Nelle scienze sociali stenta ad affermarsi una riflessione critica sul modo in cui si studiano le conseguenze dei processi di globalizzazione sulle dinamiche dell'opinione pubblica e del discorso pubblico. Ciò vale anche per lo studio del processo di formazione ed evoluzione del tema dell'immigrazione, rispetto al quale vengono spesso lanciate accuse verso i mezzi d'informazione, specialmente in Italia. Una serie non trascurabile di lavori di ricerca sul rapporto tra mezzi d'informazione e immigrazione nel contesto italiano avanza con forza uno schema di lettura secondo cui i media sarebbero il centro propulsore di una visione negativa dei migranti, attraverso la pervicace costruzione “artificiale” delle situazioni di emergenza connesse ai fenomeni migratori contemporanei.
Nel presente saggio si intende mettere in discussione tale schema, e proporre una lettura alternativa, in chiave interdisciplinare, che possa ridisegnare la prospettiva epistemologica da cui osservare e analizzare la connessione tra emergenza e immigrazione. Si procederà affrontando in sequenza i seguenti nodi problematici: a) la scomposizione e l'analisi critica dell'approccio in questione; b) l'interplay tra le condizioni di contesto che, nel campo dell'immigrazione, hanno co-generato una situazione di crisi e di emergenza; c) l'incongruenza della separazione delle responsabilità dei media; d) la natura delle emergenze e il loro ruolo nella costruzione sociale del tema immigrazione.
Non è certo la prima volta che si leva un coro di accuse verso i media, incolpati di spettacolarizzare e banalizzare un tema o una situazione sociale, strumentalizzandola per i propri fini. Un tema classico di questa connessione è la criminalità, la cui mediatizzazione è stata oggetto di studi divenuti pietre miliari di un filone delle scienze sociali fortemente orientato a collegare i problemi di ordine pubblico alle voracità di profitto e di influenza politico-culturale dei media, sia nel contesto europeo sia in quello nord-americano (cfr. Hall et al. 1978; Manning 1998; Altheide 2002). L'aspetto interessante consiste nella tesi secondo cui i media non perseguono soltanto finalità commerciali, ma anche, congiuntamente, finalità simboliche, cercando legittimazione e divenendo promotori di cambiamento culturale. Il discorso di tale filone accentua un approccio prevalentemente mediacentrico ai processi politico-culturali - essendo un fronte neo-critico di impronta tecnologico-culturale - e si articola successivamente su vari percorsi, principalmente con riferimento all'uso della minaccia terroristica per fini di controllo sociale e di consenso (cfr. Chomsky 2002; Altheide 2006 e 2009).
Soprattutto in forza della visione che li pone nella sempre più solida posizione di monopolisti della costruzione sociale della realtà, ai media si imputa una torsione cognitiva della società, per cui questa viene a perdere di vista gli essenziali riferimenti valoriali di una vita sociale e democratica basata sulla solidarietà e sull'inclusione. Tale degenerazione viene letta in vari modi, ma consonanti: si va dal panico morale derivante dall'insistenza sulle ondate di criminalità urbana degli anni Settanta in Gran Bretagna (cfr. Hall et al. 1978), alla sovra-percezione del crimine e della violenza causata dalla loro rappresentazione in televisione negli USA (cfr. Gerbner et al. 1986); alla paura del terrorismo, che diventa la giustificazione condivisa di un assetto securitario e belligerante, ancora negli USA, ma dopo il 2001 (cfr. Altheide 2006).
Nonostante la vicinanza con i temi della criminalità e del terrorismo, a livello internazionale l'immigrazione non è stata portata dentro tale schema. Al contrario, nell'analisi di lungo periodo e comparata (Francia-USA) della rappresentazione mediale dell'immigrazione emerge una poliedricità di frame entro i quali il fenomeno viene inquadrato: non solo il frame della minaccia, ma anche quello del management, quello umanitario e ancora altri; si tratta inoltre di frame che attraversano e danno forma alle rappresentazioni mediali, provenendo da contesti vari dello spazio pubblico (cfr. Benson 2013).
