Quella di "operaismo italiano" è nozione che rimanda anzitutto a una grande e profonda pluralità. In essa sono infatti strettamente intrecciate la dimensione della teoria operaista, a sua volta plurale perché irriducibile a un ambito disciplinare e mai "codificata" in scuola di pensiero accademica, con quella della esperienza politica dell'operaismo, anch'essa plurale perché illeggibile attraverso la semplice lente dell'appartenenza politica e segnata invece da percorsi biografici assai differenti e da singolari intrecci generazionali. Entrambe queste dimensioni si complicano poi ulteriormente in relazione alla profondità temporale. Sicuramente esse hanno un forte nucleo politico e concettuale ben radicato negli anni Sessanta del Novecento – fra il primo numero dei "Quaderni rossi" del 1961 e l'ultimo di "classe operaia" del 1967 – nell'ambito del marxismo e dentro, ma al margine, del movimento operaio occidentale. Tuttavia taluni considerano l'esperienza esaurita già nel 1967, per altri essa dura anche tutto il decennio successivo e per qualcuno è una scommessa ancora oggi aperta. Senza entrare nel merito di questo vivace dibattito, si tratta qui semplicemente di segnalare come – in particolare negli ultimi dieci anni e in seguito anche all'affacciarsi di "nuovi movimenti globali" – questa esperienza di pensiero sia oggetto di una consistente ripresa di interesse, anche internazionale, che ha riguardato sia la sua vicenda storica, sia lo sforzo di leggere e agire politicamente il presente attraverso categorie e concetti mutuati dall'operaismo. Quale che sia il giudizio su questi tentativi, si deve riconoscere che se l'esperienza politica dell'operaismo italiano è anche la storia di drammatiche sconfitte, quella della teoria operaista sembra essere in qualche modo la storia di una vittoria. Davanti alla dismissione clamorosa di quasi tutto il pensiero critico marxista prodotto nel Novecento, questa sua corrente pare infatti conservare, in questo nostro tempo, fascino e significati non soltanto storici.
Si può vedere il destino plurale dell'operaismo italiano già inscritto nelle sue origini. Gli operaisti prima dell'operaismo sono universitari romani del Pci che guardano a Lucio Colletti nella sua prosecuzione del lavoro teorico di Galvano Della Volpe, sono socialisti morandiani critici dello stalinismo, sono sociologi torinesi di formazione weberiana, sono seguaci della ricerca etnografica di Danilo Montaldi, internazionalista che aveva lasciato il Pci già alla fine degli anni Quaranta, sono fenomenologi riuniti intorno a Enzo Paci nella ricerca di un incontro possibile fra Husserl e Marx.
La teoria operaista, si è detto, è immediatamente anche una vicenda politica, un'esperienza storica, e come tale custodisce momenti che la raccontano, date che la segnano e le imprimono bruschi tornanti. 1956: la temperie che va dalla denuncia di Chrušc?v dei crimini staliniani alla repressione sovietica della rivoluzione ungherese chiude un pezzo del Novecento, quello cominciato nell'autunno 1917. L'operaismo italiano è una presa d'atto di questa cesura, è l'ipotesi visionaria e appassionata di riprendere l'assalto al cielo, è il tentativo di riaprire la questione della rivoluzione in Occidente. L'operaismo è il tentativo di reagire alla crisi del movimento operaio degli anni Cinquanta dispiegando una strategia diversa da quella delle sue organizzazioni tradizionali. Perciò è anzitutto una risposta critica alla declinazione del marxismo svolta nell'ambito del Pci: storicista, hegeliana, intrisa di umanesimo, aspirante erede della tradizione idealista nazionale, da De Sanctis a Croce, fino al Gramsci presentato da Togliatti come figura tragica, privata, eroe nazionale edulcorato e forgiato a misura di un partito che, sulla scia della lotta antifascista, si voleva portatore dell'interesse generale del paese, di una democrazia progressiva e di massa, il cui riferimento era il "popolo italiano". A questo marxismo ideologico e filosofico, debolmente connotato in senso di classe, gli operaisti opponevano un ritorno a Marx. Contro i marxismi si trattava di recuperare la caratura materialista di questo pensatore, e metterlo – contaminandolo con il metodo delle scienze sociali – «a confronto non con il suo tempo, ma con il nostro»[1], rintracciarvi una «scienza operaia» all'altezza del capitalismo italiano che veniva trasformato da taylorismo e keynesismo, da mutamenti economici e sociali che il movimento operaio tradizionale sembrava incapace di vedere. L'operaismo è dunque anzitutto un modo di leggere Marx che rompe con gran parte del marxismo occidentale e rifiuta di ricondurne il pensiero dentro gli steccati delle discipline costituite.
