Tolleranza, secolarizzazione e laicità sono tutti termini convergenti sull’idea del limite della politica. Il presupposto non è un’antropologia della frustrazione, ma semplicemente la consapevolezza che non è questo il medium del bene e della verità: la politica non è la morale e all’efficacia delle sue soluzioni, come ci ha insegnato Rawls, la disponibilità alla ragionevolezza giova forse più del calcolo del razionale. Il paradigma esemplare di questa prospettiva rimane probabilmente Locke. Il potere dello stato –leggiamo nella Lettera sulla tolleranza– è legittimo appunto entro precisi limiti: esso «deve provvedere alle proprietà private dei singoli, e perciò al popolo nel suo complesso e ai suoi pubblici beni, perché prosperi e cresca nella pace e nella ricchezza e perché, in virtù della propria forza, goda della maggior sicurezza possibile contro l’invasione esterna»1. Pace e cooperazione fra individui liberi e uguali di fronte alla legge. È la formula di una società aperta e pluralista, garante di uno spazio pubblico nel quale integrare le differenze che generano progresso senza produrre conflitti. Perché questa semplice formula non dovrebbe essere sufficiente a “governare” anche le profonde trasformazioni delle società ipertecnologiche e globalizzate?
Per alcuni l’interrogativo è un sintomo di debolezza. Il problema esisterebbe solo per chi non riesce a reggere la visione di un umanità nomade, liquefatta, meticciata e soffre di conseguenza di nostalgia dell’identità. Il “ritorno in pubblico” delle religioni, nelle loro versioni più aggressive e fondamentaliste, corrisponde secondo questa visione ad una insopportabile pretesa di imporre a tutti il bene e la verità che sono ormai solo di una parte. Resta il fatto che sono autori come Rawls e Habermas a sostenere, a certe condizioni, la legittimità di tale ritorno. Davvero, come diceva proprio Kant, è prima di tutto intorno alle questioni di religione che si decidono senso e destino dell’illuminismo. Occorre tuttavia intendersi su cosa significhi fare politica etsi deus non daretur. Ovviamente non per mettere in discussione la tesi portante delle società liberali e democratiche: non deve e non può più essere “in nome di Dio” che si fanno le leggi. Si tratta piuttosto di verificare la tenuta dell’autonomia della politica incrociandola appunto con il suo limite, che potrebbe valere una soglia di rispetto nei confronti non solo del principio di autodeterminazione, ma anche di quel che essa riconosce al di fuori del suo potere. E che per questo vale come fondamento.
1. L’atesimo del mondo etico
La Filosofia del diritto di Hegel presenta un modello alternativo a quello proposto da Locke. Ma sarebbe riduttivo intendere questa divaricazione nei termini della pura e semplice contrapposizione fra stato etico e stato liberale. È più interessante partire dalla preoccupazione condivisa per la minaccia dell’ateismo. Per Hegel l’ateismo del mondo etico non è un problema di filosofia della religione. Esso investe direttamente il rapporto fra la ragione e la politica: l’obiettivo è quello di dimostrare l’infondatezza della tesi che al mondo dell’autocoscienza come mondo della libertà è precluso di godere della stessa «fortuna» sulla quale può contare lo scienziato della natura, che considera quest’ultima come razionale in sé e dunque può «ricercare e comprendere, intendendola, questa ragione presente nella natura reale» come «sua legge ed essenza immanente»2. La posizione di Locke era diversa. Delimitare lo spazio della tolleranza non significa soltanto porre le condizioni di una più sottile discriminazione nei confronti di quel che è appunto semplicemente “tollerato”, ma anche fissare il confine di quel che una società continua a considerare e trattare come intollerabile. Di qui, come è noto, una duplice esclusione: quella dei cattolici e, appunto, degli atei. La soluzione concordataria ha consentito in molti casi di includere anche i primi in questo modello di cittadinanza e tuttavia l’equilibrio così garantito appare precario. Per molti, anzi, decisamente ambiguo, quando un soggetto comunque di diritto internazionale continua ad operare dentro «territori e città» di uno stato sovrano per dettare le sue leggi, per imporre a tutti i suoi obblighi e divieti. L’esclusione degli atei dallo spazio comune della tolleranza è in Locke altrettanto decisa: «Infatti né una promessa, né un patto, né un giuramento, tutte cose che costituiscono i legami della società, se provengono da un ateo, possono costituire qualcosa di stabile o di sacro; eliminato Dio, anche solo con il pensiero, tutte queste cose si dissolvono»3. In tradizioni così distanti, insomma, la questione dell’autonomia della politica rimane impigliata nella questione del fondamento. Solo in Locke, tuttavia, sembra possibile trovare le premesse del riconoscimento anche del limite della politica, almeno nel senso abituale di questa espressione.