La combinazione tra immagine negativa del fenomeno migratorio e degenerazione morale dei mezzi d'informazione è emersa molto significativamente nel caso italiano. Rispetto all'affermarsi del tema nella sfera politica, nei media e nell'opinione pubblica, molti studi, in gran parte longitudinali e pertanto in grado di evidenziare le linee di continuità (cfr. Dal Lago 1999; Sciortino e Colombo 2004; Binotto e Martino 2004; Colombo 2007; Binotto, Bruno e Lai 2012 e 2016), riportano ed enfatizzano alcune tendenze principali, facendone discendere precise valutazioni. Innanzitutto viene “denunciata” la sistematica e insuperata parzialità dello sguardo sull'immigrazione, e l'incapacità di argomentare e analizzare i fattori causali, la molteplicità dei tipi di presenza, i processi virtuosi di inserimento-integrazione, ecc. In secondo luogo, si afferma che il giornalismo usa largamente stereotipi, che alimentano una visione pregiudizialmente ostile verso i migranti: questo si sarebbe attuato principalmente nella combinazione immigrato-criminale e immigrazione-insicurezza. Parallelamente, i media vengono considerati responsabili dell'associazione artificiosa tra immigrazione e situazioni di emergenza che creano allarme sociale, in modo perfettamente corrispondente con quanto gli studi critici prima richiamati sostengono sulle ondate di criminalità.
L'approccio si impernia su una chiave di lettura che fa coincidere la genesi dell'emergenza con la costruzione puramente mediale delle crisi, etichettata con l'efficace espressione di meccanismo tautologico dei media (cfr. Dal Lago 1999). Si percepisce chiaramente che questo tipo di valutazioni si inscrive nel contesto di sviluppo dei media commerciali in Italia, congiunto al processo di legittimazione delle culture di destra, seguito alla trasformazione del quadro politico che avviene nella cosiddetta Seconda Repubblica. Al di là dell'influenza evidente della contingenza storica, tuttavia, lo “schema” - non nuovo, come detto, nel campo degli studi critici su informazione e ordine pubblico - ha assunto la fisionomia di una ingombrante retorica scientifica, che frappone un legittimo ethos civile tra lo sguardo del ricercatore e l'analisi dell'oggetto di studio, ma - ciò facendo - si inibisce la possibilità di una lucida comprensione del problematico rapporto tra media e immigrazione. Cosa che del resto si è manifestata in modo ricorrente nei percorsi delle sociologie militanti.
2. Per una ricostruzione di contesto del rapporto tra immigrazione ed emergenza
Non v'è dubbio che le dinamiche di lungo periodo coinvolgenti la politica, le culture politiche e l'opinione pubblica, oltre che il sistema dei media, abbiano avuto un impatto nel dare forma al tema dell'immigrazione. Possiamo qui lasciare da parte i pur rilevanti aspetti demo-economici e concentrarci su cinque fondamentali punti, che disegnano il quadro di riferimento entro cui sembrerebbe opportuno, oltre che ragionevole, collocare qualsiasi analisi e valutazione sulle strategie dei media nella rappresentazione del fenomeno.
1. Le politiche post-welfare sono inadeguate a rispondere ai nuovi bisogni, corrispondenti a nuovi sistemi di protezione sociale.
2. La sicurezza è divenuta un “bisogno” e una domanda politica crescente (nelle sue varie declinazioni).
3. Le politiche dell'immigrazione rincorrono il problema e attuano interventi solo parziali di adattamento al susseguirsi delle contingenze.
4. I meccanismi della xenofobia sono poco conosciuti, ma soprattutto sono negativizzati e censurati, nel dibattito pubblico e in quello scientifico.
5. L'immigrazione è il terreno di uno scontro neo-ideologico che si espande poiché non è controbilanciato dall'articolazione di un dibattito sulle policies.
Riguardo al primo punto, che disegna la porzione apparentemente più retrostante dello sfondo, va considerato che l'immigrazione accompagna la fase declinante delle politiche di welfare a livello europeo. L'immigrazione si mostra in grado di rilanciare con forza non solo questioni relative ai diritti umani, ma anche questioni che riportano alla luce - con urgenza, e cominciamo qui a dire come nuova emergenza - la capacità di rispondere ai problemi di divario/svantaggio economico, culturale e relazionale che i migranti pongono su vari fronti. A questi si dovrebbe rispondere attraverso l'ampliamento della platea dei beneficiari di diritti già consolidati negli ordinamenti, o attraverso la diversificazione innovativa di diritti e servizi (cfr. Marini 2004; Ambrosini 2008).
L'andamento sfalsato e in controtempo di immigrazione e welfare mostra in modo semplice e duro quali sia il problema fondamentale del progetto di società che si chiama multiculturalismo: la mancanza di risorse di welfare per rendere sostenibile il fenomeno migratorio e, nel contempo, una cultura politica che si limita a una serie di dichiarazioni di principio, diventando vana retorica (in tal senso si esprime anche Ambrosini, 2008).
