Premessa
C’è in fondo sempre qualcosa di arrogante nel postulare una fine. E di rischioso. I tempi biografici sembrano costitutivamente inadatti a fornire argomenti conclusivi per svolte epocali che si misurano necessariamente su periodi più lunghi. E poi c’è il discredito da cui sono stati investite le dichiarazioni di “morte” che hanno costellato il Novecento – da quella di Dio a quella dello Stato – prontamente seguite da repentine e impreviste “resurrezioni”. Nonostante ciò, è forte l’impressione che negli ultimi decenni del secolo appena concluso qualcosa sia irreversibilmente mutato nella fisionomia della politica in Italia e più in generale in Occidente, alterandone in modo definitivo il profilo assunto con la modernità. Sicuramente non una morte della politica tout court, ma neanche un mutamento contingente o ciclico, qualcosa di episodico pronto a lasciare presto il campo ad un ritorno dell’identico, ad un ripristino della politica del Novecento. La fine del secolo scorso ci ha consegnato una politica dal fiato corto, segnata da un’entropia della progettualità e dalla crisi di futuro. Una politica spesso ridotta ad amministrazione che, per questa “fiacchezza”, esibisce anche i tratti inquietanti di pratica affaristico-clientelare con una degenerazione crescente della moralità complessiva del ceto politico.
La mia ipotesi di fondo è che sia possibile interpretare la politica contemporanea – in Italia e in Occidente – nei termini di una politica della sazietà, segnata dall’assunzione del benessere materiale come finalità assoluta e dalla mancanza di un riferimento normativo trascendente capace di una critica radicale dell’esistente. L’intento di questo contributo è di individuare le trasformazioni materiali e i mutamenti dell’immagine del mondo che hanno concorso in modo autonomo ma convergente a definire il profilo saturo della politica contemporanea.
Rispetto a questa metamorfosi della politica occidentale in direzione della sazietà l’Italia non costituisce certo un’eccezione. Fra le democrazie europee occidentali quella italiana è stata sicuramente la più novecentesca. Al tempo stesso l’Italia è forse oggi la democrazia europea in cui più veloce e conseguente è il congedo dal secolo breve. La specificità della “via italiana alla sazietà” consiste appunto in questi due aspetti: la repentinità del transito, e l’esemplarità dell’approdo. Da noi la fine della politica del Novecento è stata improvvisa, e si consumata è in forme vistose e in qualche misura estreme. In nessun altro paese dell’Europa occidentale il Novecento è stato così “lungo”, ma al tempo stesso così improvvisamente e radicalmente superato.
1. Saturazione e inerzia
Le radici materiali della politica della sazietà stanno, in primo luogo, in quel doppio fenomeno, spaziale e temporale, di contrazione della libertà e del possibile che si produce con la crescita esponenziale della complessità sociale.
«La terra è satura»[1]. Saturazione allude qui al venir meno di uno spazio vuoto, di una terra di nessuno in cui l'azione si perde, in cui qualcosa di nuovo può iniziare senza pre-occuparsi delle conseguenze su altri che non siano gli autori dell’azione. Saturazione della terra significa riempimento sociale del globo, fine dell’unilateralismo[2]: impossibilità di prescindere dalle reazioni degli altri, costrizione a considerare in anticipo le loro opinioni e i loro orientamenti. Non soltanto ogni azione produce – in linea di principio in tempo reale – una conseguenza sugli altri, ma quest’ultima retroagisce sul soggetto agente a volte nel momento in cui questo sta ancora agendo. Quasi niente di quello che facciamo è senza conseguenze, quasi tutto quello che facciamo rappresenta una reazione a qualcosa che hanno fatto altri. Sempre meno azione, sempre più reazioni, sempre meno capacità di dare inizio a qualcosa che non dipenda da ciò che altri hanno fatto e che non si debba pre-occupare delle conseguenze che avrà sugli altri. Gli spazi saturi della società globale sono il pieno che impone condizioni e limiti. Assenza di vuoto significa dipendenza. La crescita della complessità satura lo spazio e la saturazione dello spazio riduce le possibilità, i margini di libertà dell’attore politico. Vivere in un mondo saturo, in un globo socialmente pieno significa perdere la possibilità dell’unilateralismo, della scelta non vincolata, non condizionata da ciò che fanno o faranno gli altri. In un mondo pieno si è costretti a dimensionare aspettative e progetti sulle aspettative e i progetti degli altri, quelli che gli altri già hanno e quelli che avranno in funzione delle conseguenze delle nostre azioni.
