Il 3 aprile 1926 Carlo Rosselli scrive su “Il Quarto Stato”: «È nella sventura che si misurano gli uomini. È nella sconfitta che il movimento socialista italiano darà la prova migliore della sua forza e della sua vitalità. Bisogna però che esso si imponga un coraggioso esame di coscienza, che esso addivenga alla più spietata delle autocritiche. Perché fummo battuti? Ecco la domanda fondamentale che dobbiamo porci e che esige una chiara risposta. Il sapersi rendere ragione della sconfitta è già un primo passo sulla via della rivincita» (Rosselli 1977, p. 148).
Carlo ha ventisette anni e per lui la lotta al fascismo procede insieme alla revisione critica delle idee del socialismo medesimo e della prassi storica dei socialisti italiani. Il fascismo non è frutto del destino.
Chi nasconde il capo - si legge nello stesso articolo - e si trincea dietro il dadà della “reazione internazionale”, o si limita, semplicemente a considerare il fascismo come il figlio legittimo e necessario del regime capitalistico, come una tappa fatale lungo il calvario socialista, dà prova di poca forza morale e mostra di non aver nulla appreso dalla lezione di questi anni. Le ragioni della disfatta non vanno infatti tanto cercate negli avvenimenti esteriori delle forze che sfuggono per definizione al nostro controllo, quanto in noi stessi. Siamo noi gli autori e del nostro bene e del nostro male (ibidem).
Riconosceva che la vittoria del fascismo aveva molteplici cause e che alcune d’esse
erano per natura loro incontrollabili e immodificabili, per lo meno nel breve giro di anni, e risiedevano e tuttora risiedono nel costume nazionale. Secoli di storia non si cancellano in pochi lustri di predicazione socialista. (...) l’Italia è un paese capitalisticamente arretrato, povero, disarticolato nelle sue parti, politicamente ineducato, affetto da provincialismo congenito... (ivi, p.149).
Già nel 1923 in un articolo su “Critica Sociale” rilevava come
sono almeno quindici anni che il movimento socialista in Italia è stato colpito da paralisi intellettuale (...) Mentre il corpo del partito si dilatava, il numero dei soci si moltiplicava, i seggi nei comuni e in Parlamento aumentavano, il livello culturale e il fervore di vita intellettuale venivano meno con un ritmo impressionante (Rosselli 1973, p. 83).
La gioventù che ne aveva favorito l’ascesa aveva cominciato ad abbandonarlo già prima della guerra mondiale. A suo giudizio il marxismo, come lo interpretava la maggioranza del socialismo italiano, si era ossificato in un materialismo deterministico che induceva i socialisti per un verso alla fatalistica attesa di una rivoluzione proletaria che avrebbe dovuto prodursi automaticamente, per effetto della crisi del capitalismo, e, per un altro, ad un mero riformismo troppo portato al compromesso.
A suo avviso questo determinismo era «pseudo marxista» poiché Rosselli riconosceva che Marx induceva uno spirito di lotta, ma sottolineava come di marxismi ce ne fossero molti poiché una dottrina politica non poteva rimanere immutabile nel corso degli anni, poiché i partiti che vi si riconoscevano operavano nel corso di eventi che via via cambiavano. Per tale ragione il marxismo che si era affermato nel partito socialista si era ridotto a un determinismo quasi dogmatico. Fin dal 1923, benché il Paese fosse entrato nella morsa del fascismo, i socialisti invece di fare i conti con la sua affermazione, rifuggivano dalle questioni concrete preferendo esercitarsi nelle interpretazioni esegetiche. Questo valeva soprattutto per gli intransigenti, che avevano la maggioranza nel partito dal 1912, ossia per i massimalisti del dopo guerra. Anche i riformisti, tuttavia, si proclamavano marxisti, benché il loro gradualismo democratico fosse «in profondo contrasto con tutto lo spirito informatore dell’opera marxista» che voleva essere rivoluzionaria, opposta alla democrazia liberale. In conclusione, tale contraddizione rendeva sterili anche i migliori di questa parte.