Rispetto al secondo punto, è bene ricordare che il welfare state nasce per realizzare diritti inscritti in un'idea di protezione sociale legata agli effetti degli squilibri di mercato in termini di disuguaglianza, e che la redistribuzione della ricchezza e del benessere sociale è stata fondativa della politica dalla fine dell'Ottocento ad oggi. Allora, occorre segnalare che un nuovo tipo di richiesta di protezione sociale emerge con la globalizzazione e con l'affermarsi della cosiddetta società dell'incertezza (cfr. Beck 1986; D'Alessandro 2010). Se i diritti sociali di tipo redistributivo hanno dominato l'agire politico fino a tutto il Novecento (cedendo spazio negli ultimi decenni), nel terzo millennio si affaccia un sistema di nuovi bisogni e diritti, quelli appunto connessi alla sicurezza, che promette di essere il nucleo di una nuova politica, andando dalla sicurezza personale a quella urbana, passando per quella informatica, ambientale e alimentare. Si prospetta cioè un nuovo ciclo, pur tra svariate resistenze sia culturali sia politiche, animate da ragioni vecchie e nuove che comunque riconducono la sicurezza all'autoritarismo statale e al controllo sociale, come prima richiamato.
Il terzo punto è incardinato nel primo; l'inadeguatezza delle politiche dell'immigrazione è dimostrata dalla difficoltà di elaborare, oltre le regolarizzazioni e i decreti-flussi, quadri legislativi organici che si adattino al cambiamento stesso delle migrazioni e siano in grado di governare i processi di medio-lungo periodo. Ciò appare particolarmente eclatante rispetto alla fase dei profughi che attraversano il Mediterraneo, che hanno provocato un coinvolgimento multi-livello delle istituzioni politico-amministrative, dal livello micro-locale a quello europeo.
L'inadeguatezza si mostra nello spostamento del baricentro delle politiche di accoglienza e inserimento a livello locale, venendo a costituire (ormai da tempo) un patchwork disomogeneo, poiché dipendente dal grado molto variabile di collaborazione raggiunto tra istituzioni ed entità del privato sociale.
Inoltre, allorché l'immigrazione è dilagata come problema politico a livello europeo (cfr. De Cesaris e Diodato 2018), si è potuta constatare una tendenziale, ma mai realizzata, ridislocazione delle competenze verso la dimensione sovra-nazionale: si è determinata una situazione di mancata risposta e di stallo. Il cortocircuito della politica dell'Unione sull'immigrazione è anch'esso un tassello delle tante situazioni di emergenza, semplicemente intesa come evenienza disorientante proprio per la mancanza di dispositivi di intervento e strumenti di regolazione.
Sulla xenofobia - quarto punto - vi è stata una sorta di ostracismo scientifico in campo sociologico. Sebbene siano state proposte pregevoli riflessioni sulla figura sociale dello straniero (cfr. Tabboni 1990; Cotesta 2002) e sulla politicizzazione delle relazioni interetniche (cfr. Cotesta 2009), le latenti o palesi resistenze ideologiche non hanno permesso di portare nel dibattito pubblico la natura peculiare degli atteggiamenti verso lo straniero migrante, considerati patologici e segno di residui antidemocratici di ritorno. Tra questi atteggiamenti vanno sottolineati il differenzialismo, ossia le convinzioni di incompatibilità culturale, e soprattutto i cedimenti “nativisti” di un universalismo costruitosi insieme con l'idea di nazione (cfr. Fetzer 2000; Marini 2004). La consapevolezza sembra essersi innalzata solo quando la xenofobia ha mostrato la sua combinazione con il nazionalismo politico conclamato e reattivo. Si è presentata nella veste di incompreso contraccolpo culturale rispetto non solo alla globalizzazione ma anche al cosmopolitismo delle élite, entrambi fattori di attivazione del firewall protettivo delle culture locali (cfr. Norris e Inglehart 2009 e 2019), mettendo in evidenza una frattura culturale dalle gigantesche conseguenze politiche, che in modo oppositivo arriva a coinvolgere il processo di integrazione europea (cfr. Risse 2010). Siamo così già entrati nel quinto problema.
