Cosmopolis prevede sistematicamente un segmento artistico-culturale all'interno delle sue pagine, assicurando spazio a «quella sfera delle produzioni intellettuali umane che sono profondamente coinvolte nelle metamorfosi del "villaggio globale"». In questo caso la rivista ha aperto le porte a un articolato dibattito sulla musica "contemporanea" in Italia, coinvolgendo sei nomi di altrettanti compositori italiani caratterizzati da esiti comunicativi diversi, ma in uguale misura coinvolti dal tema. Lasciandosi interrogare da un'attualità piuttosto problematica (si pensi alla questione delle risorse da riservare all'educazione musicale, come pure a certe appropriazioni 'indebite' dell'etichetta su cui si basa questo confronto), la discussione muove da una riflessione sulla stessa definizione di "contemporaneo", per poi raggiungere le prospettive della cultura, della fruizione, della didattica. Alessandro Melchiorre, Alessandro Solbiati e Mario Garuti - docenti presso il Conservatorio di Milano - declinano personalmente alcuni aspetti dell'eredità darmstadtiana (donatoniana, nel caso di Solbiati); Lorenzo Ferrero - anch'egli docente nell'istituto milanese - ha legato il suo nome soprattutto al teatro lirico, sviluppando un linguaggio legato chiaramente a quel contesto, senza comunque trascurare altri teatri dell'espressione compositiva. Giovanni Sollima propone un minimalismo nutrito di suggestioni neo-barocche, culturalmente maturo, legato in modo particolare alla performance strumentale. Stefano Bollani, da ultimo, nonostante una formazione 'classica' ha costruito la propria carriera di pianista nel campo del Jazz, votandosi a una contaminazione intelligente, sempre sintonizzata sulla novità comunicativa del mezzo musicale. Quello che lega i sei interventi - vicini e lontani, negli assunti come nella critica - è soprattutto una certa consapevole liberalità di vedute, e la speranza - quasi l'invocazione - per una rinnovata attenzione culturale nei confronti della musica.
(Guido Alici)
* * *
«Il 'contemporaneo' è - come in Nietzsche - l'inattuale: raccogliendo le crisi del tempo ci si ritrova a non essere mai di moda. Un'ambizione e assieme un tentativo di auto-definizione. Registrare la contraddizione per poi renderla esplicita significa trovarsi sempre in una posizione scomoda. Giorgio Agamben 'traduce' le considerazioni di Nietzsche con «intempestive», cogliendone lo spirito alla 'lettera': contemporaneo è chi, senza aderire o adagiarsi sulla vulgata del proprio tempo, cerca comunque di esprimerne l'essenza». Nel retroterra culturale di Alessandro Melchiorre (Imperia, 1951) sedimentano in chiaro i migliori sensi del Pensiero estetico tedesco, dall'idealismo originale alle derivazioni dialettiche di Adorno, questa volta nella 'traduzione' di Luigi Rognoni (avvicinato negli anni bolognesi del DAMS). D'altra parte la sua nutrita formazione di compositore (al Conservatorio di Milano e poi alla Hochschule di Freiburg im Breisgau) gli consente una visione privilegiata del fatto musicale, volendo coglierne tutti gli aspetti connaturati alla procedura, al processo poietico in re, alla speculazione e alla ricerca (dagli aspetti storici della notazione ai meccanismi culturali di ricezione); assicurandosi così - dall'alto di una produzione articolata, organica nel catalogo, impegnativa negli assunti poetici (dalla musica strumentale all'elettronica al teatro d'opera) - una presenza autorevole, attiva ed eloquente. La sua formazione al Politecnico di Milano, da ultimo, lo rende familiare ai più sofisticati compartimenti 'positivi' - fisico-matematici - che la musica del '900 ha saputo annettere alla propria natura creativa (non solo negli sviluppi elettronici, come insegnano Pierre Boulez o l'opera di György Ligeti).
