La Cina di oggi si confronta con una tradizione plurimillenaria, fondata sulla consapevolezza di una profonda continuità con il proprio passato, sull’ammirazione per una mitica età dell’oro e sul culto degli antenati. Il rispetto per l’antichità ha trovato la sua più completa espressione nell’ideologia confuciana, sorta di religione laica, senza dogmi né clero, la cui massima preoccupazione è sempre consistita nel regolare e armonizzare la vita sociale attraverso cerimonie e riti che consentissero a ogni individuo di assumere, in conformità alla morale, il ruolo a lui spettante nella famiglia e nella società. Di Confucio (551-479 a.C.) sono state tramandate poche e incerte notizie storiche e molte leggende; secondo la tradizione visse in uno dei periodi più turbolenti della storia cinese, quando l’ultima dinastia pre-imperiale Zhou (1045-221 a.C.) aveva ormai perso l’egemonia politica e militare e l’intero continente era lacerato da divisioni e continue lotte per la supremazia. Fu un periodo di profonda crisi materiale e spirituale, ma anche di grande fecondità intellettuale e di innovazioni tecnologiche, che portò, nel 221 a.C., alla fondazione di un grande impero destinato a durare per oltre due millenni.
L’identità cinese non può prescindere dalla convinzione che il paese rappresenti un unicum politico e culturale, basato sulla continuità di quell’impero che, pur alternando periodi di unità a periodi di divisione, ha amministrato e difeso territori immensi grazie a una classe dirigente coesa e burocratizzata, i cui strumenti di governo consentirono il superamento di ogni crisi, a differenza dell’impero romano che si è disgregato senza mai ritrovare una ricomposizione.
Anche la storia degli ultimi secoli e il nuovo rapporto con l’Occidente dimostrano quanto siano vitali ancor oggi le radici del pensiero antico nelle sue diverse tradizioni; infatti, la comprensione dei recenti avvenimenti necessita spesso di premesse storiche e filosofiche senza le quali si rischia di ritenere contraddittorie e incoerenti posizioni politiche e ideologiche nutrite di un pragmatismo che non ignora i princìpi della tradizione. Se gli occidentali tendono a vedere le realtà orientali attraverso la lente deformante dell’eurocentrismo, applicando premesse e categorie di valutazione non sempre idonee al pensiero cinese, è pur vero che anche gli storici cinesi sono inclini a lasciarsi condizionare da preconcetti derivati da tradizioni interpretative interne alla loro cultura o da presupposti ideologici che rischiano ugualmente di ostacolare una disamina lucida degli oggetti della loro osservazione.
Com’è noto la frattura con il passato imposta dal regime comunista è stata netta e radicale, ma, man mano che l’evoluzione storica ha allontanato la Cina dal rischio di una restaurazione, il rapporto con il passato è tornato ad assumere una dimensione ricca e articolata, emergendo il desiderio di mantenere una continuità con le proprie radici culturali, con i simboli di un’antica grandezza, fonte di orgoglio nazionale e di prestigio internazionale. In quest’ottica il restauro e la conservazione del ricco patrimonio dell’antichità è diventato una priorità nazionale, e non solo per quanto concerne la gestione dei siti archeologici e dei musei all’interno della Cina, venendo negoziato il recupero di almeno una parte di quanto negli anni è stato trafugato da collezionisti pubblici e privati di tutto il mondo. In quest’ultimo settore la Cina, così come l’Italia che aspira a riavere quanto illegalmente esportato, si sta muovendo con grande determinazione.
Il dibattito è vasto e il terreno delle problematiche storiche non è solo quello della discussione accademica, ma dell’appassionante ricerca sul campo: infatti, mentre il patrimonio europeo di reperti greco-romani è relativamente stabile, da tempo studiato e catalogato, le numerose scoperte avvenute in Cina nel secolo scorso e nei primi anni del nuovo millennio -parliamo di migliaia di siti sparsi su tutto l’immenso territorio nazionale- hanno rivoluzionato gli studi sull’antichità, permettendo un confronto tra fonti tramandate e materiali di scavo, con la prospettiva che innumerevoli altri siti vengano presto alla luce per presentare ulteriori novità.