Anch’essi trascuravano quei problemi specifici dell’Italia contemporanea - e del mondo contemporaneo - che Marx non aveva previsto o aveva previsto male: il problema delle libertà, anzi tutto, davanti al risorgere di dittature; quello dei ceti medi che, contrariamente alle tesi marxiste, non si proletarizzavano; la questione dell’arretratezza del Meridione in un paese come l’Italia, la cui parte economicamente più avanzata s’industrializzava, creando persino delle aristocrazie operaie, ma senza diventare saldamente democratica. In tale quadro il marxismo era quasi un alibi di passività.
Rosselli era cosciente di quanto dogmatico fosse il marxismo in Italia come pure che esso fosse la bandiera della rivoluzione comunista, vittoriosa in Russia. Conforme o meno al marxismo, la rivoluzione russa era per Rosselli un fenomeno d’enorme portata e di significato positivo, ma non quanto era desiderabile nell’Europa Occidentale. A suo avviso i socialisti unitari, ai quali Rosselli apparteneva ancora nel ’23, dovevano marcare la loro differenza sul problema fondamentale della dittatura che si era affermata in Russia, dell’assenza di un regime democratico e liberale. pur tenendo conto della particolarità che, in un Paese come la Russia, poteva avere avuto il cambiamento rivoluzionario. I socialisti italiani, quindi, avevano assunto posizioni dogmatiche verso la rivoluzione russa e il fatalismo marxista aveva influenzato pure il loro atteggiamento, tra il 1919 e il 1922 verso quanto stava accadendo in Italia, sulla portata della crisi che stava vivendo il Paese.
Il marxismo, secondo Rosselli, era diventato inservibile ad un’azione politica positiva, nella realtà italiana. E da tale giudizio non escludeva i comunisti italiani, che nel ’23 giudicava affetti da «infantile mimetismo» nei confronti della rivoluzione bolscevica, rispondente alle condizioni ambientali della Russia, ma non a quelle dell’Italia.
In esilio, Rosselli lesse sicuramente alcuni scritti editi di Gramsci e forse ne tenne conto già nel programma di “Giustizia e Libertà” del 1932, e più ancora successivamente, nelle sue formulazioni sulla rivoluzione antifascista e socialista italiana, della rivendicazione dei consigli operai. Pochi giorni prima d’essere assassinato, prendendo la parola alla commemorazione di Gramsci a Parigi, organizzata unitariamente dall’antifascismo fuoruscito, Rosselli esordì con queste parole: «In Antonio Gramsci l’umanità ha perduto un pensatore di genio e la rivoluzione italiana il suo capo».
Comunista o anche solo filocomunista Rosselli tuttavia non diventò mai. Successivamente alla commemorazione di Gramsci ebbe un’altra aspra polemica verbale coi dirigenti del partito comunista italiano, coi quali, per un istante, aveva pensato di fondare un quotidiano antifascista unitario. Fu a proposito degli eventi verificatesi nella Spagna repubblicana, con la repressione staliniana di anarchici e comunisti dissidenti. Fermo e costante fu il suo atteggiamento avverso a chi rifiutava la democrazia politica così come nel caso dei comunisti e dell’URSS.
Cresciuto in una famiglia di ispirazione risorgimentale - Mazzini era morto nella casa d’un Rosselli - Carlo Rosselli collocava quel socialismo che, al ritorno dal fronte, aveva abbracciato nell’ambito della civiltà democratica liberale in cui credeva. Alla borghesia capitalistica imputava d’aver abbandonato la democrazia liberale per poter schiacciare il movimento operaio.
Non escludeva, e lo scrisse, per esempio nel ’32, replicando ad una polemica di Giorgio Amendola (cfr. Rosselli 1932, pp. 33-40), che la borghesia italiana potesse diventare «favorevole al ritorno di un regime di libertà sia pure di libertà controllate in senso conservatore». Ma sperava che la forza nuova delle libertà democratiche diventasse anche in Italia, così come nell’Europa occidentale già lo era, il movimento operaio. Che la conciliazione fra civiltà liberale e movimento operaio avesse una base anche economico-sociale, oltre che politica, si sforzava di dimostrarlo nei suoi scritti giovanili sul sindacalismo operaio, fondato sullo studio degli economisti liberali più moderni e aperti e sull’osservazione - anche sul vivo - del laburismo inglese, cioè di un grande movimento operaio, che poggiava sui sindacati operai, senza essere marxista e aderente alle conquiste politiche del liberalismo.
