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Immaginazione, immagini del mondo e tarda modernità

DIMITRI D’ANDREA
Articolo pubblicato nella sezione Immaginazione e politica.

Premessa

Il dato forse più impressionante della crisi attuale consiste nel silenzio che la circonda. L’afasia della politica dei partiti e delle istituzioni incapace di andare oltre il mantra dell’evocazione ossessiva quanto impotente della crescita e della ripresa come panacee di tutti i mali. Ma anche il silenzio dell’assenza di movimenti, conflitti sociali, forme di resistenza organizzata a difesa delle condizioni materiali di chi ne subisce gli effetti. La politica sembra così la grande assente nello scenario della crisi. Perpetuamente oscillante fra una dimensione istituzionale sottomessa ad imperativi sistemici di varia natura e forme di mobilitazione dal basso effimere e incapaci di prefigurare ricette e strategie al tempo stesso alternative e praticabili. Immobilismo istituzionale e ribellismo dal fiato corto, stanca riproposizione di ricette neoliberiste e populismi urlanti sembrano così essere due facce della stessa medaglia. Due espressioni della stessa incapacità di pensare politicamente in modo diverso. La crisi diviene allora fenomeno essenzialmente privato, tragedia quasi sempre vissuta in solitudine e con esiti non di rado tragici.
Per rendere ragione di questo scenario si evoca spesso il declino delle capacità immaginative della soggettività occidentale. Difficoltà crescente di pensare e agire politicamente sui tempi lunghi, incapacità di immaginare un futuro comune, molecolarizzazione del conflitto (Enzensberger 2007) costituiscono altrettante manifestazioni di un deficit di immaginazione che costituisce il principale indiziato per l’asfissia della politica liberaldemocratica ai tempi della crisi. La latitanza dell’immaginazione come facoltà di critica sociale o come capacità di innovazione politica o istituzionale costituisce, in realtà, più una constatazione che una diagnosi. Rimane, infatti, totalmente irrisolta la questione di quali siano le ragioni di questa atrofizzazione dell’immaginazione. E, più in generale, della sua ineguale distribuzione fra i diversi ambiti delle attività umane. È infatti l’immaginazione specificamente politica e sociale ad essere in crisi.
La mia idea è che la crisi dell’immaginazione politica possa essere compresa a partire dall’intreccio fra la fisionomia dell’immagine del mondo prevalente nelle liberaldemocrazie occidentali e le profonde e molteplici trasformazioni materiali che hanno investito le nostre società sul finire del secolo breve. La tesi che intendo argomentare è che la potenza dell’immaginazione non è una costante antropologica, ma, al contrario, è una grandezza variabile dipendente al tempo stesso da fattori ideali e materiali: dalla fisionomia dell’immagine del mondo e delle condizioni economiche, sociali, tecniche della vita sociale. Proverò, cioè, a leggere la crisi contemporanea dell’immaginazione come il prodotto della combinazione di processi materiali e di trasformazioni delle immagini del mondo che hanno avuto come esito l’indebolimento del soggetto e la conseguente esiguità della rappresentazione del possibile, della capacità di immaginare il nuovo.
Per argomentare questa posizione sarà necessario, in primo luogo, chiarire, in termini generali, natura e funzioni delle immagini del mondo (Badii, Fabbri 2011) e, in secondo luogo, tratteggiare sommariamente le trasformazioni che hanno investito nella tarda modernità sia l’immagine del mondo, sia gli assetti materiali delle società occidentali.