In questa prima fase è decisiva la figura di Raniero Panzieri, dirigente socialista e poi punto riferimento del gruppo dei sociologi torinesi, che già nel 1958 con le Sette tesi sul controllo operaio aveva sostenuto la necessità di riportare lo sguardo all'interno della fabbrica per indagare possibili forme e sviluppi della lotta di classe nel capitalismo maturo. Fu Panzieri il fondatore e direttore dei "Quaderni rossi", primo grande coagulo di pensiero operaista, in cui, fra l'altro, si tenterà di rileggere il Capitale come opera scientifica[2]. Scriverà poi Toni Negri: «leggere il Capitale diventa […] l'arma metodica fondamentale della conricerca. […] Qual è la scoperta che sta alla base? Il fatto che il Capitale, e in generale l'opera di Marx, rappresentano il punto di vista operaio»[3].
Contro le vocazioni nazional-popolari, contro il sonno dogmatico dello storicismo, materialista o idealista che fosse, si tratta di assumere un punto di vista, uno soltanto, unilaterale, una posizione specifica da cui guardare l'insieme della società: quella della classe operaia dentro al rapporto di produzione. Questa "pratica teorica" del punto di vista non designa soltanto un'opzione politica, è anche una proposta epistemologica che assume la parzialità come condizione della conoscenza. È l'adagio «quanto più unilaterali tanto più interi»:
«Una nuova grande stagione di scoperte teoriche è possibile oggi solo dal punto di vista operaio. […] Perché la sintesi può essere oggi solo unilaterale, può essere solo consapevolmente scienza di classe, di una classe […]. La verità è che mettersi dalla parte del tutto – l'uomo, la società, lo Stato – porta solo alla parzialità dell'analisi, porta a capire le sole parti staccate, porta a perdere il controllo scientifico sull'insieme»[4].
Il pensiero è sempre collocato, il racconto e l'interpretazione che la totalità offre di se stessa non possono essere che falsi e ideologici, solo il riconoscimento esplicito del punto di vista da cui lo si guarda permette la comprensione del mondo. Il punto di vista è la capacità di individuare un avversario per pensargli contro e in questa contrapposizione schmittianamente politica fra operai e capitale, l'operaismo italiano diventa allora critica pratica dell'universale, della totalità, della dialettica. Nel 2005 Toni Negri ha voluto riprendere questa trontiana parzialità del punto di vista operaio e accostarla al pensiero italiano della differenza, al femminismo di Luisa Muraro: «entrambi muovono dalla considerazione delle forme fondamentali della costituzione dello sfruttamento, dell'uomo sull'uomo e dell'uomo sulla donna. […] in entrambi i casi la pratica sovvertitrice è spinta, in primo luogo, verso il separatismo […] per la prima volta, queste "differenze" filosofiche si scoprivano sul terreno biopolitico (ovvero cominciavano a rivelare il senso politico immediato della vita stessa)»[5].
Più tardi anche Tronti ha sostenuto che «l'operaismo è simile al femminismo, perché ha indicato una sorta di forma mentis radicale rivoluzionaria», perché è «una politica del conflitto e della differenza». E allora, anche dopo il tramonto della classe operaia come soggetto storico e politico, la pratica teorica del punto di vista può essere pensata come «principio regolatore nella intelligenza degli avvenimenti e nella scelta delle decisioni», può continuare a funzionare come un «modo politico di guardare il mondo e una forma umana di comportarsi in esso stando sempre, in un certo modo, da una parte sola»[6].
Torniamo dunque alla storia. A fine giugno 1960 esplode a Genova la rivolta operaia contro il congresso del MSI che porterà al tumulto di Reggio Emilia e alla caduta del governo Tambroni. A fine settembre 1961 esce il primo dei "Quaderni rossi". Nel giugno 1962 riprendono, dopo quasi dieci anni, gli scioperi e le grandi mobilitazioni dei metalmeccanici a Torino, e il 7 luglio, a Piazza Statuto, gruppi di operai assaltano la sede della UIL, che aveva firmato un accordo separato: seguono duri scontri che danno vita a un vivace dibattito nel paese. È una data importante per il movimento operaio italiano. È una data decisiva per gli operaisti. È proprio intorno alla differente valutazione su questo evento e sulla necessità di mettere in campo un intervento politico diretto e più attivo nelle lotte operaie che, nel giro di due anni e dopo appena tre numeri, dai "Quaderni rossi" di Panzieri si separa un consistente gruppo legato a Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Toni Negri, Romano Alquati e Massimo Cacciari. Dalla scissione nasce "Classe operaia", il «mensile politico degli operai in lotta» (1964-67).