«Io non credo - e questo è il mio pensiero - sia necessario che questa tendenza alla teorizzazione, alla motivazione tecnica e/o poetica sia una verità per tutti, non credo che oggi esistano compositori "ingenui" di teoria. Forse possono far finta di non sapere, ma non possono non sapere». In un dialogo con Gianmario Borio ("compagno di studi" ai celebrati Ferienkurse di Darmstadt) Melchiorre chiarisce - mantenendo fermi certi assunti programmatici guadagnati alla 'speculazione' musicale del dopoguerra - quale sia il senso di una conciliazione possibile fra i vari account che la figura del compositore ha acquisito nel Tempo (una continua oscillazione fra musica reservata e l'espressività del madrigale, fra musicus e musikanten, fino a raggiungere - sul piano della notazione - un'endiadi particolarmente suggestiva come il binomio penna/computer). Ma che cosa significa musica "contemporanea" oggi? È solo una questione semantica - una questione di labels - a dividere il mondo musicale? Se l'etichetta, dal dopoguerra in poi, è stata rivendicata con determinazione da una consistente parte dell'Accademia - e da una stringa pure eteroclita di singoli autori - oggi sembra essere relegata a un'afasia critica senza nome. Questa categoria mantiene la stessa salienza di una volta? È possibile/è doveroso mantenere le delimitazioni di una linea 'genetica' ineludibile, che pur passando per la palingenesi delle Avanguardie storiche sapeva congiungere in qualche modo l'attualità della creazione musicale alla grande Tradizione occidentale? «La musica "contemporanea" - purtroppo - può essere identificata come un 'genere', con certe caratteristiche stilistiche riconducibili a Darmstadt, alle Avanguardie; a chi, in un dato momento, si è posto contro la musica tradizionale. Io sono per una definizione più ricca e 'mobile'. D'altra parte seguendo - o in-seguendo - un'accezione di contemporaneità più trendy - ossia basandosi solamente sul metro del gradimento commerciale, mediatico - musica "contemporanea" si leggerebbe musica "pop", "elettronica" sarebbe "techno"». Una lettura indubbiamente parziale, incompleta. Anche senza censurare il paradigma del Successo (cfr. l'intervista a Lorenzo Ferrero). «Sono comunque contrario a ritenere la musica "contemporanea" uno stile: il compositore trova in piena autonomia il modo di scrivere la sua musica oggi. Non dovrebbe esserci, quindi, una corrente 'contemporanea'; altrimenti ci si ritrova ad essere 'ghettizzati' in rassegne o festival tendenzialmente secondari».
Oltre a riflettere criticamente sulle tendenze musicali più prossime, il compositore ligure ha saputo esprimersi anche al riguardo di alcune figure chiave del passato, come Schumann o Schönberg. Secondo Alessandro Solbiati la grande esperienza delle avanguardie confluisce e procede nell'opera della prima e poi di una seconda generazione di avanguardie. Ma è proprio così? La grande lezione classico-romantica - per fare un esempio - è solo un 'meno' a cui manca il contributo di un 'più' di esperienze o di consapevolezza intellettuale? «È significativo - in questo caso - riferirsi alla traduzione tradita di Neue Musik: si parlava allora di musica "nuova", non di musica "contemporanea". Contemporary music arrivò dopo; per molto tempo era New Music la definizione di riferimento (un po' come l'Ars Nova rispetto all'Ars Antiqua). Credo solo alla fine degli anni '60 si sia introdotta questa sostituzione terminologica. E comunque il legame della Nuova Musica con la Tradizione si sviluppava soprattutto in posizione dialettica, come superamento della Tradizione stessa». Basti pensare alla carica eversiva - radicale e iconoclasta - delle prime avanguardie, dei futurismi o del surrealismo, considerati come una generale reazione alle degenerazioni dell'ultimo romanticismo. «Ma paradossalmente il legame di certe avanguardie con la tradizione» - si pensi alla Seconda Scuola viennese - «era molto più forte di quello di altre espressioni coeve» - reazionarie forse, ma solo in apparenza, come il "modernismo moderato" di figure rimaste ai margini del grande filone Bayreuth-Vienna-Darmstadt: dalla Francia fin de siècle sino a Messiaen, dall'est Europeo di Bartók o Shostakovich fino a comprendere Penderecki (Enrico Fubini, ad esempio, insiste all'incirca su questa lettura). «La parte più negativa di questo rapporto dialettico è rappresentata comunque