1. Il mondo in immagine

Max Weber è l’autore che più di ogni altro ha valorizzato e dato funzione sistematica alla nozione di immagine del mondo (Weltbild). Anche se è soltanto in uno dei suoi ultimi scritti - la rielaborazione della Introduzione a L’etica economica delle religioni universali in vista della sua pubblicazione nel primo volume dei saggi di Sociologia della religione (Weber 1982) - che Weber fornisce una esplicita ancorché scarna definizione del ruolo e del funzionamento delle immagini del mondo, si può sostenere che l’intera riflessione weberiana sulle religioni universali risulti strutturata dal ricorso alla nozione di Weltbild. Il concetto di immagine del mondo, infatti, definisce la natura e la fisionomia dell’approccio weberiano ai fenomeni religiosi nella sua distanza tanto dagli “opposti materialismi” di Marx e di Nietzsche, quanto da ogni forma di idealismo. Non solo: la nozione di Weltbild è uno degli strumenti fondamentali sia per comprendere la diagnosi weberiana della modernità, sia per ricostruire la risposta che Weber allestisce per scongiurarne gli esiti più perversi.
L’immagine del mondo è essenzialmente un costrutto cognitivo, una conoscenza di qualcosa in forma di rappresentazione. La natura di questa immagine dipende dalla natura dell’oggetto che si sforza di cogliere: il mondo come totalità dei fenomeni che eccede ogni esperienza possibile. Il formarsi un’immagine è, dunque, la specifica modalità cognitiva di ciò che eccede l’esperienza, l’unica forma di relazione con qualcosa che è eccedente oppure indeterminato, comunque inattingibile nella sua oggettività. L’immagine del mondo può essere così il risultato di una pluralità di processi: la selezione di una complessità ingovernabile, l’integrazione rispetto al dato dell’esperienza, la determinazione di ciò che è privo di forma. La formazione delle immagini del mondo integra l’esperienza, ma anche la interpreta, la seleziona. Nelle immagini c’è, dunque, al tempo stesso, di più e di meno di ciò che si esperisce, della pluralità-complessità a cui si accede tramite l’esperienza.
Tratto caratteristico dell’immagine come modalità rappresentativa di qualcosa di eccedente è la sua estraneità alla logica vero/falso. L’immagine del mondo è un sapere che si dà sempre e soltanto nella forma di una credenza. A differenza dell’ideologia, che implica l’idea di una verità possibile, di una oggettività conoscibile una volta squarciato il velo, l’immagine è l’unico rapporto cognitivo possibile con il mondo proprio perché questo è inattingibile nella sua oggettività. Il mondo si dà soltanto in immagine, nella forma della credenza soggettiva, argomentata, ma indimostrabile oggettivamente in quanto relativa a qualcosa di costitutivamente indeterminato.
Le immagini sono, così, rappresentazioni sprovviste di un criterio oggettivo di verità, sono credenze relative ad enti costitutivamente indeterminati e sprovvisti di oggettività. Di queste entità non si dà conoscenza scientifica, ma soltanto immagini. Il mondo è sicuramente la più ampia e in qualche misura la più significativa di queste entità eccedenti ed indeterminate, ma non è certamente l’unica. Entità dello stesso genere sono la storia, la natura, l’uomo. Vere e proprie dimensioni locali, ambiti limitati e parziali del mondo, anche queste sono entità con lo stesso tasso di indeterminabilità. Ma anche la società si dà soltanto in immagine: l’identità di un gruppo politico o sociale, di una nazione - come ben evidenziato da Benedict Anderson (2009) - è una comunità immaginata, un’immagine della società infondata e infondabile, ma reale ed efficace purché creduta. Anche il noi si dà sempre e soltanto in immagine. Abbiamo un rapporto mediato da immagini con tutto ciò che è sprovvisto di oggettività e determinazione.
Weber non fornisce alcuna indicazione sulle facoltà umane che presiedono alla genesi delle immagini in generale e dei Weltbilder in particolare. Questa riottosità non ha soltanto un carattere idiosincratico. Rimanda piuttosto ad uno dei tratti distintivi del discorso weberiano sulle immagini del mondo: l’insistenza sul loro carattere di costrutti intellettuali. L’assenza di interesse per l’origine e per il ruolo delle differenti facoltà umane è legata all’idea che gli effetti pratici delle immagini del mondo dipendono dalle forme della loro sistematizzazione concettuale. L’impatto di un’immagine del mondo sulla condotta pratica non dipende dalla fisionomia di un suo nucleo originario, ma dalla elaborazione concettuale delle categorie fondamentali e dalla loro organizzazione sistematica. Sono i concetti non le intuizioni originarie ciò che conta per comprendere gli esiti pratici di un’immagine del mondo.