Una delle questioni più rilevanti, tutt’altro che risolta, è il passaggio dal periodo preistorico al periodo storico, tema che, con le sue mille implicazioni, terrà occupati paleoantropologi, genetisti delle popolazioni, paleolinguisti, archeologi e storici delle civiltà antiche per molto tempo a venire. La discussione procede con difficoltà soprattutto a causa di profonde diversità metodologiche, ingiustificate posizioni preconcette e fuorvianti condizionamenti ideologici che minano la serena valutazione dei dati a disposizione. Queste complicazioni sono in buona parte determinate dal ruolo di primo piano che una parte della dirigenza cinese vorrebbe ancor oggi riconoscere a questo settore di studi nella costruzione di un sentimento nazionalista da utilizzare nella competizione politica internazionale. L’influenza negativa esercitata in ambito storico-archeologico da un approccio eccessivamente ideologizzato è stata da più parti messa in evidenza e ha animato il confronto tra studiosi di diversa nazionalità, formazione culturale e posizione accademica, assumendo talvolta toni così esasperati da giustificare la sensazione che non siano in discussione solo questioni di metodo.
È perciò inevitabile che il dibattito relativo alla nascita della civiltà cinese risenta di questa irrisolta tensione di fondo che condiziona gli studiosi e stimola talvolta suggestioni e fantasie, comuni, queste sì, a tutte le antiche civiltà. Le teorie sul tappeto sono molteplici e se tutti sembrano concordare sul fatto che contatti e contaminazioni fra culture diverse abbiano giocato un ruolo importante vi è ancora disaccordo su molte questioni, non ultima quella relativa alla definizione di quei valori e di quelle conquiste materiali, culturali e spirituali che possano ritenersi peculiari della civiltà cinese[1].
In gioco ci sono anche considerevoli problemi di ordine economico, legati sia alla necessità di reperire i finanziamenti necessari per far fronte ai costi di imponenti campagne di scavo e al restauro delle centinaia di migliaia di reperti riportati alla luce, in gran parte ancora ammassati nei depositi, sia per avviare la realizzazione di un gran numero di musei organizzati in chiave moderna, che richiede fondi ingenti difficilmente ottenibili dalle istituzioni pubbliche a livello locale. Le mostre archeologiche sulla Cina che sempre più numerose vengono organizzate in tutto il mondo, Italia compresa, sono sicuramente uno dei veicoli di maggior finanziamento delle istituzioni museali cinesi.
Nell’antichità ogni atto della vita pubblica era intriso di sacralità e non meraviglia che, con la grande cura che in Cina fu riservata in ogni epoca alla trasmissione ai posteri del proprio patrimonio culturale e religioso, le testimonianze delle cerimonie che stabilivano una comunicazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti venissero preservate con il massimo zelo. Tesori di inestimabile valore sono stati seppelliti nei millenni come corredi funerari di ricchi aristocratici, dapprima sacri e quindi inviolabili e successivamente dimenticati mano a mano che le strutture esterne delle tombe divenivano irriconoscibili. Basti pensare all’imponente corredo rinvenuto nel 1978 a Leigudun, nella contea di Sui (Hubei), nella tomba risalente al 433 a.C. del marchese Yi di Zeng, sovrano di un feudo così piccolo e politicamente insignificante da essere totalmente ignorato dalle fonti storiche: oltre 15.000 manufatti di squisita fattura, bronzi unici nel loro genere, raffinate lacche, eleganti gioielli, preziosi oggetti di uso personale, una raccolta grandiosa di strumenti musicali (124) unica nel suo genere, e altro ancora.
