincanto. Soprattutto in Umano, troppo umano, Nietzsche è ben consapevole del debito contratto dall’uomo nei confronti di ciò che, alla fredda luce della scepsi, appartiene all’ambito della non-verità: bisogna essere in grado di guardarvi con gratitudine e riconoscere «come di là sia venuto il miglior progresso e come, senza un tale movimento all’indietro, ci si priverebbe dei migliori risultati finora ottenuti dall’umanità» (MA 20).
L’operazione di smascheramento portata avanti da Nietzsche a partire da Umano, troppo umano, ricolloca dunque l’uomo – in particolare l’uomo morale, «che non è più vicino al mondo intelligibile (metafisico) dell’uomo fisico» (MA 37) – darwinianamente al suo posto tra gli esseri naturali («L’uomo, un animale multiforme, mendace, artefatto e non trasparente, inquietante per gli altri animali più per l’astuzia che per la forza...»: JGB 291), cercando di restituirgli l’innocenza che pertiene alla natura. Si tratta di una conoscenza purificatrice, che se da un lato provoca angoscia e smarrimento, dall’altro ci permetterà di pascerci di noi stessi «come di uno spettacolo», senza più il pungolo della responsabilità di dover essere non solo natura o più che natura (cfr. MA 34 e 107).


Anche nei pensatori di mente più libera si insinua la mitologia quando parlano della natura. La natura dovrebbe aver previsto, desiderato, essersi rallegrata di questo o quello oppure: «La natura umana dovrebbe essere assai maldestra, se…». Volontà, natura sono rimasugli della vecchia credenza negli dèi. (FP 23[18] 1877)


Se da un lato c’è dunque il lavoro minuzioso della filosofia storica (che «non è più affatto pensabile separata dalle scienze naturali»: MA 1), dall’altro, tuttavia, la morale prosegue la sua opera pervicace. In un mondo ormai scristianizzato (o forse “ultracristianizzato”: M 132), preclusa la divinità dell’origine, sono le morali laiche del positivismo, dell’utilitarismo, dell’evoluzionismo, ad assegnare all’uomo una nuova sacralità, quella della sua destinazione. I “teorici del fine dell’esistenza”, contro i quali si dirigono le dure critiche di Nietzsche, pretendono di affidare all’uomo nuovamente un compito, una direzione, una meta, alterandone così la condizione di innocente naturalità:


[…] l’umana natura è stata in complesso trasformata proprio attraverso questa comparsa sempre rinnovata di quei teorici del fine dell’esistenza […]. L’uomo è divenuto gradatamente un fantastico animale che deve assolvere ad una condizione di esistenza in più rispetto a ogni altro animale: di quando in quando l’uomo deve ritenere di sapere perché esiste, la sua specie non può prosperare senza una periodica fiducia nella vita! Senza credere alla ragione nella vita. (FW 1)


Il finalismo che Nietzsche aspramente combatte è quello della morale naturalistica contemporanea, in particolare il sistema evoluzionistico spenceriano (cfr. Fornari, 2006). È Herbert Spencer il principe degli «esaltatori del finalismo della selezione» (FP 11[43] 1881), che vede lo scopo dell’uomo – e dunque il culmine del suo dovere morale – nel conformarsi ai dettami della natura, che lo spinge ad un sempre maggior adattamento di organi e funzioni all’ambiente, in vista della promozione e della salvaguardia della vita. Il compito dell’utilitarismo razionale è, in altre parole, per il filosofo inglese, quello di svelare quali azioni si conformino all’evoluzione biologico-culturale, per dare loro una valenza normativa quali mezzi più adatti a realizzare il nostro fine più proprio; fine che, tuttavia – e qui si appunta maggiormente la critica nietzscheana – si mostra come preventivamente, se non pregiudizievolmente, posto.


