Nel contesto della biomedicina contemporanea, la questione del “non dire e non sapere” in relazione alle diagnosi gravi, in particolare alla diagnosi di cancro, permette di entrare nel concreto delle forme di comunicazione e dei rapporti fra sapere e potere in campo biomedico. Cerco qui di farlo attraverso alcuni brevi esempi. Nel corso di una ricerca antropologica in un ospedale napoletano, ho potuto constatare una reazione di “scandalo” in un medico, Clelia G., che non ha condiviso la scelta di non comunicare la diagnosi di cancro a un suo amico, anch’egli medico. I protagonisti sono infatti alcuni medici, molto legati dall’amicizia. Quando uno di essi si è ammalato di cancro, gli è stata nascosta la diagnosi per volere della moglie. Possiamo domandarci come sia possibile nascondere la diagnosi di cancro a un medico. Mantenere il segreto in quel caso non fu facile, ma fu possibile per la complicità di alcuni medici tra gli amici più cari del malato, che falsificarono le analisi e le documentazioni per impedire che egli venisse al corrente della verità. La maggioranza di essi si alleò con la moglie del malato, mettendo in atto questa falsificazione, giustificandola con la certezza che se il loro amico avesse conosciuto la diagnosi si sarebbe suicidato. Ma la scelta provocò scandalo e indignazione in alcuni, sollevando un dibattito appassionato e conflittuale, svoltosi per mesi alle spalle del medico ignaro della sua sorte. In particolare Clelia G., giovane medico specialista di oncologia, fu tra i pochissimi amici a sostenere la necessità di comunicargli la verità. Clelia chiarisce questa sua posizione con una triplice motivazione: perché sapere è un diritto “democratico” del paziente, perché sul piano affettivo dello scambio di amicizia riteneva sbagliato e colpevole mentire, perché è umiliante per un medico non conoscere la verità sulla propria malattia: «hanno costretto lui, un medico, a credere di avere una tubercolosi miliare quando invece aveva un cancro polmonare con metastasi cerebrali. È stato molto triste, fino alla fine quest’uomo non riusciva a spiegarsi come mai una tubercolosi lo riducesse in quello stato, senza più poter muovere le gambe… Com’è stato possibile? Hanno falsificato tutta la documentazione ad arte, ma l’hanno fatto i suoi amici più cari, amici veri, che non lo hanno mai abbandonato fino all’ultimo, straziati anch’essi dal dolore. Avevano creato questo castello di carte che non lo ha aiutato nemmeno a decidere come finire gli ultimi anni della sua vita. Loro erano convinti che lui appena saputa la notizia si sarebbe ucciso. Io ero convinta che invece avrebbe lottato fino alla fine, accettando e resistendo con intelligenza, ma ho assistito impotente alla menzogna, pur manifestando il mio dissenso. Lui, medico, ha creduto». Clelia, il medico “dissenziente”, ha qui la funzione di una sfidante che, tuttavia, rispetta la scelta della moglie e degli altri amici del suo collega medico, soffrendo la sua condizione di minoranza in un campo in cui la scelta “dominante” è quella della menzogna.
In una analoga ricerca condotta in un ospedale di Firenze, l’antropologa americana Deborah Gordon ha ricostruito l’esperienza del cancro e i diversi atteggiamenti delle persone ammalate, dei loro familiari, dei medici e dei professionisti dell’assistenza. Gordon mostra come sia tuttora dominante in Italia la pratica di non informare i pazienti di cancro della loro diagnosi, in particolare se l’esito è incerto. L’obiettivo della ricerca è dimostrare che tale imperativo del “non dire” non si giustifica sul piano scientifico, ma si configura come una pratica culturale. Attraverso l’osservazione diretta e il dialogo con tutti i soggetti coinvolti nel processo diagnostico del cancro (malati, familiari, medici, infermieri ecc.), Gordon cerca di comprendere quali siano le logiche socioculturali che sottendono la pratica del “non dire” e del “non sapere”. In uno schema interpretativo che riassume i risultati dei dialoghi etnografici con i familiari, con la gente comune e con i professionisti dell’assistenza, emerge che la logica riguardante la scelta di non informare i pazienti della diagnosi di cancro a prognosi incerta si struttura sulle seguenti motivazioni: a) una diagnosi di cancro equivale a una morte sicura e alla perdita della speranza; b) secondo i medici e i familiari, i pazienti non vogliono sapere; c) una buona morte è quella che avviene all’improvviso, senza esserne consapevoli, mentre si vive il più serenamente possibile; d) perciò la comunicazione della diagnosi è solitamente ritenuta da parte dei medici intervistati come una prognosi emessa nei termini di una precisa scadenza temporale; e) le relazioni medico-paziente e paziente-familiari sono basate su autorità e protezione: la