L’antico passato riemerge anche grazie alla scoperta di importanti archivi e raccolte di documenti, sia pubblici che privati, e di ingenti depositi interrati costruiti per nascondere i propri beni al momento della fuga di fronte all’avanzata degli invasori, ricchezze rimaste poi sepolte nei millenni non avendo più fatto ritorno quanti erano a conoscenza della loro ubicazione. È il caso degli archivi di corte della dinastia Shang (XVI sec. - 1045 a.C.) rinvenuti all’inizio del secolo scorso nei pressi di Anyang (Henan), sede dell’ultima capitale dinastica: decine di migliaia di iscrizioni incise su ossa animali impiegate dagli sciamani per la divinazione. La loro decifrazione e l’elaborazione dell’imponente mole di informazioni, per lo più relative all’organizzazione sociale, economica e militare dello stato Shang e alle credenze religiose di quel periodo, le cui conoscenze erano fino ad allora basate su narrazioni dense di elementi mitologici, hanno costituito una delle avventure più entusiasmanti della ricerca storico-archeologica in Cina, che ha coinciso con la nascita della moderna archeologia in quel paese. Lo studio di queste iscrizioni ha inoltre fornito un contributo essenziale alla comprensione delle origini e dello sviluppo della scrittura.
Altri ritrovamenti eccezionali hanno fatto a più riprese convergere l’attenzione della comunità scientifica internazionale. Il più importante è forse la collezione di oltre 40.000 manoscritti e dipinti, risalenti a un periodo compreso tra il 406 e il 1004, ritrovati nel 1899, ottimamente conservati grazie all’assoluta mancanza di umidità all’interno di una cripta segreta scavata nella roccia del monastero rupestre di Mogao a Dunhuang (Gansu). Si tratta di un tesoro di incommensurabile valore, costituito da testi religiosi, soprattutto buddisti, e da documenti di argomento storico, giuridico, letterario, astronomico, medico, l’80% in lingua cinese, il rimanente in tibetano, turco, sogdiano, kothanese, uygur, runico, brahmi, lingue parlate dai viaggiatori che per secoli hanno percorso la Via della Seta.
Di grande valore per la ricostruzione dell’antico passato è stata anche la scoperta, avvenuta nella seconda metà del secolo scorso nell’area di Fufeng, a circa un centinaio di chilometri dall’odierna città di Xi’an (Shaanxi), di alcuni ripostigli ipogei risalenti all’VIII secolo a.C., che hanno restituito centinaia di splendidi vasi sacrificali di bronzo, molti recanti lunghe e dettagliate iscrizioni, alcune delle quali narrano la storia, nel susseguirsi delle generazioni, di potenti famiglie nobiliari, miniera preziosa di informazioni sulla prima parte della dinastia Zhou. Tra gli esemplari più belli dell’intera produzione bronzistica cinese, quei tesori furono abbandonati nel 771 a.C. perché troppo ingombranti e pesanti per essere trasportati nella fuga verso oriente di fronte all’avanzata di orde barbariche provenienti da occidente.
Il ritrovamento più famoso è comunque rappresentato dal grandioso complesso funerario del Primo Augusto Imperatore dei Qin, il cui mausoleo, a Lintong, nei pressi di Xi’an, non è ancora stato aperto dagli archeologi, a riprova dell’oculata politica di scavo introdotta in questi anni, che rallenta i lavori ove si intraveda il rischio che non vengano adottate le procedure ottimali per la conservazione dei materiali più delicati. Nel 1974, a poco più di un chilometro dal tumulo ove furono inumate le spoglie del grande sovrano, sono state scoperte in modo del tutto accidentale diverse fosse di accompagnamento, alcune contenenti un’imponente armata: almeno 7000 statue di terracotta a grandezza naturale disposte in assetto da guerra, con oltre 600 cavalli al seguito e più di 100 carri di legno, solo una parte della quale è stata finora restituita e restaurata. Sempre nell’area sepolcrale, che si estende su un’area di circa 56 km2, sono state scoperte altre fosse, una contenente due carri di bronzo con finimenti intarsiati in oro e argento, di dimensioni circa la metà rispetto a quelle naturali, con ogni probabilità destinati a condurre l’anima del Primo Imperatore verso le misteriose terre degli Immortali, altre contenenti le statue, anch’esse a grandezza naturale, di funzionari civili, ginnasti, musici, stallieri, ma anche splendidi uccelli di bronzo, armature, armi.