La questione posta come quinto punto sottende un interrogativo, innanzitutto scientifico, che qui sintetizza i vari problemi illustrati, e riguarda le condizioni entro le quali la politica si disloca in modo prevalente sul fronte simbolico. Infatti, uno dei fondamenti delle scienze sociali è l'idea per cui la politica preferisce e tende a spostare il discorso pubblico sul piano dei simboli, ad agitare strumentalmente rappresentazioni e valori, o comunque a provocare slittamenti verso l'uso simbolico ed emotivo delle idee, delle immagini di “noi” e “loro” (cfr. Mills 1960; Edelman 1964 e 1988). Questi studi ci offrono l'immagine di uno spazio pubblico in cui la leva della emozionalità dei simboli serve ad offuscare o addirittura a sostituire il dibattito basato sul confronto delle proposte. Anche gli studi sul processo di agenda building lo segnalano come aspetto cruciale della issue definition (cfr. Elder e Cobb 1983; Rochefort e Cobb 1994). Tuttavia, sottolineano la complementarità tra agire razionale e agire simbolico, indicando come vada sempre attentamente valutato il modo in cui, e i processi attraverso cui i temi acquistano tale pregnanza simbolico-ideologica, rispetto alla componente dell'analisi e della progettualità.
Dalle considerazioni svolte illustrando i punti precedenti, si può facilmente dedurre che il tema dell'immigrazione si sia formato e modellato all'interno di un processo sbilanciato dal lato delle ideologie e dei simboli, dando anzi vita, come un epicentro, ad una ripresa neo-ideologica della politica nel suo complesso (cfr. Ambrosini 2014; Norris e Inglehart 2009 e 2019).
Quando non sono presenti nello spazio pubblico idee creative di progetto e di prassi, la politica si materializza in policies che riflettono quella natura ideologica e conflittuale, semplificante in chiave dicotomica e polarizzata; trasformandosi in strumenti di rassicurazione e scorciatoie, ma soprattutto venendo a costituire la sola politica possibile (cfr. Altheide 2006 e 2009; Marini 2017b). È quello che già i filosofi ateniesi paventavano come degenerazione demagogica della politica; è quello che sostiene Habermas sulla qualità del discorso pubblico (1992).
3. Interdipendenze media-politica ed eventi straordinari
Nella genesi di questo disequilibrio hanno un ruolo rilevante anche i mezzi d'informazione, per la loro inclinazione spettacolare, che attraversa trasversalmente i vari tipi di giornalismo. Si tratta della loro preferenza per una rappresentazione agonistica della politica. Va poi aggiunto il rinforzo che a questo tipo di messa in scena può provenire dalle piattaforme del web sociale, che riconfigurano gli schemi relazionali tra pubblici, media e politica (cfr. Sunstein 2017).
Questo rapporto tra media e politica viene però giustamente considerato una forma di scambio di risorse simboliche, tra sistemi che hanno sviluppato nel tempo una reciprocità collaborativa, che appare un misto di coesione e autonomia. All'interno dell'“impasto” di cui vive il circuito politico-mediale, alcuni fattori possono giocare un ruolo trasformativo di assetti ed equilibri preesistenti: si tratta di processi del tipo descritto nel secondo paragrafo, prevalentemente relativi a fasi di destabilizzazione che vengono a costituire veri e propri momenti critici (cfr. Tarrow 2018; analogamente Baumgartner e Jones 1993, con la loro teoria degli equilibri punteggiati), come quello che nell'ultimo decennio ha congiunto crisi economica e contraccolpi culturali della globalizzazione e dei nuovi flussi migratori.
Ecco che si può pervenire alla questione, non sempre adeguatamente considerata, di ciò che attualizza la crisi nel fluire del tempo, e il modo in cui prendono forma le reazioni degli attori in campo. In altri termini: avendo già discusso degli aspetti di contesto dell'emergenza, parliamo ora delle emergenze più o meno ricorrenti che l'interazione media-politica definisce come tali. Affrontiamo cioè la questione degli eventi straordinari, con la consapevolezza “storica” che il tema dell'immigrazione ha mostrato di essere “sostenuto” nel suo sviluppo da ripetuti “rilanci” e riprese di attenzione, a seguito di eventi la cui straordinarietà si definiva non solo per la loro intrinseca natura, cioè di non essere ordinari fatti di vita sociale, ma anche per essere in collegamento con il contesto di sospensione e di emergenza irrisolta descritto in precedenza; e, inoltre, per essere in grado di delineare nuove caratteristiche del fenomeno migratorio (come i “viaggi della disperazione”) o di sollecitare aggregazioni tematiche (come nel caso degli attentati terroristici in Europa).