La complessità non produce, tuttavia, soltanto la densità sincronica del pieno. È caratterizzata anche da un’inerzia che erode il futuro. L’inerzia che caratterizza le dinamiche dei sistemi complessi implica uno scarto costitutivo fra chi decide e chi sperimenta le conseguenze delle decisioni, una erosione irrimediabile di ciò che è in nostro potere ad opera non dei contemporanei, ma dei predecessori. In ambiti ad alta complessità e inerzialità le scelte politiche di oggi sono fortemente condizionate da comportamenti e decisioni adottate decenni addietro. Mentre condizioneranno pesantemente le risorse disponibili e le scelte praticabili delle generazioni future. L’adozione di un sistema pensionistico o di un modello formativo, o le scelte in materia di energia e mobilità avranno conseguenze enormi a distanza di decenni e contribuiranno in modo decisivo a definire la condizione delle generazioni future. Vivere in sistemi complessi aumenta la dipendenza dal passato ed erode l’autonomia e la libertà di chi verrà dopo di noi. L’inerzia è la forma in cui la complessità satura il tempo, colonizza il futuro. Denso diviene così non soltanto lo spazio sociale dei contemporanei, ma il tempo e il rapporto tra le generazioni.
2. Dal conflitto alla competizione
Sul finire del Novecento si è andata rapidamente sgretolando, in forme e tempi diversi nei vari paesi europei, la base materiale del conflitto sociale e politico che ha segnato il “secolo breve”. Si è conclusa la stagione del capitalismo taylorista/fordista e del compromesso sociale del welfare state: i “trenta gloriosi”, i tre decenni centrali del Novecento in cui la crescita del profitto si è realizzata attraverso una crescita del numero e della rilevanza economica del lavoro, in cui la concorrenza fra lavoratori si è ridotta al minimo e i rapporti di forza fra capitale e lavoro sono stati sostanzialmente in equilibrio. Il fordismo ha dato vita ad un conflitto economico e politico fra grandi attori sociali in un contesto di relativa semplicità sociale. Bauman ha efficacemente restituito questo scenario in termini di modernità pesante: «La “modernità pesante” fu per l’appunto l’epoca del confronto fra capitale e lavoro, rafforzato dalla reciproca dipendenza: la sussistenza dei lavoratori dipendeva dal lavoro; per riprodursi e crescere, dal canto suo, il capitale doveva assumerli. […] La fabbrica era la dimora di entrambi: da un lato lo scenario di una guerra di trincea, dall’altro la sede naturale di sogni e speranze»[3]. E, sicuramente, di solidarietà sociali forti. Le ragioni di questo legame contraddittorio stanno non in generale nel “capitalismo”, ma nella sua specifica fase taylorista/fordista in cui la concorrenza sul mercato della compravendita della forza-lavoro e i rapporti economici e sociali che intorno ad essa si costruivano erano caratterizzati dalla coincidenza di Stato, economia e società. L’economia e la società erano contenute interamente nei limiti politici della nazione e la crescita era legata alla crescita della domanda interna in condizioni di mercati non saturi e di conseguente possibilità di una grande produzione di massa: il sogno di Henry Ford era quello di dare una Model T, di qualunque colore purché fosse nera, ad ogni americano. Anche in Italia queste costellazioni materiali e di senso della modernità matura sono andate in frantumi a partire dalla fine degli anni Settanta intrecciandosi con l’accelerazione dei processi di globalizzazione.
Molti gli autori che hanno messo a tema questo processo nella sua dinamica economica e sociale: da Bauman[4] a Sennet[5], da Revelli[6] a Pizzorno[7]. Globalizzazione e postfordismo, come risposte a quelli che Tajichi Ohno ha definito gli «affanni della crescita lenta»[8] e dei mercati saturi, hanno eroso la base materiale del lavoro, scomponendo anche fisicamente i luoghi della fabbrica fordista nell’impresa network. I rapporti di forza sul mercato della compravendita della forza-lavoro sono mutati repentinamente perché la competizione capitalistica non può più essere fatta sulla dilatazione delle quantità prodotte, ma sulla compressione dei costi. E tutto è diventato un costo: non solo il prezzo della forza-lavoro, ma anche i sistemi di protezione sociale e l’intera gamma delle politiche di welfare. L’aumento della produttività legato alle nuove tecnologie e la ristrettezza dei mercati hanno reso il lavoro umano una merce in eccedenza e troppo costosa. Il nesso che legava crescita dei profitti e crescita quantitativa dei lavoratori salariati si è spezzato – indebolendo i venditori di forza-lavoro costretti ad inseguire un lavoro sempre più scarso in forme sempre più precarie e dipendenti dalla logica dell’impresa –, e ai “Trenta gloriosi” sono succeduti i “Trente humiliantes” di cui parla Alain Touraine.