dalla pretesa di poter ridefinire addirittura le 'lettere' di un linguaggio. Ma si parla con le parole, non con le lettere. In parallelo con le sperimentazioni letterarie del tempo, nella musica "contemporanea" non c'era più niente di 'comprensibile'; per comunicare occorreva tornare a servirsi delle 'parole'. Ma quali sono le parole della musica? Disperdendo il melos in una pluralità di registri» - come nel caso di un divisionismo non solo orchestrale, originato dalla Klangfarbenmelodie di Schönberg o dal puntillismo weberniano - «la capacità di identificare, di ricostituire questa melodia - anche per il caso di un musicista di professione - rimane pressoché minima. Da un certo punto di vista fare "degré zero" è stato obbligatorio; a lungo termine è diventato controproducente. Negli anni '50 molte ricerche erano giustificate/giustificabili: successivamente alcuni le hanno superate, altri no. A questo punto bisogna vedere da chi o da cosa è stato originato il cliché della musica "contemporanea"... Una tradizione è fatta sempre di 'lotte', non ci sono solo passaggi di testimone o sviluppi 'naturali'; nel caso di quegli anni, però (ovverosia del primo dopoguerra), parlerei sul serio di 'rottura'. E per scelta ancora una volta obbligata. Siamo tutti legati all'osservazione di Adorno contenuta in Minima Moralia: com'è possibile scrivere poesia dopo Auschwitz? E la musica "contemporanea" è essenzialmente tedesca: affermazione forte, se si vuole, ma difficilmente contestabile. È soltanto con il Post-moderno che comincia a esserci una certa internazionalizzazione. (Anche lo stesso Boulez è molto poco francese: Pousser lo definiva come il musicista tedesco più importante del dopoguerra, considerando Stockhausen il più francese). Certo che c'è stata una rottura: una conseguenza diretta, comunque, della prima parte del '900. Siamo tornati a dire - secondo i 'dogmi' di Webern - che la musica deve comunicare solo ciò che con i suoni è possibile comunicare. Ma la parola chiave non è "suoni", bensì "comunicare". Tutti hanno considerato la parte di questo enunciato che - secondo una vecchia categoria hanslickiana - potrebbe essere definita "formalista"; mentre l'atto espressivo è stato ampiamente trascurato. Boulez leggeva Webern in modo asettico, ma le Variazioni op. 27 suonate da Ricther sembrano davvero la prosecuzione di Schubert... Quindi, in definitiva, è il "grado zero" il problema di fondo. Come se la persona dimenticasse all'improvviso tutta la sua cultura, la storia o persino la sua stessa 'biologia'. Nel caso della Letteratura la situazione è più spesso controvertibile; riguardo la musica - non essendoci questo legame semantico intrinseco - il compositore può permettersi di giocare indefinitamente. Ma sempre di 'gioco' si tratta. Se si arriva a dire che la musica è definita dalla combinatoria casuale - pensando a Stockhausen oppure a Cage - il risultato è sempre lo stesso: non ci sono forme, non ci sono 'oggetti' comunicabili. Per questo credo che quel periodo vada soprattutto conosciuto, non già riprodotto o peggio ancora copiato».
Quello che forse ha maggiormente caratterizzato la musica "contemporanea" italiana è stato il positivo recupero di una coscienza intellettuale da parte del compositore (a livello educativo, come pure tecnico-poetico) e una rinnovata consapevolezza storica (permessa anche dalla restaurata civiltà strumentale). Si è trattato di una tardiva rincorsa (cfr. l'opinione di Bollani su Berio, Eco e Calvino) o di un rapporto finalmente ricostituito fra Musica e Cultura? «L'Italia è un caso particolare; questa particolarità è il Fascismo. Fino agli anni '45-'46 i compositori italiani - aldilà di qualche sporadica eccezione - conoscevano pochissimo di quello che avveniva al di fuori del nostro Paese; e viceversa dall'estero erano molto poco conosciuti». (Si pensi alle conclusioni di Massimo Mila contenute nella prima edizione di Breve storia della musica - 1946 - con l'aspettativa fervida di una «riapertura delle frontiere artistiche»). «Il Fascismo ha 'chiuso' le frontiere: la colpa di questo ritardo culturale non è da attribuire all'inflazione operistica. Il Rosenkavalier di Strauss - ad esempio - è stato dato solo tre mesi dopo la prima viennese: prova che l'Italia, prima del fascismo, manteneva un legame diretto con l'Europa». Una conferma quindi - solo per fare un altro esempio - di un