"Classe operaia" nasce dunque sull'onda dei fatti di Piazza Statuto e della convinzione che nuovi avanzamenti teorici e politici si possano produrre solo calandosi dentro le lotte. Nei tre anni di vita del giornale principale punto di riferimento teorico del gruppo è Mario Tronti, che nel 1966 pubblica Operai e capitale, vera «bibbia» dell'operaismo. Vi si legge:
«La conoscenza è legata alla lotta. Conosce veramente solo chi veramente odia»[7].
Il punto di vista si dà solo in questo atteggiamento tipicamente operaista, quello che assume la costensività di teoria e azione, del pensare e del comunicare, la piena continuità, nei processi reali, dei momenti economico-oggettivi e di quelli politico-soggettivi. La lotta dentro la fabbrica diviene modello per la ricerca teorica, dal momento che quest'ultima non si dà se non incarnata in un soggetto, se non è in grado di verificare concretamente i propri assunti, se non si misura sul terreno dell'efficacia politica. È una proposta che riguarda l'iniziativa pratica quanto la teoria, è l'abolizione del carattere separato di questi due ambiti: «se il Capitale è nello stesso tempo un'opera scientifica e un momento di azione politica che sposta la realtà oggettiva delle cose, si potrebbe sostenere inversamente che la stessa Rivoluzione d'Ottobre o la Comune di Parigi sono nello stesso tempo un grande movimento pratico e una potente scoperta teorica»[8]. È forse in questa attitudine insieme pratica e teorica, umana e intellettuale che si può riconoscere una sorta di «stile operaista». Una disposizione umana che, nonostante le feroci divisioni, le lacerazioni umane, i radicali dissensi teorici, consente ancora oggi a Tronti di riconoscere «un vincolo peculiare di amicizia politica», il cui cemento è «una ben specifica e determinata e consaputa inimicizia sociale»[9]. Un'inclinazione intellettuale che sembra penetrare fin dentro la prosa operaista, una parola che nasce dal confronto, tenace e costante, con la realtà e con lo sforzo di mutarla, un linguaggio robusto, aggressivo, incalzante, «selvaggio» più che intellettuale, un pensiero che pare plasmato nel clangore metallico della fabbrica, che in esso sembra lavorato, forgiato fino a diventare un arnese potente da scagliare contro il presente.
Al centro della vicenda teorica e politica degli operaisti si colloca quella che loro hanno interpretato come una sorta di «rivoluzione copernicana» sintetizzata nella formula prima le lotte poi lo sviluppo. Scrive Tronti nell'editoriale al primo numero di "Classe operaia":
«Abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie. È un errore. Occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: e il principio è la lotta di classe operaia. A livello di capitale socialmente sviluppato, lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e a esse deve far corrispondere il meccanismo politico della propria riproduzione»[10].
Anteriorità della classe operaia: è una «genealogia invertita» del mondo moderno in cui sono le lotte e i conflitti il vero elemento dinamico, quello che determina i movimenti e lo sviluppo del capitale, che lo spinge all'innovazione e al salto tecnologico. Una tematica direttamente legata a quel concetto di ambivalenza che è altrettanto fondamentale per comprendere gli spostamenti del pensiero operaista fino ai giorni nostri. Ambivalente è anzitutto la figura dell'operaio: forza lavoro dentro il ciclo di capitale, classe operaia contro il rapporto di capitale. Forza lavoro come merce dentro il capitale, classe operaia come soggettività politica contro il capitale: «la merce forza-lavoro come classe operaia: questa è la scoperta di Marx»[11]. Dentro e contro. Questa ambivalenza della posizione operaia rappresenta immediatamente una possibilità politica attiva per la classe operaia, le consente un'accumulazione politica di rivendicazioni, le consente di agire collettivamente in modo politico laddove il capitale funziona soltanto come tecnica. Ma quali erano le forme di questa azione operaia dentro il capitale che imponevano il terreno del confronto politico e dello sviluppo tecnologico? Non certo, almeno all'inizio degli anni Sessanta, le lotte sindacali sui contratti: si trattava piuttosto di «non collaborazione programmatica, passività organizzata, attesa polemica, rifiuto politico», di assenteismo, salto della scocca, sabotaggio. Laddove il sindacato vedeva solo assenza di conflitto si dava invece questa specifica forma di lotta operaia.