La trasformazione del conflitto economico in competizione si è intrecciata con la proliferazione di forme inedite di conflitti organizzati intorno alla tutela di interessi particolaristici radicati, di volta in volta, in un territorio, in un’identità, in una nuova soggettività. Conflitti che hanno natura politica essenzialmente perché indirizzati al potere politico come all’interlocutore in grado di rispondere alle rivendicazioni avanzate, ma che non azzardano nessun discorso su una società giusta, non avanzano esigenze di regolazione che vadano al di là del proprio particolare. Non solo la sindrome NIMBY (non nel mio giardino), o i conflitti sulla collocazione di funzioni non pregiate o sulla distribuzione degli oneri dell’accoglienza, ma anche conflitti per il riconoscimento di diritti che si riferiscono a identità specifiche straordinariamente distratte verso le esigenze di altri gruppi. Proliferano, in altri termini, forme rivendicative e richieste di inclusione chiuse nel proprio particolarismo, anche quando usano il linguaggio universalistico dei diritti e della cittadinanza.
3. Società ringhiosa
Globalizzazione e postfordismo hanno segnato, anche in Italia, la fine di un’idea che aveva dominato la vita delle società occidentali del dopoguerra: l’idea del carattere inclusivo dello sviluppo. Sia pure inegualmente ripartito, lo sviluppo economico comportava vantaggi e miglioramenti della condizione sociale e materiale non soltanto di tutti i soggetti del mondo del lavoro, ma della società nel suo complesso. La fiducia nel carattere inclusivo dello sviluppo economico ha ceduto il passo all’idea che il miglioramento della condizione materiale di alcuni può avvenire soltanto a spese di altri: che le porte d’accesso alla serra del comfort sono porte girevoli in cui accanto a qualcuno che entra c’è qualcuno che esce. Accedere è possibile, è possibile anche in molti modi non legati al lavoro tradizionalmente inteso, ma l’accesso non è universalizzabile.
Per di più, i costi di accesso non sono uguali per tutti. Lo smantellamento della copertura universalistica del welfare, e in generale delle protezioni sociali, ha creato disuguaglianza non soltanto nell’esposizione alla competizione, ma anche nelle regole e nelle condizioni della competizione. Sotto questo profilo l’Italia è un caso esemplare: più che in altri paesi europei le profonde disuguaglianze economiche, sociali, geografiche hanno contribuito allo sfilacciamento del tessuto sociale, alla rottura delle solidarietà tradizionali. Nord e sud, settore privato e pubblico impiego, grande industria e piccola impresa, chi paga le tasse e chi può evadere sono esposti in misura molto diversa alla competizione e la giocano secondo logiche e regole estremamente diverse. Con il risultato che i diritti e le protezioni universalistiche di un tempo vengono percepite oggi come privilegi e la loro difesa come conservazione. Pensare l’uguaglianza ai tempi della fine dello sviluppo e dell’inasprimento della competizione si è rivelato per la sinistra italiana un compito impossibile.
In questo scenario, si è fatto strada negli ultimi decenni il profilo di una società sempre più “ringhiosa”, in cui si lotta e si lotta sempre più duramente per conservare ciò che si ha e si rischia di perdere o si compete per accedere senza solidarietà, attraverso strategie rigorosamente individuali. Bersaglio elettivo della ringhiosità di chi si percepisce a rischio di esclusione, di chi sa di avere più da perdere che da guadagnare dal futuro sono ovviamente gli immigrati. Tanto più minacciosi, quanto disponibili a lavori e stili di vita inaccettabili per gli italiani.