Puccini davvero 'europeo', tesi che da tempo un'attenta revisione critica sta cercando faticosamente di promuovere. «Il fascismo ha sottratto l'Italia all'Europa. Quando ho conosciuto Grisey, nei primi anni di Darmstadt, mi disse: "finalmente gli italiani hanno ricominciato a valicare le Alpi". L'autarchia del Ventennio - che si traduceva in un provincialismo totale - ha determinato colpevoli ritardi anche nei confronti di altre suggestioni, come il Jazz». Ma la reazione inevitabile agli anni bui del fascismo non si è forse tradotta in un'egemonia politica e culturale di segno opposto? «Non credo. E comunque non bisogna considerare casi singoli, come quello di Nono. Pensiamo a Luciano Berio: è scappato da un Paese sommerso, è scappato persino dalla Milano dei suoi studi (la Milano della Scala, della Ricordi o dell'orchestra RAI) ottenendo riconoscimenti e successo negli Stati Uniti. Penso anche a Maderna, sepolto a Darmstadt (di cui è stato uno dei principali animatori); o anche il successo tutto tedesco di Luigi Nono. Le iniziative italiane (la Biennale di Venezia, le Settimane musicali di Palermo ecc.) sono arrivate dopo. Prima non c'era assolutamente niente. Il rapporto ritrovato fra musica e cultura in Italia è stata semplicemente un'occasione prossemica, cittadina, con teatro alcuni 'luoghi' privilegiati - a metà fra Torino e Milano - come le edizioni Einaudi o la stessa Rai».
Ricordando con Borio la comune esperienza ai Ferienkurse di Darmstadt, Melchiorre rivendica una certo smarcamento dalla lezione radicale di Brian Ferneyhough, segnando un'ulteriore articolazione nel campo della Nuova Complessità e in qualche modo la sua riconduzione a un piano più 'storicamente' musicale, all'insegna di una complessità non già indotta a priori (quanto piuttosto presupposta, sottintesa, ritrovata) e il recupero del paradigma sintagmatico del tempo (il tempo dell'oggetto musicale). Senza per questo rinunciare a quella consapevolezza intellettuale, ineludibile per un compositore di oggi. Complessità contro Complicazione: cosa rimane di quell'esperienza, tra fecondità per il futuro e più sterili derive (l'Augenmusik, il graficismo/feticismo della pagina)? «Il recupero del 'Tempo' è quello che caratterizza positivamente la generazione compositiva cui appartengo. La capacità di 'dire' forse - da parte della musica - le Grandi Parole che sperava Nietzsche; il senso di una Narrazione. Tutto ciò che di più anti-postmoderno possa esistere (d'altronde non esiste solo il Minimalismo.). Dire qualcosa, prima di tutto; ma poi capire che cosa dire. Il mainstream compositivo a un certo punto ha creduto che la musica dovesse dimostrare di valere qualcosa; mentre invece - come sostenevano pure gli espressionisti - la musica deve semplicemente mostrare. Se si toglie questo potere espressivo alla musica - e il termine resta volutamente generico - che cosa rimane? A cosa serve? Anche Stravinskij - nonostante nella 'apocrifa' Poetique musicale possa sembrare tutto il contrario - non condanna affatto l'espressività, quanto piuttosto denuncia la sua declinazione più "sentimentale". Il Romanticismo non è un tabù. La difficoltà consiste nel possedere un sistema e al contempo non possederlo affatto, restare fedeli a dei principi (grammaticali, sintattici...) ma anche scombinarli, quando occorre. Non c'è niente di più moderno di questo. Negli anni '50 si cercava ancora un sistema universalmente valido» - ossia finalmente alternativo a quello tonale - «all'interno del quale, poi, esprimersi come individui. Ma ritrovare un sistema comune a tutti credo che oggi non sia davvero più possibile. La musica "contemporanea", allora, diventa capacità di narrare in questo momento l'oggi. Nient'altro che questo. Darmstadt - nei miei ricordi - non è affatto luogo 'dogmatico'; ambiente libero, piuttosto, e allargato: da Boulez a Stochausen, da Morton Feldman a Cage. Di quell'esperienza - di Darmstadt in generale - rimane il desiderio di costruirsi un metodo personale che funzioni: intuitivo, rigoroso, espressivo, razionale... va bene qualsiasi cosa, purché ci sia una ragione nelle scelte creative. La musica è fatta anche da regole: un 'gesto' alla Rothko non produce niente musicalmente, se non entropia. La forza, la drammaticità del colore allo stato puro, il materismo, funzionano solo in pittura perché sono forze statiche. La musica ha bisogno del tempo».