Questa «scoperta» della politicità dei comportamenti operai che prendono forma dentro il processo di valorizzazione del capitale, non si sarebbe data senza un altro «tratto» fondamentale dell'operaismo italiano che conduce fino ai giorni nostri ed è indissolubilmente legato al nome di Romano Alquati. Si tratta della declinazione del rapporto immanente fra teoria e pratica politica attraverso una massiccia iniziativa di «inchiesta militante» e di «conricerca». Questo originale intreccio fra marxismo e metodo delle scienze sociali fa sì che l'operaismo degli anni Sessanta sia anche il «romanzo di formazione» di uno spaccato generazionale che racconta l'incontro fra giovani intellettuali e giovani operai[12]. Questi ultimi rappresentano la realtà dell'«operaio massa», figlio dello sviluppo economico fordista: sono giovani operai non qualificati, in gran parte meridionali emigrati per lavorare nelle grandi fabbriche del nord, la trontiana «rude razza pagana», senza ideali, senza fede e senza morale. Gli operaisti cercano di calarsi in quel punto di vista operaio, conducendo l'indagine fin dentro i «laboratori segreti della produzione» per osservarvi i comportamenti materiali, e qui scoprono la realtà dell'odio operaio verso il proprio lavoro. Scoprono che la mancanza di identificazione dell'operaio-massa con il contenuto del suo lavoro non può più essere descritta in termini di alienazione, ma è vero e proprio rifiuto, e qui si colloca la possibilità di spostare la lotta sul piano politico. Si tratta di politicizzare questo rifiuto del lavoro, organizzarlo, declinarlo in quanto «strategia del rifiuto», realizzando così l'incontro «tra alcune pagine marxiane dei Grundrisse e alcune parole operaie all'uscita dal turno di fabbrica, dove trovavi la stessa indifferenza e la medesima ostilità verso il tipo di "opera" compiuta da parte di chi eroga il lavoro dell'industria sotto il comando del capitale»[13]. Si consuma qui la frattura verticale con un secolo di retorica lavorista del movimento operaio, che dell'«etica del lavoro» aveva fatto una delle proprie bandiere. Per questo nessuno degli operaisti si è mai fatto operaio, perché avvicinandosi agli operai hanno incontrato l'odio nichilista per il lavoro e ne hanno fatto il punto di partenza per una lotta politica sul salario come variabile indipendente dalla produzione, leva archimedea per tradurre sul piano politico le potenzialità dei comportamenti di rifiuto degli operai dentro la fabbrica. In questo nichilismo politico scoperto dal punto di vista operaio già riecheggiano i successivi spostamenti di pensiero di Massimo Cacciari, tesi a traghettare nel dibattito filosofico della sinistra italiana le tematiche del «pensiero negativo» (cfr., ad es., Pensiero negativo e razionalizzazione del 1973).
Si vede bene come tutto questo dispositivo teorico parli della possibilità di un'iniziativa politica generale svolta in modo autonomo dalla classe operaia. Emblematico in questo senso è il titolo – Operai senza alleati – dell'editoriale di Negri al terzo numero di "Classe operaia", in cui legge: «ci si chiede con paterna sollecitudine: qual è il "blocco storico" che proponete nella fase attuale della lotta politica della classe operaia? E noi semplicemente rispondiamo: il blocco della classe operaia su se stessa, il blocco della classe operaia contro l'avversario di classe»[14]. È divenuta ormai irrimandabile una discussione compiuta sul tema del rapporto fra la "classe operaia" e il "movimento operaio", cioè le sue istituzioni: il partito e il sindacato. Si tratta di una questione che, con opzioni strategiche differenti, è presente sin dall'inizio: su di essa si consuma ora la nuova scissione e la fine di "Classe operaia". Mario Tronti, che nello scrivere "partito" non aveva mai pensato a qualcosa di diverso dal PCI, è sempre più diffidente nei confronti di possibili derive settarie del gruppo e si va convincendo dell'impossibilità di una precipitazione rivoluzionaria nel breve periodo: matura così una posizione di "entrismo" nel PCI che esplicita nel corso del 1966. Tronti considera (allora come oggi) conclusa l'esperienza dell'operaismo italiano con l'uscita dell'ultimo numero di "Classe operaia" e, negli anni successivi, insieme ad altri, cerca di condizionare dall'interno le posizioni del partito, partecipando negli anni Settanta alla discussione sulla teoria marxista dello Stato e sviluppando il discorso