2. Perché le immagini del mondo?

Malgrado questo loro “precario” statuto conoscitivo, le immagini soddisfano una fondamentale esigenza di orientamento pratico. Si tratta di credenze di cui non si può ipotizzare un superamento in direzione di una conoscenza scientifica, ma di cui non si può neppure fare a meno. La funzione dell’immagine del mondo consiste, infatti, nel definire la posizione dell’uomo nel mondo come passaggio ineliminabile di ogni tentativo di rispondere alla domanda: come devo agire? Il Weltbild costituisce l’orizzonte ultimo – irraggiungibile, ma inaggirabile – che contribuisce in misura decisiva a modellare la condotta pratica. Le immagini del mondo possiedono, dunque, un valore eminentemente pratico: fissano i tratti generali della condizione umana e consentono di prendere posizione rispetto a ciò che accade. Blumenberg ha efficacemente descritto questa funzione pratica, definendo l’immagine del mondo quella «quintessenza della realtà nella quale e per la quale l’uomo comprende se stesso, orienta le sue valutazioni e i suoi obiettivi pratici, afferra le sue possibilità e le sue necessità e si progetta nei suoi bisogni essenziali» (Blumenberg 2001, p. 15).
Questa funzione è al centro dell’analisi weberiana del ruolo delle immagini del mondo: «la redenzione acquistò un significato specifico soltanto dove fu espressione di un’“immagine del mondo” razionalizzata sistematicamente e di una presa di posizione in base a questa. Infatti ciò che la redenzione, secondo il suo senso e la sua qualità psicologica, voleva e poteva significare, dipendeva appunto da quell’immagine del mondo e da questa presa di posizione. Gli interessi (materiali e ideali), non già le idee, dominano immediatamente l’agire dell’uomo. Ma le “immagini del mondo”, che sono create mediante “idee”, hanno molto spesso determinato, come un deviatore [als Weichensteller] le vie sulle quali poi la dinamica degli interessi continuò a spingere avanti l’agire. Essa stabiliva infatti “da che cosa” e “per che cosa” si volesse e – non si dimentichi – si potesse essere “redenti”» (Weber 1982, p. 240; Vassalle 2012, pp. 146-8).
La conclusione del passo weberiano contiene alcune indicazioni preziose sulla funzione di orientamento delle immagini del mondo al di là del caso specifico dell’analisi delle aspirazioni religiose.
In primo luogo, le immagini del mondo contribuiscono a definire il “per che cosa” del nostro agire, svolgono cioè un ruolo cruciale nella definizione dei nostri obiettivi pratici, nella strutturazione dei nostri interessi e delle strategie possibili per soddisfarli, nella declinazione delle nostre passioni. Si tratta di una funzione delle immagini del mondo recentemente enfatizzata da Sloterdijk in Ira e tempo (2007): passioni ed interessi ricevono la loro determinazione effettiva soltanto quando vengono inseriti in un contesto che ne definisce direzione, strategie, tempi e modalità di soddisfazione. L’ira e le passioni timotiche di cui parla Sloterdijk si traducono in strategie pratiche radicalmente differenti a seconda dell’immagine del mondo all’interno della quale vengono inserite e interpretate. Ciò che differenzia Achille da un giovane ribelle delle banlieu francesi, un cristiano da un comunista non è il potenziale timotico, l’energia pulsionale in sé, ma la diversa forma e direzione che questa assume a partire dall’immagine del mondo. È quest’ultima, infatti, che struttura e indirizza i moti dell’animo, definendo tempi e modi, scopo e mezzi dell’azione.
In secondo luogo, le immagini del mondo svolgono un ruolo decisivo nell’interpretazione della propria condizione e quindi nella definizione delle sfide fondamentali con cui dobbiamo confrontarci. L’immagine del mondo non definisce semplicemente, come ritiene Sloterdijk, le strategie pratiche di chi si percepisce vittima di un’ingiustizia, ma costituisce, più radicalmente, la condizione indispensabile della percezione stessa del torto. Le immagini del mondo non sono soltanto l’elemento decisivo per il governo dell’ira, per la definizione dei suoi obiettivi e delle sue strategie, sono parte integrante delle sue condizioni di possibilità. Nell’ottica weberiana non soltanto la concreta declinazione delle energie emotive, non soltanto l’attivazione politica delle passioni, ma loro stessa insorgenza rimanda al contesto di uno specifico Weltbild. Dove c’è soltanto “natura”, lì non c’è responsabilità e non c’è ingiustizia. I terremoti hanno cessato di costituire uno scandalo per la ragione da quando sono diventati “soltanto” fenomeni naturali. Dove domina la causalità naturale, lì non c’è spazio per un senso etico dell’accadere.
In terzo luogo, l’immagine del mondo ci dice che cosa possiamo sperare. L’immaginazione è, cioè, una funzione delle immagini del mondo. È l’immagine del mondo che identifica lo spazio del possibile, che perimetra l’immaginabile. E questo reagisce non soltanto, com’è più intuitivo, sulla individuazione degli obiettivi della condotta pratica e sui mezzi più idonei a raggiungerli, ma anche sulla percezione stessa di ciò da cui intendiamo liberarci o emanciparci. Contro ogni approccio materialisticamente determinista, Weber difende la tesi che il disagio materiale non è sufficiente a spiegare il sorgere di speranze di redenzione: «Dove non vi fu una profezia con promesse determinate a trascinarle in un movimento religioso di carattere etico, le masse lasciate a se stesse rimasero [...] prigioniere della pesante primitività della magia» (Weber 1982: 237). La speranza di una liberazione dalla sofferenza è condizione della percezione stessa della sofferenza. Dove non c’è speranza di liberazione dal male, lì non c’è neppure percezione del male. La speranza di una liberazione dalla sofferenza non è il prodotto di condizioni materiali, ma un primum movens che non si lascia ridurre a rispecchiamento un disagio materiale.