Il “liberalismo socialista” di Rosselli, titolo di due suoi articoli del 1923-24, era già un’apertura all’Europa più progredita, in cui intendeva inserire il socialismo italiano (Rosselli aveva pubblicato nella “Critica Sociale” del 1-15 luglio 1923 un articolo dal titolo Liberalismo socialismo e uno con lo stesso titolo su “La Rivoluzione Liberale”, 15 luglio 1924, pp. 114-16, ora in Rosselli 1973, pp. 107-128). Nel 1924 Rosselli, riferendosi al primo governo laburista inglese, osservava quanto l’Inghilterra fosse più avanti dell’Italia. Quello inglese era l’esempio che additava ai socialisti italiani, pure avvertendo che se la borghesia ricorreva alla violenza - come in quel mentre il fascismo faceva in Italia - era lecito e doveroso, persino stando ai teorici inglesi della libertà, opporre violenza a violenza.
Ma, a parte il fatto che Rosselli stesso criticherà aspramente, per esempio nel ’33 e nel ’35, nelle sue lettere a Salvemini, alcune ottusità del laburismo britannico, specie in questioni internazionali, rimangono pur sempre le grandi realizzazioni dei governi laburisti e proprio per tale motivo i maggiori movimenti operai socialisti del continente europeo, nei paesi rimasti liberi, avevano preso strade per molti aspetti analoghe; se mai, con una minor fiducia nelle nazionalizzazioni o statizzazioni.
Da acuto e colto economista, formatosi alla scuola di Einaudi e di Cabiati, ma fin d’allora attento anche a Keynes, Rosselli intravvedeva, già nel ’24, alcune delle difficoltà del socialismo. Criticava il socialismo invasivo e accentratore di Stato, la sua burocrazia, con il risultato che la libertà individuale risultava schiacciata e che, di fronte alle trasformazioni in atto a partire dal XIX° secolo, le vecchie formule dogmatiche pesavano negativamente rendendo faticoso e incerto il tragitto che doveva, necessariamente, adeguarsi all’esperienza.
Cos’è, quindi, il socialismo per Rosselli? È l’aspirazione delle masse ad affermarsi nella storia e, come tale; è un ideale di vita; è un divenire continuo, una realizzazione giorno dopo giorno che porta a superare quanto è stato acquisito in un processo dinamico dei ceti inferiori che avanzano e salgono socialmente; in definitiva, è una marcia eterna. Così, come la borghesia era diventata liberale nella lotta al feudalesimo, al potere clericale e alle monarchie assolute, ora toccava al proletariato divenire liberale.
Nell’Italia del 1924-26, tuttavia, la borghesia aveva cessato di essere liberale per divenire fascista. Vi avevano contribuito il massimalismo e la passività del partito socialista e il mito, accreditato dal fascismo, che solo il suo avvento al potere aveva impedito una rivoluzione bolscevica. Dovevano abbracciare i valori del liberalismo, nella lotta antifascista, i socialisti, farsi campioni della lotta per la rinascita dei principi di libertà e di democrazia. Questo, era, per Rosselli, l’insegnamento di Giacomo Matteotti.
La lotta fu lunga. Al confino di polizia, a Lipari, scrisse il libro Socialismo Liberale (cfr. Rosselli 1973) edito a Parigi, ma clandestinamente letto da taluni anche in Italia. Nel frattempo Rosselli stesso aveva fatto ulteriori letture di socialisti occidentali e ulteriori riflessioni sul dramma italiano. Il socialismo occidentale, per lui, si attesta sempre più nella democrazia liberale.