Nonostante i successi militari e politici ottenuti, il Primo Imperatore è passato alla storia come un crudele tiranno e tra i suoi peggiori misfatti vennero ricordati il rogo dei libri e il massacro di 460 letterati perpetrati al fine di indebolire la tradizione, soprattutto di stampo confuciano, per affermare i princìpi legisti, che basavano l’ordine sociale non sull’esempio di una retta condotta, ma sul potere dissuasivo di un rigido sistema di punizioni. Negli ultimi decenni la storiografia ha però sottoposto a revisione questo giudizio, riabilitando il genio militare e politico del Primo Imperatore, valutando positivamente le sue doti di grande statista, che non solo concepì ma anche realizzò uno stato centralizzato e potente in grado di governare l’intero tianxia, “ciò che sta sotto il cielo”, il mondo intero[2].
Una conquista dell’archeologia moderna è rappresentata dal recupero, restauro e conservazione dei manufatti di materiali deperibili, in passato seriamente danneggiati o irrimediabilmente distrutti al contatto con l’ambiente esterno, quando le tombe venivano aperte senza le necessarie precauzioni, a volte durante i lavori di scavo intrapresi per opere di ingegneria civile quali strade e fondazioni. Particolarmente delicati sono gli affreschi, le lacche, i tessuti, i dipinti su seta e, soprattutto, i manoscritti. In questo campo sono stati compiuti passi da gigante, permettendo il recupero di tesori di immenso valore. Se il più antico manoscritto su seta esistente, risalente al 300 a.C. circa, riportato alla luce in modo non controllato nel 1942 (secondo alcuni nel 1934) a Zidanku, nei pressi di Changsha (Hunan), è ormai irrimediabilmente perduto, completamente annerito a causa delle pessime condizioni di conservazione, miglior destino ha avuto il meraviglioso stendardo su seta rinvenuto nel 1973 a Mawangdui, presso Changsha, nella tomba della consorte del marchese di Dai, morta nel 168 a.C. Si tratta di un drappo di seta a forma di “T”, lungo 205 cm, steso sul coperchio del sarcofago interno (l’ultimo di quattro) della defunta. Vi è raffigurato il viaggio della marchesa verso l’immortalità: il racconto si articola in piani paralleli orizzontali che descrivono l’ascesa dai livelli degli inferi, dominati dal nodo disegnato dalle spire di due draghi-serpenti, ai piani celesti ove compaiono sole e luna, figure mitologiche e animali sacri. Una tale densità di rappresentazioni consente di approfondire credenze religiose complesse, in gran parte taciute dalle fonti letterarie e illustrate similmente in molte altre sepolture, ove appaiono assai più articolate di quanto il repertorio di immagini pittoriche tradizionali lasciasse supporre.
La nuova frontiera degli studi sinologici classici è rappresentata dallo studio dei manoscritti che in quantità sempre crescente vengono riportati alla luce, grazie a sofisticate tecniche di recupero e restauro. La loro valorizzazione impone una revisione sistematica delle conoscenze, stimolata non tanto da esigenze di natura ideologica, quanto piuttosto dalle evidenze che emergono dalle fonti archeologicamente datate. La tradizione ha sedimentato una mole immensa di scritti la cui conservazione è stata un impegno costante nel tempo, generazione dopo generazione. La trasmissione del corpus letterario giunto ai nostri giorni è il risultato di un complesso lavoro di rielaborazione durato dei secoli e condizionato non solo dalle scelte personali di quanti hanno messo mano ai testi -letterati, eruditi, affiliati o anche semplici copisti-, ma anche da complessi fattori di natura politica e ideologica.
Alla conservazione dei testi si è sempre affiancata una loro rielaborazione, facilitata dai primi supporti impiegati per la scrittura prima dell’introduzione della carta, listarelle di bambù soprattutto, legate una accanto all’altra, secondo una sequenza che poteva venir facilmente modificata, per formare un rotolo sul quale venivano scritti, in verticale, un numero variabile di caratteri, procedendo dall’alto verso il basso e da destra verso sinistra[3]. Quando le opere vennero copiate su seta i testi ottennero maggiore stabilità, ma non meraviglia che tra le versioni tramandate attraverso i secoli e gli esemplari presenti nelle tombe di epoca antica sussistano a volte notevoli differenze, tanto da giustificare l’ipotesi che opere ritenute organiche siano in realtà nate dalla collazione di brani redatti da autori diversi e per lo più ignoti, successivamente assemblati per conformità di argomento o di stile e attribuiti ai grandi maestri di un mitico passato della cui esistenza oggi sembra lecito dubitare. Anche la classificazione dei filosofi in scuole è con ogni probabilità la rielaborazione successiva di una situazione molto più fluida, meno segnata da divisioni dottrinali di quanto la tradizione, rispecchiando formalizzazioni avvenute in tempi successivi, abbia poi tramandato[4].