sull'«autonomia del politico» (l'opuscolo omonimo è del 1977). Altri operaisti continuano invece a lavorare sull'idea dell'«autonomia operaia» e a mantenere la medesima direzione di ricerca anche dopo la fine di "Classe operaia", fra essi posizione di primo piano ha Toni Negri, che per tutti gli anni Settanta porterà avanti anche una propria riflessione sullo Stato in aperta polemica con le tesi del PCI (Crisi dello Stato-piano nel 1974, Proletari e Stato nel 1976 e La forma Stato nel 1977). Nonostante il breve tentativo di tenere ancora insieme alcuni aspetti della ricerca teorica nella rivista "Contropiano", le due posizioni sono destinate a divergere sempre più radicalmente. Il gruppo di Negri infatti dà vita prima all'esperienza di Potere operaio (1969-73) e poi a quella dell'Autonomia operaia. In questo ultimo ambito le linee della ricerca teorica e dell'iniziativa politica così come le energie coinvolte superano i confini nazionali per trovare declinazioni locali anche in Germania, Francia e Stati Uniti. La data del 7 aprile 1979 segna poi un brusco punto di arresto che conduce molti esponenti di questo operaismo italiano all'esperienza del carcere, a quella dell'esilio (principalmente) in Francia, e a un silenzio che dura lungo tutti gli anni Ottanta. Ma già all'inizio del decennio successivo nuove riviste prendono vita in Francia e in Italia per sostenere che «un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive comincia a volgere al termine» e che «nella metropoli si affacciano nuove percezioni del presente»[15]. Gli anni Novanta sono infatti forieri di una vivace ripresa e dinamizzazione di metodi e concetti dell'operaismo, proiettati sempre più verso una dimensione internazionale. E quest'ultima consegnerà ai protagonisti di tale ripresa l'etichetta, mai scelta, di «post-operaisti».
Per comprendere forme e direzioni in cui, dagli anni Settanta a oggi, alcuni elementi della teoria operaista sono stati riarticolati e utilizzati si deve fare un ultimo passo indietro e richiamare altre due rilevanti nozioni. Si deve ricordare anzitutto che l'operaismo è anche un modo di leggere Marx intendendo il capitale non come «una cosa» ma come rapporto sociale. Già sul terzo numero dei "Quaderni rossi" si poteva leggere che «il carattere sociale della produzione si è esteso a tal punto che l'intera società funziona ormai come momento della produzione»[16]. Questa attitudine teorica consente di sviluppare in modo dinamico il discorso operaista anche al di fuori della fabbrica analizzando il debordare dei processi di valorizzazione del capitale sulla società nel suo complesso, e quindi di proiettare la concettualità dell'operaismo anche oltre la centralità della fabbrica fordista e dell'operaio massa. Si deve in secondo luogo richiamare il concetto operaista di classe, affatto diverso da una pura aggregazione sociologica e reso irriducibile all'oggettivismo economico dall'idea che siano le lotte operaie a determinare tanto i processi di soggettivazione di classe quanto le traiettorie dello sviluppo capitalista. Questo concetto viene reso ancor più dinamico dalla categoria di composizione di classe, giocata polemicamente contro quella di coscienza di classe. Si tratta di un dispositivo teorico bifronte. Da una parte vi è la composizione tecnica, che designa le specifiche forme storicamente determinate della riproduzione del capitale variabile, ovvero i livelli sociali della riproduzione, la struttura, quantità e qualità dei bisogni della forza lavoro, il suo rapporto con il capitale costante. Dall'altra parte si deve considerare anche la composizione politica, gli specifici fatti e comportamenti politici, sociali e morali che contribuiscono a determinare bisogni, forme di lotta e modalità concrete di esistenza di una classe operaia storicamente determinata. Questo utensile teorico ha permesso agli operaisti di indicare l'avvento della figura dell'«operaio massa» fordista dopo l'«operaio professionale», e consente negli anni successivi di continuare a leggere nella medesima prospettiva i mutamenti delle forze produttive. In particolare è Toni Negri che negli anni Settanta osserva e teorizza il passaggio verso la figura dell'«operaio sociale»: «dinnanzi alle imponenti modificazioni provocate – o in via di essere determinate – dalla ristrutturazione, il corpo di classe operaia si distende e si articola in corpo di classe sociale [...]