La “fortuna” della ragione rivendicata da Hegel sconta la grande operazione culturale di traduzione della teologia naturale in morale razionale portata a compimento nel diciottesimo secolo. La sua risposta all’ateismo del mondo etico è così, in primo luogo, una tesi sul rapporto di reciprocità fra autonomia e totalità della ragione. L’istanza forte di universalità che aveva caratterizzato per esempio l’utopia come forma tipica della letteratura dell’illuminismo diventa senz’altro l’affermazione che la fondazione può risolversi in autofondazione, togliendo lo scarto mantenuto proprio grazie al nome di Dio fra storia e giustizia, fra fondazione riflessiva e fondamento assoluto. L’agire dell’autocoscienza produce l’idea della libertà come bene vivente e dispiega un mondo che vale una seconda natura, quella appunto dell’universale dello spirito4. Questa caratterizzazione dell’eticità non è più proponibile, che regga o meno la sua tipizzazione popperiana come modello di società chiusa o peggio ancora di sistema potenzialmente totalitario. Non è detto però –e tornerò su questo punto– che il congedo da una Ragione così forte implichi anche l’abbandono del secondo presupposto del discorso hegeliano: la polemica contro il formalismo del punto di vista morale “alla Kant” sottende la convinzione che il lógos sia presente nel mondo degli uomini e delle loro relazioni e non solo dentro la coscienza, la volontà per sé degli individui.
La “secolarizzazione” della soluzione lockeana appare in prima battuta vincente perché considera irrinunciabile non questa convinzione, ma l’idea che la stabilità dei «legami» nella pólis è ancorata al rispetto della inviolabilità della dignità dell’uomo e dei suoi diritti universali5. Per questo la rinuncia alla pronuncia pubblica del nome di Dio impone che il fondamento della politica valga semplicemente come suo limite. I diritti umani, nella forma meno ambiziosa e per questo meno controversa dei diritti negativi, diventano una sorta di «poker di assi morali»6, che hanno la funzione non di definire come sia o debba essere il mondo, ma più semplicemente di garantire a ciascuno la possibilità di costruire il suo. È soltanto per conservare e promuovere i «beni civili» così intesi che si costituisce una società di uomini, uno stato: «Chiamo beni civili la vita, la libertà, l’integrità del corpo, la sua immunità dal dolore, i possessi delle cose esterne»7. Un minimum di convivenza, insomma, al quale dovrebbe corrispondere un ordinamento giuridico leggero, mite e per questo inclusivo di differenze tutte giocate alla pari e non più semplicemente “tollerate”. C’è però, in questa prospettiva, una sorta di doppio senso del limite, che può essere espresso nella forma di un paradosso: la neutralità della politica come spazio della libera autodeterminazione presuppone la giustizia come vincolo, che può facilmente manifestarsi come tale, creando conflitti, quando si erodono l’omogeneità e sostanziale compattezza di una società intorno ad alcuni fondamentali valori e stili di vita. E questo è il punto davvero decisivo, inutilmente eluso dalla polemica contro la pretesa della religione e delle sue chiese di tornare ad egemonizzare il ruolo della definizione delle regole di senso ultime, degli assoluti morali dai quali far dipendere il “bene comune” della società.
2. Il patriottismo e la laicità
La pretesa di universalità delle dichiarazioni dei diritti dell’uomo non è un ornamento edificante, ma la condizione senza la quale l’autonomia della politica coincide inevitabilmente con l’esercizio senza limite del suo potere, fosse anche quello della maggioranza. Può darsi che di questo ci si debba infine accontentare, affidandosi «al libero confronto delle idee, rispettandone gli esiti democratici anche quando non possiamo condividerli»8. Rimane però il fatto che le contrapposizioni sul contenuto dei «beni civili» o sul riconoscimento dei soggetti che ad essi hanno diritto determinano un immediato contraccolpo sui “fondamentali costituzionali”, diventando così un serio fattore di destabilizzazione della tenuta del legame sociale e, in ultima analisi, di indebolimento della stessa potenzialità inclusiva del tessuto democratico. I conflitti della bioetica sono l’exemplum di questa difficoltà. Il linguaggio dei diritti, nato per garantire uno spazio comune di libertà, si trasforma in uno strumento di contrapposizione insormontabile. Quel che si pretende o si nega è infatti, di principio, oltre il limite di rispetto della politica e dei suoi compromessi, «poiché definire diritto una richiesta significa definirla non negoziabile»9. E tuttavia, poiché manca il consenso, sembra non restare altra via che quella politica. Il cortocircuito è inevitabile, appunto perché non dovrebbe qui essere questione di politica e neppure di democrazia. A meno che non si neghi apertamente quel che per Locke è fuori discussione e cioè che il potere della maggioranza che i cittadini hanno conferito alla comunità si ferma e deve fermarsi davanti alla «norma eterna» che vale per i legislatori come per tutti gli uomini. La bio-politica è allora senz’altro la pietra di paragone di questo limite, perché tale norma vale in primo luogo a tutela della vita, della libertà e della salute, oltre che dei beni e della proprietà10. Ma è più in generale alla “prima parte” delle costituzioni che si affida questo ruolo di definire ciò che vale come fondamento non parcellizzabile e incontrovertibile di cittadinanza piuttosto che come compito di costruzione di un equilibrio instabile e sempre provvisorio. Quando viene meno il consenso su quel che deve essere considerato sottratto alla contesa politica i cittadini –per citare Engelhardt– si trasformano in veri e propri «stranieri morali». E non è vero che ciò rimane senza conseguenze sulla stessa fedeltà al “contratto” che li unisce.