«Che cos’è il bene per un essere? L’adempimento del suo fine. Qual è il fine di un essere? Lo sviluppo della sua natura». Natura, fine, bene di un essere – tre domande che si implicano in successione logica: in modo che il bene è determinato dal fine, il fine dalla natura. Se si conosce la natura umana mediante osservazione e analisi se ne può dedurre il fine, il bene, la legge. Infatti il bene implica dopo di sé l’idea del dovere. Ciò vuol dire: il fine dell’uomo è lo sviluppo della sua natura. «Essere uomo e non cavallo». Non vuol dir nulla. E allora si ricorre alla «vera natura», una natura quale deve essere per lui, non quale essa è. (FP 6[136] 1880)


La morale, in particolare la laica morale moderna, tradisce una cattiva circolarità, pretendendo che la natura umana risponda alla definizione funzionale che, di questa, gli stessi moralisti hanno dato in base alla loro scala di valori. L’uomo che ne risulta è un uomo adattato (di contro all’uomo non definito, non ancora stabilizzato [festgestellt] di Nietzsche), di cui è palese l’inclinazione gregaria; un uomo in cui gli istinti naturali vengono mortificati in favore di una scelta di valori artificiosa e predeterminata – altruismo, mutuo aiuto e socialità – e la cui attuale costituzione – derivata dalla stabilizzazione di tale «naturale, troppo naturale progressus in simile, la prosecuzione dell’uomo nel simile, nel consueto, nel medio, nel gregario» (JGB 268) – viene imposta come il risultato ultimo dell’evoluzione biologica. Se per Spencer, dunque, «l’uomo morale è colui le cui funzioni sono tutte compiute in un grado opportunamente adattato alle sue condizioni di esistenza» (Spencer 1904, pp. 68-69), Nietzsche ritiene invece che tale adattamento mortifichi le reali possibilità di progresso ancora aperte:


Io dubito che quell’uomo durevole, che il finalismo della selezione della specie alla fine produrrà, sia qualcosa di molto più elevato di un Cinese. Tra le combinazioni, molte sono quelle inutili e, riguardo a quel fine della specie, periture e inefficaci – ma superiori: a questo vogliamo fare attenzione! Emancipiamoci dalla morale del finalismo della specie! Evidentemente lo scopo è quello di rendere l’uomo uniforme e fisso, come è già accaduto per la maggior parte delle specie animali; queste si sono adattate alle condizioni della terra, ecc., e non si trasformano sostanzialmente. L’uomo si trasforma ancora – è in divenire. (FP 11[44] primavera-autunno 1881)


L’individuo perfettamente adattato, per come se lo augurano il positivismo e l’evoluzionismo imperanti, significa per Nietzsche la chiusura di ogni sperimentazione con la “forma uomo” e l’esaurimento della sua forza vitale: solo nature imperfette e duttili permettono invece un reale sviluppo, inteso come crescente ricchezza e complessità. Sono infatti le ferite inferte in una struttura troppo salda a lasciar penetrare, come un farmacon, elementi destabilizzanti, ma in grado di rinvigorire e di far progredire l’organismo che riesca ad assimilarli (MA 224). E l’uomo, animale gregario e insieme animale malato, è anche l’animale innovante per eccellenza, in quanto investito di possibilità di vita assolutamente inedite.
Nietzsche è ben consapevole, dunque, che la natura umana, per come la conosciamo, non è un primum o un unicum, ma il risultato di un processo di sperimentazione: l’uomo, per come ci è stato consegnato dalla storia evolutiva, è solo il frutto di un lungo episodio – costellato da violenza e crudeltà, come insegnano le tre dissertazioni di Genealogia della morale – che Nietzsche non dispera possa evolversi nell’avvento di un tipo superiore. Frutto del caso, ma ancor più di un disegno in qualche misura consapevole di cui lo stesso Nietzsche non sembra avere del tutto chiare le linee, all’uomo adattato e “rimpicciolito” tipico della modernità dovrà subentrare l’uomo «sintetico, assommante, giustificante», consapevole della necessità del proprio sguardo prospettico, in grado di infrangere la rigidità delle strutture gregarie e di riconfigurare il proprio tessuto pulsionale attorno a prospettive nuove e inconsuete («Il mio concetto, la mia immagine per questo tipo è, come si sa, la parola “superuomo”»: FP 10[17] 1887. Cfr. Fornari 2004). Non si deve dimenticare, infatti, che il terreno concreto su cui si giocano queste dinamiche è la mirabile complessità del corpo – Leib – «parola che dice il legame indissolubile che unisce il corpo e la vita» (Sokologorsky 2012, p. 70). L’uomo, un sistema psico-fisico che solo in maniera riduttiva e impropria si può intendere come tale, è il gioco incessante delle sue pulsioni, l’equilibrio dinamico degli innumerevoli centri di forza che lo costituiscono, un “frammento di forza vitale” che trova nella “grande ragione del corpo” un’apparenza di unità. La sua natura, nel linguaggio dell’ultimo Nietzsche, è volontà di potenza – “un’altra parola per dire vita” – della cui meravigliosa complessità possiamo cogliere solo una ridotta superficie.
Tutt’altro che una riduzione materialistica – mera affermazione di una molteplicità irriducibile di forze, come volevano certe letture post-deleuziane – l’uomo auspicato da Nietzsche è piuttosto un complesso sistema autopoietico che continuamente si autodefinisce e si rinnova. «Diventa ciò che sei», il motto pindarico che Nietzsche sostituisce al pretenzioso nosce te ipsum, invita in maniera quasi paradossale ad una costruzione consapevole della propria forma di vita che abbracci il proprio ineluttabile destino (amor fati) e insieme lavori per una nuova natura umana che tenga conto – e si faccia vanto – delle proprie contraddizioni (M 468) e delle sue plurime possibilità:


Il molto plasmare riguardo all’uomo, cavar fuori la specie di multilateralità dell’uomo, infrangerlo quando un tipo particolare ha raggiunto il massimo sviluppo – dunque creare e distruggere – mi sembra il più alto godimento che gli uomini possano provare (FP 34[179] 1885).


Non sembra troppo lontano, dunque, Löwith, quando, riflettendo con Nietzsche, vede proprio nella mutevolezza della natura umana, e non in una sua presunta staticità ontologica, «l’unica speranza e l’unico futuro» per attingere alla sua determinazione. Da una “naturale” situazione di fatto («noi ora siamo così»), si tratterà di domandarci «che cosa ancora può scaturire dall’uomo» a partire dalle sue effettive possibilità, collocando in un futuro ancora a venire, ancora tutto da sperimentare, la sua definizione originaria e più propria (cfr. Rossini 2003, p. 86 ss.). Per Nietzsche si tratterà, ancor più, di superare l’uomo – quest’uomo –, di vederlo e volerlo non come scopo, ma passaggio e tramonto: proprio nel suo costituire un ponte verso una nuova natura risiedono le ragioni della sua grandezza (Za, “Prologo” 4), proprio nel suo non poter essere ridotto ad un’entità determinata, quelle del suo incanto.


Troppo bello è l’umano. «La natura è troppo bella per te, povero mortale» – questo è non di rado il nostro sentimento: ma un paio di volte, nel contemplare intimamente tutto l’umano, la sua pienezza, forza, delicatezza e complessità, ebbi l’impressione di dover dire in tutta umiltà: «anche l’uomo è troppo bello per l’uomo che contempla!» – e invero non solo l’uomo morale, bensì ogni uomo (VM 342).


Riferimenti bibliografici

Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1964 sgg. Le singole opere sono state indicate con le sigle adottate nell’edizione critica: MA = Umano, troppo umano; VM = Opinioni e sentenze diverse; M = Aurora; FW = La gaia scienza; Za = Così parlò Zarathustra); JGB = Al di là del bene e del male; GM = Genealogia della morale; EH = Ecce homo; FP = Frammenti postumi.
Fornari M.C. (2006), La morale evolutiva del gregge. Nietzsche legge Spencer e Mill, ETS, Pisa.
Fornari M.C. (2004), «Superuomo ed evoluzione», in: Nietzsche e la provocazione del superuomo, a cura di F. Totaro, Carocci, Roma.
Rossini M. (2003), Karl Löwith: la questione antropologica; analisi e prospettive sulla “Menschenfrage”, Armando, Roma.
Lange, F.A. (1866), Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart, Iserlohn und Leipzig. Nella biblioteca personale di Nietzsche l’edizione del 1887.
Sokologorsky, I. (2012), «Le fil conducteur du corps selon Nietzsche», in Alvearium, 5, pp. 63-79.
Spencer, H. (1979), Die Thatsachen der Ethik, E. Schweizerbart’sche Verlagshandlung (E. Koch), Stuttgart. Nella biblioteca personale di Nietzsche.
Spencer, H. (1904), Le basi della morale, a cura di G. Salvadori, Bocca, Torino.



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