A proposito di complessità, maturità teorica/consapevolezza tecnica, il Melchiorre saggista - parlando di scrittura o 'trascrittura' musicale - denuncia la regressione di alcune 'musiche' di oggi a uno stato quasi pre-storico («la musica è esistita senza la scrittura, a lungo [.] è stata notata e inventata attraverso la scrittura e ora - nella fase della musica prodotta anche e soprattutto con la tecnologia - riappaiono fenomeni che in parte la ricollegano alle origini, musica senza scrittura, scrittura insufficiente, nuova "scrittura" del sonoro e del musicale, "oralità secondaria"»). In effetti, con poche eccezioni, la musica extra-colta sembra ancora dibattersi fra una certa aspirazione alla complessità, da una parte, e dall'altra (nonostante il beneficio della sua immediatezza emotiva) un certo oscuro retaggio mistico-popolare - limitata com'è da un diffuso analfabetismo musicale, da falsi-problemi teorici che ancora la attanagliano (senza contare le più sistematiche derive commerciali). Siamo ancora in una fase aurorale per il jazz o la musica pop? C'è comunque un interscambio fecondo tra i due àmbiti (se di àmbiti si può/si deve ancora parlare)? Si profila un salto qualitativo all'orizzonte, la possibilità di una fusione? «Tutti e due gli "àmbiti" risentono di un grave handicap: la 'separazione' dell'Italia dall'Europa - come in precedenza abbiamo potuto rilevare - ha inibito l'educazione musicale. Nei college inglesi, ad esempio, si studia il Jazz, il Musical - o addirittura il Pop - a fianco della musica cosiddetta "classica". E non si tratta solamente di lezioni teoriche. Si va a scuola con la propria chitarra elettrica. Io ho suonato questo strumento per quindici anni: ho imparato tutto per strada, da Hendrix ai Cream; non ho avuto nessuno che mi dicesse come fare. Immaginare che si possa imparare tutto "ad orecchio" - come si faceva ai tempi - è una costrizione, non è una virtù; trasformarlo in una mistica è un grave errore. Si impara prima se uno ti spiega come si fa. Anche questo è un lato 'infantile' del Romanticismo. Se un chitarrista ti spiega come ha fatto il suo 'solo', si arriva molto prima a emularlo che non ascoltandolo semplicemente suonare, magari in continuazione. Questa distanza negativa - nel nostro Paese - che si consuma fra generi e competenze, va colmata per ciascuno di questi àmbiti, dalla scuola di musica 'popolare' al Conservatorio. Proprio nell'istituto milanese c'è oggi una classe di Jazz molto forte, che si occupa quindi - in un certo senso - di musica 'pop' (e non è una caso che questa difficoltà di definizione - "pop/popolare" - in Italia sia molto sentita)».
Penna & computer: tempo di nuove conciliazioni? «Trovo che la scrittura fisica con la penna non sia ancora del tutto soppiantata/soppiantabile dalla scrittura col computer: il gesto fisico di collegare la testa con la carta, tramite la penna, credo non sia ancora del tutto equivalente a quello» - pure rapido ed esatto - «ottenuto col computer (e non mi riferisco solo ai programmi di notazione, come Finale o Sibelius: in quel caso si dovrebbe parlare piuttosto di "trascrizione" - pochissimi, infatti, 'inventano' direttamente in digitale). Al computer, tendenzialmente, si pensa o durante o dopo avere scritto». Senza contare la reversibilità quasi perenne di tutte le operazioni, o le scorciatoie di un famigerato "Copia & Incolla".