3. Immagini del mondo e senso

Le immagini del mondo possiedono, dunque, una straordinaria rilevanza per l’agire pratico degli individui, contribuiscono in modo decisivo al loro orientamento etico e politico. Questa prestazione delle immagini del mondo si sviluppa, tuttavia, in forme e modalità significativamente diverse in relazione ai caratteri e alla fisionomia dell’immagine del mondo. In questo senso, possiamo distinguere due distinte tipologie di immagini del mondo in relazione funzione del diverso rapporto che esse intrattengono con la dimensione del senso e con quella dei valori.
I casi storicamente più diffusi sono quelli di immagini che attribuiscono al mondo un senso oggettivo. Di questo tipo sono le immagini religiose del mondo – quelle che costituiscono l’insieme principale di fenomeni storico-sociali su cui si applica la ricerca weberiana. In questo caso l’immagine del mondo consiste nella attribuzione al corso del mondo di un senso etico oggettivo. Il corso del mondo, l’accadere mondano possiede una sua conformità a principi e valori etici e l’individuo è chiamato a prendere atto di questo ordine e a muoversi in conformità con l’esistenza di una regolazione oggettiva diretta ad un fine eticamente qualificato o conforme ad un principio di giustizia. Qui l’immagine del mondo costituisce il fondamento cognitivo dei valori. A questa tipologia di immagini del mondo appartengono non soltanto i grandi sistemi religiosi, ma anche quelle concezioni, molto diverse da quelle religiose, che individuano l’esistenza di un senso oggettivo, ad esempio, dell’accadere storico, come il progresso o il comunismo.
Tuttavia, l’individuazione di un senso oggettivo del mondo non è una caratteristica necessaria delle immagini del mondo. La relazione che l’uomo intrattiene col mondo è sempre mediata da immagini, ma non sempre le immagini restituiscono l’idea di un senso oggettivo del mondo. Ovvero: non tutte le immagini sono immagini del mondo come cosmo dotato di senso. Il nominalismo moderno del mondo come totalità di eventi singolari, del mondo come infinità priva di senso non è meno immagine del mondo del cosmo degli antichi, anche se restituisce un mondo che non è dotato di alcun senso oggettivo. La modernità non si caratterizza per il superamento dell’immagine del mondo in direzione della scienza e di un sapere che prescinde o supera un rapporto con il mondo mediato da immagini. In quanto relativa alla totalità dei fenomeni e non alla singolarità dei processi e dei fenomeni naturali empiricamente dati, l’immagine scientifica del mondo (l’idea che ogni fenomeno abbia cause naturali e che il mondo nel suo insieme non sia governato da un senso) è un’immagine del mondo come tutte le altre.
La modernità costituisce il punto prospettico privilegiato per mettere a fuoco una modalità di condizionamento della condotta pratica da parte delle immagini del mondo diversa e irriducibile alla fondazione dei valori. Seppure sprovvista di qualsiasi capacità giustificativo-fondativa, l’immagine del mondo come totalità priva di senso condiziona ugualmente l’agire pratico. Non interviene nell’indicare il valore o i valori ai quali sia necessario ispirare la propria condotta, ma ne condiziona la concreta declinazione. Qui il ruolo delle immagini del mondo non è di tipo fondativo, ma condiziona ugualmente il modo in cui viene interpretato il rapporto con i valori nella concreta condotta pratica. L’immagine del mondo non decide in questo caso quale valore perseguire, ma condiziona, orienta il modo in cui la relazione con i valore si struttura.
Esempio tipico di questo rapporto fra immagini del mondo e valori è la discussione weberiana intorno all’etica più adeguata all’agire politico (Weber 2004). La decisione fra due modelli opposti e antitetici di normatività, di declinazione del rapporto fra valori e mondo rimanda in ultima istanza all’immagine del mondo. Gli argomenti che Weber utilizza nella critica esplicita all’atteggiamento etico-intenzionale afferiscono, infatti, tutti alla sua immagine del mondo. Di questo, in fondo, si tratta nel riferimento weberiano al racconto del Grande Inquisitore. L’abisso che separa Cristo dal vecchio cardinale di Siviglia non è costruito sulla diversità dei valori (Marini 1988) - entrambi amano il prossimo -, ma sulla diversità dei rispettivi Weltbilder. Se la forma suprema di amore del prossimo sia riconoscerne la libertà piuttosto che preoccuparsi della sua felicità non è questione che perviene ai valori quanto piuttosto ad un modo di intendere come si debba amare il prossimo che rimanda all’immagine del mondo (D’Andrea 2013).
E questo, ancora una volta, non nel senso della individuazione di fondamenti assoluti, ma semplicemente di orizzonti di senso che definiscono oneri e scandiscono chances. L’immagine del mondo a cui Weber aderisce non fonda la scelta dei valori, ma neppure “dimostra”, “impone” il rifiuto di un atteggiamento etico-intenzionale. L’immagine del mondo come infinità priva di senso e come luogo eticamente irrazionale rende onerosa dal punto di vista della giustificazione razionale l’adozione di un atteggiamento pratico di tipo etico-intenzionale, ma non ne impone l’abbandono. Impone infatti a chi lo adotta di rassegnarsi di fronte al fatto che un agire orientato ai valori si traduce nell’esperienza ripetuta della produzione di sofferenza immeritata, di torti impuniti. Questo tuttavia non “dimostra” nulla: segnala difficoltà, impone costi, spinge in direzioni diverse. A tal punto non dimostra, che Weber nel finale della conferenza recupera un ruolo non marginale alla capacità di agire in modo etico-intenzionale.
Se l’immagine del mondo non rimanda necessariamente all’individuazione di un significato oggettivo del mondo, tantomeno implica la sua unicità. Il pluralismo delle immagini del mondo non ne inficia, ma nemmeno ne altera il significato pratico. La modernità non è soltanto l’epoca dell’avvento dell’immagine del mondo come luogo sprovvisto di un senso etico, ma è anche il luogo in cui questa immagine ha convissuto accanto ad immagini del mondo diverse – religiose e non - che raffiguravano il mondo come dotato di un senso oggettivo.