4. A gruppi di uno
I processi materiali sommariamente tratteggiati si sono poi intrecciati e combinati con la radicalizzazione dei processi di individualizzazione. La frammentazione delle identità costruite sul lavoro si è intrecciata con la pluralizzazione degli ambiti rilevanti ai fini della costruzione dell’identità – consumi, stili di vita, scelte sessuali, tempo libero, attività di volontariato – e con l’esplosione di un pluralismo etico compiuto. Nuove soggettività hanno messo in campo non semplicemente nuovi valori o nuove gerarchie di valori, ma anche inedite e a volte contraddittorie declinazioni di valori tradizionali o un tempo condivisi. Si è prodotta una frantumazione delle identità sociali e una polverizzazione delle opzioni etiche resa esplosiva dal carattere intrinsecamente plurale delle stesse identità individuali, segnate spesso dalla coabitazione di appartenenze non soltanto non gerarchizzate e semplicemente giustapposte, ma anche molto spesso intimamente confliggenti.
Il pluralismo delle identità e degli orientamenti di valore ha subìto, inoltre, una dilatazione esponenziale ad opera della moltiplicazione dei significati. In questione qui non è soltanto la valutazione di un’azione in base al suo senso, ma il proliferare di interpretazioni, di attribuzioni opposte e contraddittorie di significato alle stesse scelte, alle stesse azioni. La sensazione complessiva è quella di una Babele di significati e di valutazioni in cui si fa fatica a rintracciare anche quel minimo di condivisione e di comunanza nella interpretazione della realtà sociale e nella valutazione dei comportamenti che è indispensabile a qualsiasi azione collettiva, prima ancora che propriamente politica.
Un mondo in frantumi, dunque, che esibisce un individualismo radicale che sembra poter trovare soddisfazione soltanto in una libertà dalla politica, e lontano da qualsiasi forma di azione che richieda comunanza e stabilità. È il trionfo della società individualizzata (Bauman).
5. Assolutismo della realtà
È possibile, tuttavia, comprendere pienamente la metamorfosi della politica italiana soltanto attraverso l’introduzione di un elemento che eccede queste trasformazioni materiali. Decisivo per la politica dopo il Novecento, in Italia e in Occidente, è il mutamento profondo dell’immagine del mondo (Weltbild). Si tratta di una trasformazione che intrattiene rapporti complessi con i processi materiali sommariamente descritti, ma che in ogni caso non è possibile interpretare come mero riflesso di questi. Il punto decisivo è che sul finire del Novecento è divenuto implausibile, letteralmente in-credibile attribuire all’accadere storico non soltanto una qualsiasi tendenza emancipativa, ma un qualsiasi ordine dotato di senso. L’avvento di un’immagine del mondo in cui l’accadere storico è sottratto ad ogni telos e ad ogni significato è qualcosa che eccede il semplice declino di un’utopia, l’abbandono di un sogno di emancipazione che peraltro aveva già esibito con tutta evidenza il volto di Medusa di regimi politici totalitari e di società dell’ineguaglianza. Fine delle grandi narrazioni non significa soltanto fine del comunismo, significa nominalismo radicale, assoluta singolarità degli eventi storici e assenza di un piano in cui le tendenze e le logiche oggettive dei fenomeni realizzino, sostengano, offrano opportunità per finalità dotate di senso. L’accadere come infinità priva di senso, l’intrascendibilità del mondo in cui viviamo: in una parola l’assolutismo della realtà[9].
Il punto è che l’assenza di un’immagine del mondo come totalità dotata di senso ha indebolito la capacità etica e politica della soggettività contemporanea. Dove domina la contingenza, opporsi al mondo diventa un compito eroico. L’assenza di una prospettiva storica di compensazione delle rinunce, dei sacrifici, dei costi che la lotta all’ingiustizia comporta, impone all’individuo non soltanto l’onere del rifiuto del mondo, ma anche quello della insensatezza del proprio agire. Ad uscirne indebolita non è specificamente una determinata prospettiva di emancipazione, ma la concreta declinazione etica dell’agire politico. Dove ciascuno può contare soltanto su se stesso, dove l’individuo è solo a fronteggiare la fatticità del mondo, lì la sua capacità di resistere alla logica delle cose è minima. Lì la necessità di adattarsi viene percepita con la massima intensità. Dove non si crede che i nostri sforzi per un mondo migliore possano contare su tendenze oggettive, dove non esiste alcuna fondata speranza nel progresso verso una società più giusta, le fatiche e le rinunce di una politica eticamente orientata rischiano di essere per i più insostenibili. La fine delle grandi narrazioni che avrebbe dovuto renderci più liberi ci ha reso, in realtà, più deboli.