. Dopo che il proletariato si era fatto operaio, ora il processo è inverso: l'operaio si fa operaio terziario, operaio sociale, operaio proletario, proletario»[17]. In questi anni il lavoro di Negri sembra procedere per scosse che vengono impresse dall'interpretazione del pensiero di grandi autori: Cartesio (Descartes politico o della ragionevole ideologia, 1970) poi Lenin (La fabbrica della strategia: trentatrè lezioni sul Lenin, 1977), i Grundrisse di Marx (Marx oltre Marx, 1979) poi Spinoza (L'anomalia selvaggia, 1981, scritto in prigione). Dall'incontro fra le nozioni di composizione di classe, di operaio sociale e gli studi spinoziani prende piede il lungo lavoro negriano intorno al concetto di moltitudine che, negli ultimi anni grazie alla trilogia scritta insieme allo statunitense Michael Hardt – Empire (2000), Moltitude (2004) e Commonwealth (2009) – è stato al centro di un consistente dibattito internazionale. Osservando il carattere sempre più sociale della produzione Negri ha sostenuto che oggi la «metropoli sta alla moltitudine come, una volta, la fabbrica alla classe operaia»[18]. Concetti su cui ha lavorato anche Paolo Virno, dispiegando un corposo sforzo di abitare dall'interno il terreno della filosofia del linguaggio con prospettive e metodo mutuati dall'operaismo (Grammatica della moltitudine, 2001). Si deve poi segnalare anche che questa attenzione al modo in cui il comando del capitale si dispiega lungo tutta la società ha posto le condizioni per il penetrante incontro fra il post-operaismo e un'altra etichetta del dopo, della transizione, quel post-strutturalismo i cui concetti daranno significative scosse al pensiero post-operaista: si pensi al modo in cui la biopolitica attraversa tutti i recenti lavori di Negri, alla categoria di biocapitalismo su cui ha di recente lavorato, fra gli altri, Andrea Fumagalli, ma anche alla lunga riflessione che Franco Berardi "Bifo" ha sviluppato a partire da tematiche deleuze-guattariane.
È opportuno infine ricordare che le analisi svolte intorno alla rivendicazione del salario come variabile indipendente negli anni Sessanta e del salario garantito negli anni Settanta, hanno poi trovato intorno alla tematica del reddito di cittadinanza una nuova declinazione all'altezza del tempo della precarietà generalizzata, dell'intreccio complesso fra tempo di vita e di lavoro, del carattere sociale e diffuso dei meccanismi di produzione di valore[19]. L'infaticabile indagine dei mutamenti nella struttura produttiva e nella composizione della forza lavoro ha consentito ai post-operaisti di essere fra i primi a confrontarsi con la nozione (altra etichetta di transizione) di post-fordismo, indagandola in particolare attraverso il marxiano general intellect e raccogliendo la sfida di provare ad affrontarla senza nostalgie per il passato, senza limitarsi a invocare il ritorno alle certezze del modello precedente: mi limito qui a richiamare Il lavoro autonomo di seconda generazione (1997) di Fumagalli e Sergio Bologna, e Capitale e linguaggio (2001) di Christian Marazzi. Ma è importante ricordare come in questi anni metodi e concetti operaisti siano stati significativamente declinati anche fuori e oltre l'ambito economico del lavoro e delle nuove forme della produzione. Si pensi agli intrecci con la teoria queer, con le culture della rete e con gli studi postcoloniali. Si pensi in particolare ai lavori sul tema delle migrazioni contemporanee: cito qui solo Sandro Mezzadra che (con Diritto di fuga nel 2001 e con La condizione postcoloniale nel 2008) ha proposto una politicizzazione dei comportamenti di mobilità globale, restituendo al fenomeno, attraverso la categoria di autonomia delle migrazioni, una sua dimensione soggettiva che consente di analizzarlo al di là delle letture centrate solo sulle cause oggettive, economiche, "strutturali", o sulla mera vittimizzazione dei migranti. Su questa strada il post-operaismo incontra i cosiddetti Subaltern Studies, proiettandosi così su una prospettiva compiutamente globale, in un lavoro di "traduzione" che dovrebbe permettere il suo definitivo disancoramento da quelle tensioni sviluppiste ed economiciste che sono naturalmente inscritte nella sua antica matrice italiana. Rimando alle attività e alle riflessioni del collettivo UniNomade2.0 (www.uninomade.org) per uno fra i più significativi tentativi di pensare e agire il tempo presente da questo particolare punto di vista.