4. Che cosa può un soggetto?

Le immagini del mondo sono, dunque, un elemento decisivo per definire le prestazioni di cui la soggettività è capace. Che cosa può un soggetto è definito essenzialmente dall’intreccio fra le condizioni materiali e il modo in cui le immagini del mondo consentono di interpretare e di reagire a queste condizioni.
Nella prospettiva weberiana l’immagine del mondo è lo strumento che consente una de-antropologizzazione radicale della posizione dell’uomo nel mondo. Le variabili fondamentali del rapporto dell’uomo con il mondo non rimandano ad una più o meno consistente idea di natura umana, ma ad un insieme di assunti cognitivi di carattere contingente. Per Weber non esiste una configurazione antropologica rilevante per il posizionamento dell’individuo nel mondo. Sappiamo che il rapporto è mediato da immagini, ma il contenuto di questi orizzonti non è determinato da altri elementi antropologici. Il suo intento è quello di “neutralizzare l’antropologia”, non perché creda che non esistano costanti antropologiche, ma perché vuole dimostrare che quelle che l’antropologia ha chiamato costanti sono in realtà orizzonti vuoti, direzioni inevitabili dello sguardo i cui contenuti sono determinati da elementi ideali contingenti, ancorché non arbitrari.
La nozione di immagine del mondo costituisce lo strumento essenziale di un approccio che potremmo definire di sociologia morale. La sua prestazione fondamentale non è quella di indicare che cosa dobbiamo fare, ma di descrivere che cosa è realistico aspettarsi che gli individui sentano il dovere di fare, acconsentano ad interpretare come dovere. Vale a dire: quali siano i contenuti etici realmente praticabili dagli individui così come sono dati in un determinato contesto. Se puntiamo a cogliere ciò di cui gli individui di una determinata epoca possono essere capaci, dobbiamo fare riferimento, in primo luogo, alle immagini del mondo.
Ma il tratto che più e meglio differenzia l’approccio weberiano da quello di autori che hanno condiviso il lessico e la rilevanza delle immagini del mondo – da Blumenberg (2001, 2009) a Sloterdijk (2007) – è la relazione con la dimensione materiale. L’influenza che la materialità esercita sull’immagine del mondo viene tuttavia concepita da Weber a partire da tre posizioni che ne distinguono nettamente l’approccio. La prima è una concezione non riduttivistica o economicistica della materialità. La dimensione materiale in Weber non è soltanto quella degli interessi economici, ma comprende innanzitutto aspetti demografici, geopolitici, geografico-fisici. Non solo: l’influenza della materialità sulle immagini del mondo è legata al fatto che ad ogni attività umana continuativa sembra essere connesso in termini di adeguatezza un certo sguardo sul mondo. Una sorta di affinità elettiva fra essere sociale e sguardo sul mondo.
Questo ci introduce alla seconda caratteristica dell’approccio weberiano al nesso fra materialità e immagini del mondo: il rifiuto di qualsiasi determinismo materialista. Qui l’idea è che, comunque concepita, la materialità non determina, ma influenza, condiziona lo sguardo sul mondo. Al di là dei diversi modi di concepirla, le immagini del mondo non rispecchiano l’esistenza materiale. Non sono riducibili a mero riflesso non soltanto perché possiedono una loro inerzia e autonomia rispetto alle condizioni materiali, ma anche e soprattutto perché per comprendere la loro genesi e fisionomia il riferimento alle condizioni materiali non è un elemento sufficiente.
Infine, l’aspetto più significativo: del rapporto fra immagini del mondo e dimensione materiale non si dà teoria. La questione non riguarda soltanto la direzione che dalla materialità va alle immagini del mondo, ma anche quella che dalle immagini del mondo va alla dimensione materiale e alla condotta pratica. Il nesso fra materialità e immagini non è oggetto di una filosofia, ma può essere analizzato e definito soltanto in modo analitico in ciascun singolo contesto. Né idealismo, né materialismo, né alcun altro “ismo”, ma una relazione contingente da ricostruire ogni volta attraverso l’analisi concreta. Le immagini del mondo, più che un oggetto della teoria, sono, dunque, al tempo stesso un problema e uno strumento: oggetto di una analisi e di una genealogia che non può essere precostituita, strumento di analisi e di comprensione di ciò che è possibile per un soggetto in un determinato contesto. La critica weberiana del determinismo marxista è, quindi, soltanto una specifica articolazione del più generale rifiuto di ogni rapporto stabile e predeterminato fra la dimensione ideale e quella materiale della esistenza umana: del rifiuto di una teoria astratta e universalmente (ontologicamente) valida del rapporto fra materialità e immagini del mondo.