La politica della sazietà è la politica che risponde al bisogno diffuso di adattamento. Una politica che si interpreta non come risposta ad una domanda di senso, ma come servizio ad una soggettività che chiede essenzialmente benessere. Protezione della vita e incremento della prosperità materiale: questo è ciò che residua come finalità possibile di una politica una volta che l’assolutismo della realtà ha reso impervio un rapporto con il mondo all’insegna del suo miglioramento etico. Sazia è la politica, e la soggettività, che non chiede di migliorare il mondo, ma di vivere bene nel mondo che c’è.
6. Il Palazzo di cristallo
Ma la sazietà indica, anche, una condizione materiale. Sazia è per Weber una soggettività che dal punto di vista materiale non ha più niente da chiedere perché dispone già di ciò che le serve o che le risulta necessario[10]. Sazietà è la dimensione dell’abbondanza, e sazio significa anche economicamente ricco. Assenza di desiderio, dunque, per immediata disponibilità di ciò che lo soddisfa. Sazietà descrive così la facilità e l’accessibilità del consumo, è una nozione che rimanda non soltanto alla disponibilità di merci, ma più in generale alla facilitazione della vita che si realizza con l’amplificazione dei beni di consumo disponibili. Sloterdijk ha descritto questa stessa condizione ricorrendo alla metafora del Palazzo di cristallo[11], la serra del comfort in cui prosperano individui dediti ai piccoli e grandi piaceri edonistici legati al consumo materiale, desiderosi e capaci di una felicità declinata esclusivamente come benessere e legata a doppio filo ai beni materiali. Il prodotto finale del trionfo planetario del capitalismo non è la gabbia d’acciaio e la prigione di un mondo amministrato di weberiana memoria, ma un rutilante mondo di merci reso possibile dalla sua straordinaria efficienza produttiva.
La grande trasformazione materiale dalla quale nessun discorso sulla politica contemporanea in Occidente può ormai prescindere è l’ingresso di gran parte della popolazione dei paesi occidentali nel mondo dorato del consumismo, dell’abbondanza di beni materiali, del comfort e del benessere. Sia pure con andamenti diversi, la storia materiale dei paesi occidentali europei dopo la fine della seconda guerra mondiale è stata segnata non soltanto da un vertiginoso aumento dei beni di consumo disponibili, ma dalla inusitata diffusione di massa di consumi un tempo elitari. Non soltanto un’abbondanza di merci mai conosciuta prima nella storia umana, ma anche un’accessibilità di massa a consumi e stili di vita un tempo tipici dei ceti abbienti. È questa la base materiale della religione del PIL e del feticcio della crescita che caratterizza la politica contemporanea.
Sazietà materiale significa sentirsi a casa nel mondo, amore del mondo[12]. Abbondanza materiale e agiatezza non veicolano un cambiamento dell’immagine del mondo, ma un suo svuotamento e depotenziamento etico. Tipico del nostro tempo non è soltanto il diffondersi dell’immagine cinica dell’unico mondo possibile[13], ma anche lo scollamento fra la credenza nel mondo come cosmo dotato di senso e l’osservanza degli imperativi etici che ne discendono. Lo strapotere dei beni materiali sulle vite degli uomini si manifesta nello scarto fra immagine del mondo e condotta etica[14]: il male profondo di cui soffrono a livello di massa più o meno tutte le confessioni cristiane in Occidente. Ma anche i radicalismi “novecenteschi” che in forma più o meno carbonara ancora popolano la nostra democrazia.
7. Un mondo senz’ira
Il Palazzo di cristallo non è un ovviamente un luogo fisico, ma un “interno” che definisce un esterno[15]. I suoi confini non coincidono con quelli degli spazi politici. La condizione confortevole del consumismo contemporaneo non è una condizione universale: la serra del comfort ha i suoi esclusi sia dal punto di vista geografico, sia da quello sociale. Il fenomeno inedito nella vicenda italiana, ma più in generale nella tarda modernità occidentale, è la generalizzata assenza di qualsiasi aspirazione degli esclusi a qualcosa di diverso dall’ingresso nella serra del comfort. L’interno e l’esterno del Palazzo di cristallo sembrano accomunati dagli stessi desideri e dagli stessi valori: gli uni nella dimensione della disponibilità, gli altri in quella dell’aspirazione. Nessun ideale di trasformazione, nessuna aspirazione soggettiva che ecceda un ingresso nel Palazzo che si concepisce rigorosamente individuale: nessuna significativa critica dell’esistente basata su una diversa idea di società o di felicità.