Carlo Rosselli è ben consapevole che l’affidarsi al metodo democratico non vuol dire eliminare la violenza dalla storia né tantomeno ritiene che la borghesia rimanga passiva a fronte del proprio tramonto e non è da escludere che essa possa convertirsi a fascismi nuovi e rifuggire dagli scontri armati. Però, è anche consapevole che essa non rappresenta un blocco sociale uniforme per cui è un errore cementare il blocco borghese reazionario esasperandolo coi conflitti di classe. Il proletariato, infatti, è ovunque una minoranza e non gli conviene sfidarla sul terreno delle prove di forza, mentre è meglio rifarsi direttamente a quei diritti riconosciuti alle minoranze dal liberalismo borghese. Quanto è avvenuto in Russia, ove i socialisti sono stati perseguitati, deve essere di insegnamento per quanto concerne il clima delle libertà e del valore delle istituzioni democratiche.
Rileva come il socialismo marxista assegni alla libertà un valore relativo e storico vedendo solo le libertà singole quali provvisorie libertà di classe derivanti da interessi di classe, per cui esclusivamente emancipando gli uomini dalla schiavitù del liberalismo essi saranno finalmente liberi. Rosselli la considera una posizione unilaterale che vede solo un aspetto del problema; essa diviene, tuttavia, la questione essenziale mettendo in subordine, anzi sacrificando, tutte le altre.
Invece, sacrificando le conquiste del liberalismo, se pur in nome del classismo proletario, il socialismo finisce per ridursi in un mero sogno di burocrati.
L’interpretazione classista, continua Rosselli, è incapace di comprendere il fascismo. Il fascismo è anche reazione borghese. Esso, tuttavia, non è solo un fenomeno di classe, ma il complesso di tanti fattori culturali e di indole del nostro popolo, delle sue debolezze nascoste ed è un errore ritenere che Mussolini abbia vinto solo grazie alla forza bruta, bensì, in quanto è stato capace di toccare quei tasti cui la psicologia del popolo italiano era particolarmente sensibile. Ne deduce che lottare contro il fascismo significa lottare anche contro mentalità e sensibilità particolari del popolo italiano. La questione italiana, a suo avviso, non si risolve con un meccanismo di rovesciamento del regime in quanto investe l’educazione morale e politica del popolo italiano al di là delle tradizionali divisioni di classi, per cui si dice convinto che i problemi costruttivi si porranno solo dopo la caduta del regime.
La lotta contro il fascismo, è il monito di Rosselli, non può essere una mera lotta di classe, anche se deve poggiare in primo luogo sul proletariato; dev’essere una lotta per la civiltà liberale, per tutte le libertà, per le istituzioni democratiche. Da ciò discende il programma della successione al fascismo. Nell’Italia post-fascista i partiti che saliranno al potere non dovranno governare per sé, ma per tutti e il socialismo, se si baserà su un programma di classe, a suo avviso, non conquisterà mai la maggioranza e, quindi, il potere politico.
Importante è il programma che “G.L.” si diede al principio del 1932 (“Quaderni di Giustizia e Libertà” 1932, pp. 1-20). Esso affermava che
la rivoluzione antifascista non sarà un semplice mutamento di forme politiche superficiali né un ritorno al passato, ma una profonda trasformazione economica-politica. Al governo sorto dalla rivoluzione e ai comitati locali rivoluzionari spetterà il compito di porre le basi del nuovo stato. Una Assemblea Costituente... consacrerà l’opera della rivoluzione e fisserà l’ordinamento della Repubblica. La monarchia sarà dichiarata decaduta... sarà costituita una guardia repubblicana in difesa della Rivoluzione. I maggiori responsabili e i favoreggiatori, finanziatori e profittatori del fascismo, cominciando dal re, saranno processati... (ivi, pp. 4-5).
Il programma prevedeva una radicale riforma agraria, basata sul principio de «la terra a chi la lavora», tutelando nello stesso tempo gli interessi della produzione; «una riorganizzazione generale dell’industria con un organo permanente per la direzione e il controllo della vita economica nazionale che traccerà un piano di ricostruzione economica e fisserà, in accordo con i pubblici poteri, le direttive fondamentali della produzione» (ivi, p. 6). La socializzazione, organizzata su una gestione autonoma, il controllo operaio e la democrazia di fabbrica, sarà alla base della riforma della produzione, La socializzazione, però, sarà assunta non dallo Stato, ma da organismi autonomi, non burocratici e avverrà con moderate indennità agli espropriati. Non dovranno essere espropriate e socializzate le industrie, anche se grandi, non bisognose di protezione, ma competitive, così la meccanica e la tessile e tutte le piccole industrie, così come l’artigianato. Lo Stato avrebbe dovuto essere separato completamente dalla Chiesa e ricostruito sulle più ampie autonomie» locali.