5. La tarda modernità

Dal punto di vista delle immagini del mondo, la tarda modernità sembra presentare alcune diversità decisive rispetto ad uno scenario classicamente moderno. Sembra in qualche modo averne semplificato la duplicità, sciolto, per così dire, l’ambiguità. Coglie, a mio avviso, un aspetto costitutivo dell’epoca moderna chi l’ha interpretata nei termini dell’avvento di un’immagine del mondo come totalità priva di ordine e di senso, come esito di quella scomparsa del cosmo che addossa agli uomini il compito dell’autoconservazione, ma assicura loro anche l’illimitata disponibilità del mondo e della natura in particolare (Blumenberg 1992). È, tuttavia, altrettanto vero che questa immagine del mondo tipica della modernità ha convissuto fino alla fine del Novecento, spesso negli stessi individui e spesso in una tensione irrisolta, con immagini del mondo e in particolare della storia che, invece, erano imperniate sull’idea che il mondo avesse un senso oggettivo. La credenza in una direzione del divenire storico offriva una chance oggettiva ai progetti politici di costruzione di un ordine politico e sociale se non perfetto almeno radicalmente migliore. La modernità è stata, così, segnata dall’idea dell’illimitata manipolabilità di un mondo e, segnatamente, di una natura privi di scopo e di direzione, ma, al tempo stesso, anche dall’aspirazione ad un ordine politico e sociale per la cui realizzazione potevano, al contrario, essere mobilitati fondamenti oggettivi, tendenze di sviluppo, forze immanenti. Insomma: il mondo ordinato per cause e la storia provvista di un senso hanno a lungo abitato lo stesso orizzonte epocale.
Almeno nella sua dimensione sociologicamente rilevante questa duplicità si è risolta. La fine delle grandi narrazioni ha segnato la generalizzazione di un’immagine del mondo in cui l’accadere mondano risulta del tutto sprovvisto di una direzione, di un senso oggettivo. Questo cambiamento ha avuto un enorme impatto pratico L’immagine del mondo come totalità sprovvista di un senso oggettivo non è, infatti, in grado di fornire all’agire individuale almeno due risorse fondamentali.
Innanzitutto una forma di assicurazione contro la vanità dell’impegno individuale. Attribuire un senso oggettivo al mondo significa, infatti, disporre di una garanzia se non di successo, almeno di non completa inutilità dei propri sforzi e delle proprie rinunce. Se non nell’arco della vita individuale, almeno nella dimensione del succedersi delle generazioni il fallimento, la delusione, l’insuccesso non costituiscono l’ultima parola: niente di ciò che è stato fatto, dei costi – etici e materiali – che l’individuo ha dovuto sopportare nel suo sforzo di cambiare il mondo sarà stato totalmente vano.
In secondo luogo, il declino delle immagini che attribuivano al mondo un senso oggettivo ha significato il venir meno di qualunque garanzia contro la solitudine e l’isolamento. Il mondo come totalità priva di senso non offre all’individuo alcuna rassicurazione che la sua condotta sia “destinata” ad incontrare l’agire di altri individui, ad essere condivisa, a formare una collettività capace di agire come tale, di formare un soggetto collettivo. L’immagine del mondo che attribuiva al mondo un senso oggettivo offriva, al contrario, la certezza che l’agire individuale avrebbe potuto integrarsi con quello di molti altri, diventare parte di un agire più ampio, contare sul sostegno di altri che si muovono nella stessa direzione.
Da questo punto di vista la fine delle grandi narrazioni ci ha reso più liberi, ma ci ha anche reso più deboli di fronte alla fatticità del mondo. Ha tolto alla soggettività alcune delle risorse che le fornivano la capacità di resistere alla logica dell’esistente.
L’immagine del mondo prevalente nelle società occidentali avanzate non è definita, tuttavia, soltanto dalla scomparsa della fede in un senso oggettivo del mondo o della storia. Un’altra caratteristica decisiva è costituita dalla declinazione esasperatamente soggettivistica della relazione con la dimensione dei valori e più in generale con la trascendenza. Ben al di là delle forme di pluralismo moderato tipiche della modernità, le nostre società occidentali sembrano caratterizzate da forme di singolarismo (Martuccelli 2010), dal diffondersi di un rapporto rigorosamente soggettivo con i valori che accentua l’improbabilità della condivisione e che si traduce in quello che Taylor (1994) ha chiamato l’individualismo dell’auto-realizzazione, la versione narcisistica della cultura dell’autenticità. L’esito inevitabile di questa trasformazione dell’immagine del mondo è stata la crescente difficoltà di definire appartenenze stabili, di dare vita a quelle aggregazioni non effimere che sono il presupposto di un agire politico che aspiri ad una qualche efficacia. Gli effetti debilitanti sulla soggettività occidentale della fine delle grandi narrazioni si sono così sommati a quelli del singolarismo: di una soggettivizzazione radicale del rapporto con il mondo, della produzione di significati, della relazione con la trascendenza.