È qui che più evidente si fa il ruolo dell’immagine del mondo. Presupposto del conflitto non è l’indigenza, la mancanza, la deprivazione, ma la disponibilità di un’immagine del mondo che consenta di nutrire l’aspettativa di un sovvertimento di questa situazione ad opera di una trasformazione dello stato di cose esistente[16]. Senza aspettativa di trasformazione, l’unica conseguenza della deprivazione materiale e simbolica è la rassegnazione o l’adattamento come strategia rigorosamente individuale.
Ma l’immagine del mondo non decide soltanto delle forme possibili di reazione ad una condizione di indigenza materiale e simbolica. Decide anche della sua stessa riconoscibilità: della percepibilità stessa di tale condizione. Soltanto dove un fenomeno può essere attribuito ad una scelta umana si può percepire un’ingiustizia, e soltanto quando l’ingiustizia viene percepita come correggibile si apre uno spazio per la politica. L’affermazione di un’immagine del mondo in cui le patologie sociali sono interpretate alla stessa stregua di eventi naturali rende impossibile che la deprivazione materiale e simbolica, la solitudine, l’esclusione sociale legate al funzionamento del mercato e al dispiegarsi degli imperativi sistemici della competizione globale vengano percepite come scandalose e possano produrre conflitto e progettualità politica. Nelle democrazie occidentali non mancano soltanto i centri di raccolta dell’ira[17], latita anche l’ira tout court. Assolutismo della realtà significa incapacità di ribellione.
8. Dopo il Novecento
Saturazione spaziale e temporale, crescita esponenziale della complessità sociale, esasperazione della competizione, polverizzazione dei soggetti sociali e del conflitto, sazietà materiale e assolutismo della realtà hanno mandato in frantumi la politica del Novecento, ne hanno eroso i presupposti materiali e le condizioni di senso. In Italia e in Occidente assistiamo, dunque, a qualcosa di più e di diverso dalla semplice crisi delle istituzioni politiche che hanno governato il “secolo breve”. Non tanto ad un’erosione delle funzioni e dei compiti della politica, anzi, tutto al contrario, ad un aumento vertiginoso delle funzioni di regolazione indispensabili al funzionamento dei sistemi complessi.
Ad essersi ridotta non è, dunque, la politica “sostantivo”, le istituzioni e le funzioni di direzione, ma l’ampiezza delle scelte disponibili, le alternative percepite come realmente praticabili. È l’autonomia della politica ad essersi drasticamente ridotta. In primo luogo, per ragioni “oggettive” legate alle caratteristiche della complessità sociale e ai fenomeni di saturazione spaziale e temporale ad essa connessi. In secondo luogo, soprattutto per l’emergere di una soggettività sazia che chiede alla politica essenzialmente di porsi al servizio del benessere dei cittadini, perché sprovvista dei sostegni, degli orizzonti di senso in grado di esigere altro e di più dall’azione politica. Politica della sazietà è, dunque, la politica che non soddisfa esigenze di miglioramento etico del mondo, ma mira a procurare benessere e beni di consumo: felicità nella più piatta e banale delle accezioni.
Questo tipo di soggettività e di politica appare destinato ad una coesistenza estremamente problematica con gli stessi assetti istituzionali liberaldemocratici: il declino delle virtù civiche, il dilatarsi della zona grigia fra legalità e illegalità, la scarsa sensibilità per il rispetto delle regole, il primato dell’efficienza anche a costo del ricorso a mezzi dubbi o sospetti, la legittimità quasi incondizionata degli interessi sono tutti comportamenti o attitudini difficilmente compatibili con le istituzioni democratiche. La rilevanza della politica diviene, così, sempre più tecnica e sempre meno dipendente dal suo carattere democratico. Anche senza arrivare al dispotismo mite di Tocqueville, è in questo depotenziamento della politica che va ricercata la radice ultima di quella crisi della democrazia che attraversa tutte le società occidentali e che nessuna riforma istituzionale sembrerebbe in grado di risolvere.
La fine della politica del Novecento ha segnato la fine dell’anomalia italiana. L’Italia ha cessato di costituire un’eccezione fra le democrazie occidentali ed è stata investita dagli stessi processi di trasformazione materiale e simbolica che hanno reso sazia la politica e la soggettività contemporanea. Se qualcosa distingue la vicenda italiana è semmai la rapidità e la radicalità con cui questo passaggio si è consumato. Il paese che più a lungo si è trattenuto nel “secolo breve” è stato anche quello che più repentinamente e coerentemente sembra esserne uscito.