Il programma era seguito da un’attenta analisi della composizione sociale e professionale della popolazione italiana prendendo in esame le cifre del censimento del 1921 (da lui studiate già in precedenti suoi scritti). Ne emergeva che la maggioranza degli italiani non apparteneva al proletariato. Rosselli - per convincimento e per quanto si sapeva dell'URSS - riteneva che la socializzazione parziale poteva essere garanzia di libertà, mentre una socializzazione universale portava a una schiavitù. Egli rifiutava l'abolizione della proprietà privata e dell'economia di mercato.
Il fratello Nello era un democratico liberale, seguace in politica di Giovanni Amendola; Nello si dedicava per intiero agli studi storici, ai quali l’aveva iniziato lo stesso Salvemini.
Inviato al confino nel 1929, dichiarò che non poteva assumere l’impegno richiesto dalla polizia di non occuparsi di politica, perché non intendeva rinunciare ai suoi diritti di cittadino. Coi suoi libri e saggi o recensioni comincia la moderna storiografia del movimento operaio italiano e del socialismo italiano, la cui derivazione risorgimentale egli dimostrava.
A proposito del significato storico-politico di quegli scritti va osservato che è peculiare, a Nello Rosselli, la rivalutazione della tradizione risorgimentale in seno all’antifascismo socialista. Prima del 1935-36 non troviamo ciò nei comunisti e non molto neppure nei socialisti marxisti: la faranno propria e la svilupperanno dopo.
Ancora negli scritti di Gramsci sul Risorgimento, troviamo la critica, e non la rivalutazione, della sinistra risorgimentale. Al contrario in Nello essa c’è senza alcuna apologetica, poiché egli non diventò mai socialista, rimase sempre un liberale, molto aperto anche alla comprensione della destra storica liberale. Nelle pagine di Nello Rosselli su Mazzini (cfr. Rosselli N. 1967) nell’organizzazione operaia, su Pisacane (cfr. Rosselli N. 1977), socialista libertario e federalista, sui primi simpatizzanti piemontesi del socialismo, sui mazziniani e garibaldini che con Bakunin diventeranno socialisti o anarchici e internazionalisti, sui problemi economici, sociali, politici e anche biografici occorre studiare per giungere dalla conclusione del Risorgimento alla nascita del movimento operaio socialista. L’interrogativo che Nello Rosselli si poneva a proposito dei radicali del partito d’azione risorgimentale, che avevano lasciato Mazzini per il nascente socialismo, era quello stesso di Gramsci, solo che formulato in modo meno preconcetto, con maggior realismo critico relativamente alla delusione provata dalle masse per i risultati del Risorgimento.
Nello Rosselli non poteva sapere del destino suo e di suo fratello.
Il viandante ansioso di varcare il torrente - così si chiude il libro su Pisacane - getta pietre, una sull’altra, nel profondo dell’acqua, poi posa sicuro il suo piede sulle ultime, che affiorano, perché sa che quelle scomparse nel gorgo sosterranno il suo peso.
Pisacane, anche lui, parve sparito nel nulla. Ma, sulla sua vita, sulla sua morte poteva posare, e posa, uno dei piloni granitici dell’edificio italiano.
In occasione della traslazione delle loro salme a Firenze, Gaetano Salvemini commemorò, alla presenza del Capo dello Stato Luigi Einaudi, i fratelli Rosselli, intrecciando la vita di Carlo e Nello Rosselli a quella della democrazia repubblicana, nata dall’antifascismo e dalla Resistenza, indicando in essi uno dei pilastri più solidi che reggono l’edificio della repubblica democratica italiana.
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