6. Trasformazioni materiali

In direzione di un indebolimento della capacità di critica - teorica e pratica – della soggettività contemporanea non hanno, tuttavia, operato esclusivamente fattori relativi alla trasformazione delle immagini del mondo. Le trasformazioni materiali che hanno investito il mondo e le società occidentali sul finire del secolo breve hanno non soltanto influenzato tempi e modi dei mutamenti delle e nelle immagini del mondo, ma hanno anche costituito un fattore autonomo di indebolimento della soggettività. Tre mi sembrano i fenomeni che più hanno contribuito a ridurre le capacità immaginative e il potenziale critico della soggettività.
In primo luogo, la saturazione dello spazio come estensione ormai planetaria delle interdipendenze. Tra le tante conseguenze di quel fenomeno che chiamiamo globalizzazione c’è anche una perdita di autonomia e di libertà degli attori: l’aumento dell’interdipendenza cancella lo spazio vuoto in cui l'azione si perde, in cui qualcosa di nuovo può iniziare senza pre-occuparsi delle conseguenze, perché non produce immediatamente effetti su qualcuno e quindi una reazione da parte sua. Nel mondo saturo della globalizzazione quasi niente di quello che facciamo è senza conseguenze sugli altri, quasi tutto quello che facciamo deve tenere presente qualcosa che gli altri hanno già fatto o faranno. Questo comporta una drastica riduzione della capacità di dare inizio a qualcosa che non dipenda da ciò che altri hanno fatto e che non si debba pre-occupare delle conseguenze che avrà sugli altri. Vivere in un mondo saturo, in un globo socialmente pieno significa perdere la possibilità dell’unilateralismo, della scelta non vincolata, non condizionata da ciò che fanno o faranno gli altri (Sloterdijk 2006, pp. 38-41). E questo significa meno capacità di immaginare, meno capacità di iniziare qualcosa di originale. In un mondo pieno si è costretti a dimensionare aspettative e progetti sulle aspettative e i progetti degli altri, quelli che gli altri già hanno e quelli che avranno in funzione delle conseguenze delle nostre azioni.
Un secondo fenomeno che ha contribuito a ridurre il potenziale critico della soggettività contemporanea è costituito dalle conseguenze della rivoluzione neoliberale, dai processi di liquefazione delle grandi aggregazioni sociali del fordismo (Revelli 1995, Bauman 2003, Sennet 1999). L’esito della trasformazione postfordista del capitalismo contemporaneo e della razionalità neoliberale è stata una società a “gruppi di uno” in cui il conflitto sociale – anche quello regolato – ha lasciato il posto alla competizione fra individui isolati che per soddisfare le proprie aspirazioni o soltanto per sopravvivere sono costretti al gioco della competizione in cui non si incontrano alleati.
In terzo luogo, l’immaginazione arranca perché imperversa la complessità. Perché non soltanto è sempre più difficile immaginare qualcosa di nuovo, ma diventa addirittura impensabile individuarne con precisione i mezzi. Processi e fenomeni sociali possiedono ormai una tale inerzia e vischiosità da rendere difficilmente immaginabile non soltanto una loro radicale trasformazione, ma anche più semplicemente l’individuazione dei mezzi necessari a governarli.
Infine, l’immaginazione perde vigore per la seduzione dei beni di consumo, per il fascino dell’abbondanza materiale come realtà del benessere acquisito o acquisibile, come forma universale del benessere desiderato. L’immaginazione è anestetizzata dal potere delle cose che rendono la vita comoda, dalle sirene del possesso, dalle lusinghe del comfort, dalla costante ricerca di piaceri mediati da cose. Si tratta di un aspetto che è stato enfatizzato da autori anche molto distanti tra loro. Il Palazzo di cristallo di Dostoevskij (2005) e la serra del comfort di Sloterdijk (2006), gli ultimi uomini di Nietzsche (1986: 11) che hanno inventato la felicità e quelli di Weber specialisti senza spirito, gaudenti senza cuore (Weber 1982, pp. 192-3) rimandano alla stessa idea di fondo: il venir meno di una tensione con il mondo in presenza di un’abbondanza di beni materiali che garantiscono agio e comodità. Non è vero, si potrebbe dire, che a pancia piena si ragiona meglio: a pancia piena si smette di ragionare. L’immaginazione si atrofizza perché si ha molto da perdere, anche soltanto in aspirazioni. La sazietà (Alagna 2013) anche soltanto attesa costituisce il de profundis dell’immaginazione.