comunicazione della diagnosi è spesso equiparata a “emettere una sentenza”, così la circolazione delle informazioni e l’assunzione delle decisioni riguardanti la terapia è una prerogativa dei medici e dei familiari e non dei pazienti; f) “non dire” aiuta la speranza e fa continuare la vita, dire “rimuove” la speranza e conduce alla morte. Nel dialogo con l’antropologa, il primario dell’unità di chirurgia generale così spiega l’analogia tra diagnosi di cancro e sentenza di morte: «La parola “tumore” è associata con la parola morte; cioè è una parola che non dà speranza, dà solo certezza di morte, di morire ora, nell’arco di un anno, nell’arco di un mese, o di andare avanti tra mille difficoltà, tutte cose che difficilmente vengono accettate». E la caposala dello stesso ospedale: «quando si arriva al punto che il professore o chiunque altro mi dice in faccia “hai un cancro”, allora significa che non ho più speranza, non posso più pensare alla vita». La pratica medica del non dire e del non informare si regge dunque su una “struttura della speranza” che pervade i discorsi, le tattiche e le strategie elaborate dai diversi soggetti mobilitati intorno al problema della non comunicazione della diagnosi. Alla domanda su quanto sia importante la speranza nel proprio lavoro, il chirurgo sostiene che «la speranza della cura rappresenta tutto. Se a una persona togli la speranza di guarire allora è come se tu gli avessi lasciato solo una pistola». Lo sfondo di una simile “struttura della speranza” che sottende la scelta di “non dire la verità” al malato di cancro, mostra come all’interno di tale logica della prassi biomedica osservata da Gordon agiscano concretamente esperienze culturali della propria presenza nel mondo, particolari idee sulla vita, sulla “buona” o “cattiva” morte, sulla sofferenza e la coscienza, sulla persona e la moralità. Un complesso mondo esistenziale, una politica delle emozioni che si appiglia anche a riferimenti culturali, caratterizza la scelta del non dire e del non sapere. In questo senso Gordon riesce a sciogliere l’astrattezza di un approccio rigidamente culturalista facendo piuttosto riferimento alla base esistenziale dei riferimenti culturali: dire e non dire la diagnosi, voler sapere e non voler sapere della propria malattia, sono stili di vita culturale, sociale, esistenziale, emozionale, modi diversi di concepire il sé, il corpo, la persona nel rapporto con gli altri e con il mondo. Gordon forza l’approccio culturalista fino ad andare oltre l’individuazione dei tratti salienti di una cultura biomedica “italiana” condivisa dai soggetti protagonisti della sua etnografia in un ospedale di Firenze. L’idea di una “cultura biomedica italiana”, o americana, messicana, giapponese, per esempio, ridurrebbe l’analisi di critica culturale della biomedicina a un gioco di facili stereotipi nazionali. Oltre i suoi significati culturali, infatti, la scelta del “dire o non dire” deve essere indagata in rapporto alla produzione di potere e di autorità connessa alla facoltà del medico di custodire o elargire conoscenza: la menzogna o il “non dire” sono legati alla dinamica dei rapporti di forza e di potere che sottendono la conservazione di un “segreto” e che coinvolgono la relazione fra i cittadini e lo Stato.
Gordon aveva condotto la sua ricerca alla fine degli anni Ottanta, proprio quando in Italia si avviava una riflessione sull’esigenza di rendere obbligatorio nel contesto biomedico la pratica del cosiddetto “consenso informato”. Quella del consenso informato è una formula giuridica che si è originata negli Stati Uniti in seguito a un lungo dibattito sulla regolamentazione giuridica della pratica medica. È del 1957 la prima sentenza in cui, negli Stati Uniti, si afferma che il medico ha il dovere di comunicare al paziente ogni fatto che sia necessario a formare la base di un intelligente consenso del paziente al trattamento proposto. Tale diritto al “consenso informato” sviluppa il diritto alla salute, riconosciuto dalla nostra Costituzione all’articolo 32. Il diritto all’informazione e la libera autodeterminazione del paziente a dare o meno il proprio consenso alla terapia, accettandola o rifiutandola, implicherebbe anche l’obbligo, da parte del medico, di “dire la verità” in caso di diagnosi gravi, come abbiamo osservato negli esempi descritti. Da un punto di vista antropologico critico risulta importante andare al di là delle teorie del “condizionamento culturale” del comportamento biomedico, per esplorare quanto la riproduzione di convenzioni e di poteri che si intrecciano con l’intimità dei pazienti e degli operatori garantiscano la produzione e riproduzione di un sapere segreto, di una conoscenza esoterica, di un potere biomedico in molti casi strettamente connesso ai poteri dello Stato.