In conclusione di questo dialogo avviciniamo due territori ancora una volta eminentemente italiani, come l'Opera e la Scuola: ambienti che Alessandro Melchiorre abita - e che ha abitato - in qualità di creativo e di docente. Nel caso dell'Opera ci riferiamo soprattutto a due estremi della sua produzione 'lirica', da Unreported inbound Palermo (sulla strage di Ustica, nato dalla collaborazione con la prosa di Daniele Del Giudice) al recentissimo Il Maestro di Go (improntato sull'omonimo romanzo del premio Nobel giapponese Yasunari Kawabata). Pensando alla capacità di un contenitore come l'opera lirica - magnifico eppure 'decimato' - di intercettare temi e suggestioni 'contemporanee', si può dire qual posto - e quale futuro - gli spettino di diritto? «Credo sia naturale che l'Opera di oggi debba parlare dell'oggi. Può avvenire in maniera più o meno esplicita, come il caso di Unreported (che comunque non è cronistoria, grazie anche al valore letterario assoluto del testo di Del Giudice); oppure può parlare dell'oggi a distanza di qualche tempo, nei termini più individuali del rapporto che intercorre fra "vecchio maestro" e "nuovo allievo", riproponendo la drammaticità della trasmissione della Cultura (ancora una volta si ripropone la questione di "penna & computer"). La tecnologia è davvero in grado di trasmettere il Sapere? L'atto di capire può essere salvato dalla tecnologia? Ritornando all'Opera, posso dire di aver mantenuto senza problemi alcuni caratteri dell'opera tradizionale, come l'Aria o il Concertato; il Recitativo l'ho tradotto soprattutto in narrazione, usando attori di prosa. Oltre al teatro abbiamo oggi cinema e televisione: introdurre - come nel Maestro di Go - questi nuovi media (l'inserto di proiezioni video ecc.) significa ottenergli una dimensione contemporanea. Un direttore artistico tedesco diceva che l'opera lirica è l'unico prodotto europeo che possiamo esportare nel mondo; ecco perché, ad esempio, riscuote ancora successo presso un pubblico non occidentale. Questa organizzazione - costosissima ma teatrale, non cinematografica - piace, colpisce, prende. È un multimediale-teatrale». Il punto su cui l'Opera italiana si è forse definitivamente arenata: Puccini 'uccide' un teatro musicale già pesantemente assediato dal Cinema. «Ma evidentemente è riuscita a sopravvivere. Un po' come la Letteratura a scapito della Televisione. Quando è nata la RAI venivano proposti i cosiddetti "sceneggiati", con uno scopo precipuo: la gente non sapeva leggere, il 40% della popolazione era analfabeta; la tv proponeva i temi e pian piano il pubblico prendeva confidenza con le opere letterarie di riferimento... Su questo argomento potrei dire tranquillamente perché l'opera può svolgere ancora una funzione; e - secondo argomento - saprei facilmente dimostrare come si possa fare un'opera che costi poco - non faraonica, una specie di teatro da camera - ma che rimanga pur sempre Opera».
Scuola. Fra risorse storiche deprezzate, caos burocratico, speranze ri-organizzative - e un'emergenza didattica non marginale - come si può, in tempo di Crisi non solo finanziarie, riattivare un'istituzione ineliminabile e fondante come questa? «Nella scuola italiana di oggi ci sono delle idee che potrebbero essere buone, ma che - se altrettanto bene non vengono realizzate - producono soltanto disordine. L'educazione musicale nelle scuole medie inferiori veniva attuata fino ad ora in modo pressoché dilettantesco; in quelle superiori - con l'introduzione del nuovo Liceo musicale - si è ricavato uno spazio esclusivo per la musica, ma niente affatto collegato con la situazione attuale, né dei Conservatori né delle Medie inferiori. Queste scuole dovrebbero formare solo chi - in un secondo momento - si consacrerà alla professione; ma se viene demandato loro il compito generale di formare l'educazione musicale dei giovani, basarsi su questo tipo di strategia risulterebbe del tutto insufficiente: con 40 Licei - tanti ne prevede la riforma - si formano 8.000 persone al massimo. Quindi: l'educazione musicale deve entrare nelle scuole di ogni ordine e grado; la storia della musica deve essere equiparata alla storia dell'arte (com'è possibile che ancora non sia così?); l'offerta didattica deve essere all'altezza della domanda, ricorrendo magari alla creazione di istituti superiori come avviene all'estero (ad esempio in Francia). Purtroppo, però, in questo momento non c'è una cultura politica all'altezza di questo compito». Considerazioni tempestive, almeno per una volta, perché l'attenzione alla musica torni ad essere attuale.
Giugno 2009