7. Assolutismo della realtà

L’esito di questo insieme di trasformazioni ideali e materiali è, riproponendo in un’accezione diversa una nozione di Blumenberg (1991), un nuovo assolutismo della realtà: un’assolutizzazione del mondo che coincide con una sorta di grado zero dell’immaginazione sociale e politica e con l’esperienza di un’insuperabile costrizione all’adattamento. L’intreccio fra le trasformazioni materiali e quelle intervenute nell’immagine del mondo ci consegna una soggettività estremamente debole di fronte ad un mondo straordinariamente forte. Sganciato da qualsiasi radicamento antropologico, il potenziale dell’immaginazione deve essere pensato come contingente. La tarda modernità è l’epoca in cui un insieme di fattori ideali e materiali ha drasticamente ridimensionato l’immaginazione politica come capacità di innovare, di produrre tipi diversi di condotta, di creare nuovi significati, di “pensare” un diverso funzionamento della politica e della società.
A questo scenario si possono facilmente ricondurre alcuni fenomeni dello scenario politico e sociale contemporaneo. Profondamente diversi per segno e natura.
In primo luogo, il carattere effimero e politicamente improduttivo delle molteplici forme di mobilitazione politica che si sono succedute in questi anni. Gli indignados come i no global, il movimento pacifista internazionale come i diversi occupy something sono fenomeni che testimoniano una capacità di critica e di opposizione all’esistente (anche basata sul riferimento a valori e principi almeno potenzialmente universalistici) che tuttavia non riesce a tradursi in proposte politiche concrete, in strategie politiche volte alla costruzione di soluzioni politiche praticabili. Per non dire poi di fenomeni di “ribellismo” come quelli delle banlieue francesi del 2005.
L’atrofia dell’immaginazione politica descrive, in secondo luogo, il riferimento essenziale per comprendere la direzione sempre più impolitica presa dalle esigenze di impegno etico e civile. Una direzione sempre più lontana dalla politica e sempre più indirizzata verso ambiti di prossimità o scelte puramente individuali in cui il rapporto fra impegno e risultati sia il più possibile immediato e lineare. Non soltanto il vasto mondo del volontariato, ma anche le molteplici forme di impegno nella promozione di una gestione responsabile e sostenibile delle risorse ambientali. Le esigenze di senso che ancora animano la soggettività contemporanea trovano di preferenza soddisfazione nella forma della scelta etica lontana dai riflettori della politica e delle sue istituzioni.
All’assolutismo della realtà rimanda, in terzo luogo, la privatizzazione delle patologie sociali. L’incapacità degli attori politici di indicare alternative, di elaborare risposte credibili ai processi di impoverimento della società e di aumento delle disuguaglianze hanno trasformato il disagio sociale in un fenomeno privato, in una sorta di fatalità. In qualcosa a cui si può far fronte soltanto con strategie individuali o che deve essere accettato come un destino. Quello che è venuto meno nella tarda modernità non è, dunque, la miseria, la privazione simbolica o materiale, il malessere sociale, ma la capacità di trasformare tutto questo in un progetto politico.
All’incapacità di futuro di una politica a corto di immaginazione è riconducibile, infine, il mutamento dello “sguardo sociale”, dalla ricerca dell’emancipazione e del miglioramento della propria condizione materiale e simbolica alla difesa ringhiosa degli spazi di benessere acquisito. Non più l’ira degli umiliati e offesi, ma la paura di chi ha qualcosa da perdere sembra definire l’orizzonte emotivo dell’Occidente.
La risposta a questo insieme di fenomeni differenti per ampiezza e segno assiologico, è stata la politica dell’immediatezza: una politica che si muove sul registro delle ricette facili, della semplificazione illusoria, della disponibilità di soluzioni a buon mercato. Ma soprattutto: della identificazione immediata e semplificante di un responsabile di tutti i mali e della ricerca di efficienza nel problem solving attraverso una drastica riduzione dei meccanismi e delle dimensioni della mediazione politica e istituzionale. È la politica dei populismi, dei simboli vuoti, dell’esemplarità insignificante. Una politica dalla quale, almeno per ora, non si intravede via d’uscita.


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