A ben vedere in tutti i contesti locali e nazionali, oltre le “differenze culturali”, emerge una costante: il rapporto asimmetrico fra medici e pazienti. Tale asimmetria è certamente connessa alla diversità del capitale di sapere specialistico posseduto da entrambi, e in questo senso essa è una caratteristica ovvia della relazione. Ma la questione del silenzio e della menzogna nella comunicazione va oltre questa specifica ed evidente asimmetria. Qui non si tratta di un sapere specialistico non comunicabile, quanto di una scelta deliberata di conservazione del segreto. Le teorie del condizionamento culturale, pur importanti, rischiano però di occultare il carattere politico della scelta di mantenere il segreto. E rischiano di nascondere la presenza di un protagonista centrale nella definizione e nell’istituzionalizzazione di tali scelte di segretezza, cioè lo Stato. A tale riguardo una ricerca dell’antropologa Sharon Kaufman sul consenso informato in relazione alla sperimentazione biomedica è particolarmente significativa. Kaufman ha partecipato al gruppo di ricercatori/consulenti incaricato di studiare una vicenda, drammatica e controversa, venuta alla luce alla metà degli anni Novanta, in occasione della pubblicazione da parte del governo americano di alcuni materiali riservati. Quei materiali erano la prova documentale che durante la seconda guerra mondiale, in tre ospedali universitari degli Stati Uniti venne condotta una sperimentazione nel corso della quale fu iniettato plutonio a 18 pazienti inconsapevoli, per valutare i tassi di escrezione della sostanza e per testare alcuni suoi effetti sull’organismo umano. Quando si insediò la commissione, le notizie concernenti la sperimentazione avevano già avuto larga eco nei mezzi di comunicazione di massa e innescato una dura polemica nell’opinione pubblica sul finanziamento e lo sviluppo della ricerca medica per scopi militari protetta da segreto di Stato e sulle responsabilità dei diversi governi che si erano succeduti in quel periodo. In particolare, il gruppo di ricercatori di cui ha fatto parte Kaufman era stato incaricato dall’amministrazione Clinton di fare luce su alcuni esperimenti condotti nell’ospedale dell’Università della California tra il maggio 1945 e il luglio 1947. Esso inoltre avrebbe dovuto considerare il peso delle denunce contenute in alcune inchieste giornalistiche circolanti nell’opinione pubblica. A partire da tali premesse, l’antropologa esplora le forme attraverso le quali la soglia fra verità e menzogna viene resa flessibile nel dibattito pubblico. Il confronto fra diverse strategie nella definizione del consenso e dell’esigenza di informazione fa emergere questioni centrali nel dibattito sul rapporto fra i cittadini, lo Stato e le pratiche biomediche: la costruzione sociopolitica della memoria e l’importanza della consapevolezza da parte dei soggetti sociali. Il punto centrale della contesa, mostra Kaufman, è rappresentato dalla possibilità di situare in un’adeguata cornice interpretativa e storica sia la logica scientifica della sperimentazione sia le esigenze politico-culturali del consenso.
Un ultimo esempio può contribuire ad ampliare la casistica delle manifestazioni concrete del rapporto fra sapere e potere nel campo biomedico: la questione della cosiddetta “inosservanza” dei pazienti rispetto alle prescrizioni mediche. Dagli esempi precedenti emerge che la questione del rapporto medico-paziente si qualifica come relazione dialettica, negoziata, e non isolabile dal più ampio campo biomedico e sanitario. Se focalizziamo ora l’attenzione sull’evento della “prescrizione di un farmaco”, il medico non è più solo un “mediatore di guarigione”, ma anche un mediatore fra istituzione sanitaria, mercato farmaceutico e paziente. Il medico deve scegliere un farmaco fra quelli possibili, ordinare la “posologia”, cioè le modalità di somministrazione, ma il paziente può autoregolare l’assunzione anche in maniera arbitraria rispetto alle prescrizioni, oppure utilizzare il farmaco anche all’interno di pratiche terapeutiche diverse, alternative, parallele o a volte antinomiche. Nel dibattito su questo argomento tende a riemergere, soprattutto da parte del discorso biomedico, una tendenza a dare giudizi di valore sull’inosservanza del malato, a considerarla come un comportamento sbagliato, senza volgere l’attenzione ai significati socioculturali dell’inosservanza. Questo giudizio tradisce talvolta in maniera evidente una forma retorica di costruzione dell’autorità da parte del discorso biomedico che spesso stigmatizza la non osservanza nei termini di una presunta “personalità maladattiva” dei pazienti. Questo approccio, radicalmente contrario a cogliere le motivazioni socioculturali dell’inosservanza, è lontano dal mettere in discussione l’autorità del medico. Questo genere di teorie che collocano l’inosservanza non tanto nelle motivazioni socioculturali, quanto in presunte “strutture della personalità del paziente”, hanno a che fare con la definizione di una “buona condotta” del paziente osservante, nel quadro di una sua sottomissione alla biomedicina. L’obiettivo di un miglioramento delle cure sembra confondersi con un’attenzione costante fondata sull’esercizio del controllo e dell’autorità medica. Per questo alcuni antropologi hanno proposto di parlare di “adesione” e di “non adesione” alle prescrizioni mediche, sottolineando come la nozione di “osservanza”, peraltro molto vicina alla pratica devozionale religiosa, contenga un antidemocratico giudizio di valore sul comportamento del paziente.