Il caso italiano non fa eccezione. Si è soliti riconoscere nella nostra costituzione un felice esempio di consenso per intersezione fra culture diverse, che potevano riconoscere in essa la garanzia almeno della parte fondamentale, “non negoziabile”, della loro visione del bene, dell’uomo e della società. Ma non è scontato che quanto è stato possibile allora possa funzionare anche oggi. Non è un caso che il Presidente Giorgio Napolitano, nel discorso tenuto in occasione del suo sessantesimo anniversario, abbia evocato l’impegno per un rinnovato «patriottismo costituzionale». Con tale espressione, come è noto, Jürgen Habermas aveva indicato un modello di lealtà ai principi della democrazia e della libertà che dovrebbe garantire la pacifica integrazione di diversi stili di vita e idee del bene, senza dover ricorrere al presupposto “metafisico” di più alte e assolute verità. Il Capo dello stato parla però esplicitamente della necessità di rivivere quotidianamente e riaffermare concretamente i principi del patto fondativo, i valori, «anche e innanzitutto morali», che si esprimono nei diritti e doveri da esso sanciti. Il patriottismo così evocato si smarca decisamente dalla versione meramente procedurale della dialettica democratica e torna quasi letteralmente alla interpretazione che ne dava Hegel indicandolo come il sentimento politico fondamentale: si tratta della consuetudine, della fiducia «che il mio interesse sostanziale e particolare è contenuto nell’interesse e nel fine d’un altro»11. Non nel senso di una ragione normativa tanto universale quanto astratta (quella per intenderci che portava Kant ad elencare la politica fra le discipline tecnico-pratiche dell’abilità e della prudenza, insieme all’economia domestica, all’agricoltura e alla dietetica…), bensì dispiegando la forza unificante appunto della ragione nella realtà del vissuto dei cittadini prima ancora che nella trama anche complessa delle istituzioni. Quando tale sentimento si indebolisce, anche le basi della politica diventano più fragili.
Ecco perché è diventato urgente ripensare l’autonomia della politica. Incalzata dall’universale della tecnoscienza e da quello del mercato, essa è costretta a ritrovare la permeabilità fra le dimensioni dello spirito che una lettura semplificata dell’illuminismo aveva costretto in uno schema riduzionista. Una lunga nota al paragrafo 270 della Filosofia del diritto indica nella religione «il momento che integra lo stato per la profondità del sentimento». È la premessa del nuovo riconoscimento del ruolo pubblico della religione a valle del processo di secolarizzazione e della parabola del pensiero postmetafisico. È «con Hegel» – scrive Böckenförde – che ci sarebbe ancora una volta da chiedersi se lo stato liberale secolarizzato non viva in realtà «di presupposti che non può garantire»12. È rinunciando «all’alquanto forte concetto hegeliano di Teoria (con la T maiuscola)» –così Habermas conclude il suo intervento al Convegno del 2007 della Società italiana di filosofia politica– che quella integrazione potrebbe essere fecondamente interpretata come «possibilità che le tradizioni religiose includano potenziali semantici […] ancora in grado di essere di ispirazione per la società civile nel momento in cui si trova a fronteggiare delle sfide che hanno a che fare con i valori».
C’è però un’ulteriore prospettiva che merita probabilmente attenzione. Benedetto XVI, nel discorso preparato per la sua visita all’università romana della Sapienza, tornava proprio sul tema del lógos. Di fronte alla riduzione della ragione ad una dimensione astorica, chiusa nelle “fortunate” certezze della scienza della natura, la tradizione di sapienza e ragionevolezza custodita anche dalle grandi tradizioni religiose sollecita una più ampia comprensione del suo significato, che in qualche modo rilancia la preoccupazione hegeliana per l’ateismo incalzante del mondo etico. Certo, contrapponendo alla Aufhebung della religione nella filosofia l’autonomia non della politica, ma della fede, talvolta con accenti che sembrano riservare a quest’ultima e alla sua autorità il giudizio finale. Non può sfuggire la differenza fra l’affermazione che rischiano di diventare «chiacchiere utopistiche prive di contenuto reale» i programmi di giustizia e di pace costruiti sulla sola azione dell’uomo senza guardare a Dio13 e la tesi, difesa da Benedetto XVI in questo discorso, che quella del Pastore della Chiesa è «una voce della ragione morale dell’umanità». Che cosa vuol dire ragione? È possibile ritrovare in essa una chiave di lettura della politica non intollerante e allo stesso tempo capace di affrontare il contraccolpo del multiculturalismo (per non dire del relativismo) sullo stesso universale dei diritti umani? Vale comunque la pena di prendere sul serio queste domande.