Grande impulso agli studi codicologici è derivata dalla scoperta, avvenuta a Mawangdui, nella tomba del figlio del marchese di Dai, di una cinquantina di manoscritti su seta, testi, mappe e carte illustrate. Gli argomenti sono i più vari: filosofia, storia, letteratura, politica, strategia militare, medicina, astronomia e altro ancora (oltre 120.000 caratteri). Notevoli sono anche i manoscritti su bambù rinvenuti nel 1975 in una tomba risalente al 217 a.C., a Shuihudi, nei pressi di Yunmeng (Hubei): 1125 listarelle di bambù iscritte, 600 delle quali recanti testi di carattere giuridico, compresa una consistente porzione del codice in vigore nel regno di Qin alla vigilia dell’unificazione imperiale. Ma i manoscritti che più di altri hanno messo in subbuglio il mondo sinologico sono quelli di Guodian e Shanghai: nel 1993, a Guodian, presso Jingmen (Hubei), in una tomba del 300 a.C. circa, sono state recuperate 730 listarelle di bambù recanti scritti per 13.000 caratteri circa, mentre altre 1200 listarelle, per oltre 35.000 caratteri, risalenti al medesimo periodo, sono state trafugate nella stessa area per essere poi acquistate sul mercato antiquario di Hong Kong dal Museo di Shanghai nel 1994. In entrambi i casi si tratta di opere prevalentemente filosofiche e in gran parte inedite, mentre quelle poche che sono state tramandate, per lo più come sezioni o capitoli di opere più ampie, sono diverse dai testi già noti: in genere, maggiore è la distanza temporale che divide il manoscritto rinvenuto dall’opera ricevuta e più marcate sono le differenze strutturali, lessicali e di contenuto riscontrabili.
In questi anni l’intera storia intellettuale e materiale della Cina antica è dunque sottoposta a profonda revisione e verrà completamente riscritta sulla base dei dati forniti da una messe di nuove informazioni che emergono da fonti archeologicamente datate e quindi più attendibili rispetto a quanto tramandato da una lunga tradizione, dalla quale non si potrà certo prescindere e il cui fascino risiede anche nella connaturata tendenza a mitizzare, manipolare e interpretare in modo ideologico il proprio passato. Gli studiosi cinesi, che hanno fatto proprie le cognizioni scientifiche e le tecniche di restauro dell’archeologia occidentale e che sono alla ricerca di metodi di conservazione originali e innovativi, hanno il vantaggio di cogliere con maggior finezza interpretativa le differenze tra quanto trasmesso da una tradizione che è loro propria e le nuove acquisizioni. Il contributo fornito dagli studiosi occidentali in questo settore è comunque tutt’altro che secondario.
Indubbiamente le campagne di scavo sono condotte oggi con sempre maggior competenza, rigore e professionalità e anche l’apertura della Cina ai visitatori occidentali ha contribuito alla valorizzazione delle antichità. Il progresso non è più visto in una prospettiva utopica, ma in modo meno ideologizzato e più articolato. Il sentimento di unità nazionale non può quindi prescindere dalla consapevolezza di appartenere a una grande civiltà, originatasi nella più remota antichità e sviluppatasi in modo omogeneo grazie a un’organizzazione statale unica nella storia dell’umanità: un impero immenso, esteso su un intero continente, durato oltre due millenni, che è sempre stato per tutta l’area estremo-orientale un punto di riferimento autorevole e costante. Si può dunque ben comprendere la legittima aspirazione della Cina di tornare a essere, come in passato, potenza leader, ruolo che oggi ha più un orizzonte politico-economico che strategico-militare, aspirazione che nei millenni era sostenuta dalla convinzione di essere il centro del mondo, culla di una civiltà grandiosa diffusasi non solo tra le popolazioni che vivevano all’interno del vasto impero ma anche oltre i suoi sterminati confini./span>