Riguardo all'immigrazione, ci si riferisce a fatti di criminalità caratterizzati da efferatezza o comunque gravi, così come alle tragedie del mare, che vanno a sovrapporsi, all'incirca dal 2013, a omicidi e altre violenze, anche subite da immigrati. Si tratta proprio di quel tipo di avvenimenti che hanno suscitato le denunce di allarmismo e di creazione artificiale dell'emergenza rivolte ai media, discusse nel primo paragrafo. Appare alquanto curioso che analoghe dinamiche di allarme sociale, come quelle relative a temi quali la violenza di genere e gli incidenti sul lavoro, non vengano sottoposte alla stessa valutazione: l'esempio principe è l'incidente alle acciaierie ThyssenKrupp di Torino nel 2007, come capostipite di una lunga sequenza di eventi dello stesso genere.
La loro rilevanza giornalistica è chiaramente collegata al fatto che l'immigrazione è già posta in alto nell’agenda politica, ma essi stessi contribuiscono a innalzarne la rilevanza. Si tratta infatti, nella gran parte dei casi, di eventi la cui genesi non è sotto il controllo né dei media né della politica (si pensi alla tragedia di Lampedusa, allo stupro di Rimini, al caso Macerata, senza contare gli attentati terroristici come eventi in posizione collaterale). Proprio perché caratterizzati dai tipici “requisiti” degli accadimenti che fanno rumore in qualsiasi sistema mediale democratico, essi attraggono una notevole attenzione nei processi di mediatizzazione estesa (cioè anche nelle conversazioni tra le persone). Impongono così una loro gestione simbolica, ossia in vario modo “costringono” gli attori politici a misurarsi con le situazioni correlate, o addirittura offrono loro l’opportunità di utilizzarli a proprio vantaggio.
Rispetto a tale “capacità” degli eventi, fanno da guida i contributi del filone dell’agenda building che hanno concentrato l’osservazione sul ruolo degli eventi scatenanti (o trigger events) nella ridefinizione delle issues (cfr. Baumgartner e Jones, 1993; Dearing e Rogers, 1996; Boydstun, 2013), Alcuni studi in particolare (cfr. Birkland 1997; Boydstun 2013) sottolineano la capacità di tali eventi straordinari, e non controllabili nella genesi da parte delle élite politiche, di produrre - pur attraverso la drammatizzazione - processi di focalizzazione in grado di aprire fasi nuove nello sviluppo di un tema, anche in termini di rinnovato conflitto di agenda.
Tale dinamica inoltre implica lo stabilirsi di una notiziabilità incardinata sul tema, che finisce per assegnare “valore” a fatti minori ma simili o collegati, dando vita a sequenze che mantengono una certa tensione sulla questione aperta - aspetto fortemente stigmatizzato dagli approcci critico-normativi, come nella concettualizzazione dei media loops di Manning (1998). Come già osservato proprio nei loops mediali, entra in gioco la ri-mediazione (cfr. Chadwick 2013), che, come processo di moltiplicazione trans e cross-mediale (attraversando pure i social media), anch'essa espande il volume dell'attenzione e la necessità di interpretazioni.
Inoltre, tali eventi-chiave, come detto, distanziano alcuni media dal legame con la politica, mentre in altri casi costituiscono occasione di un più stretto fiancheggiamento. L'analisi del caso Macerata nella stampa quotidiana (cfr. Bonerba et al. 2019) ha evidenziato chiaramente che l'esplosione dello scontro simbolico (le dichiarazioni e le manifestazioni contrapposte), oltre che naturalmente le vicende giudiziarie, hanno saturato lo spazio di trattazione del tema immigrazione, per poi trascinarlo a livelli più elevati del periodo precedente ai fatti scatenanti. In tale evoluzione vi sono tre configurazioni discorsivo-narrative distinte. Due sono opposte polarmente nello spazio semantico delle narrazioni, quelle dell'ideologia e della policy. Centralmente, a fare da snodo, vi è la configurazione delle storie e delle azioni dei migranti.
Sul fronte ideologico gli schieramenti vengono rappresentati nella loro forza polemica e di opposizione polarizzata, Su tale fronte, partigianeria e advocacy da parte dei media, associate a una messa in scena dello scontro in forma agonistica, svolgono un ruolo di sostegno delle dinamiche politiche, che coinvolgono ampi settori dell'associazionismo civico nel gioco delle reazioni e contro-reazioni, con l'uso di forme di etichettatura reciproca che si consolidano nello scontro di piazza e mediatico.
Sul fronte del dibattito sulla gestione, il discorso/narrazione si basa sulla proiezione del problema nelle relazioni internazionali e sulle tematiche domestiche dell'accoglienza (strutture, servizi, costi), tematizzando le criticità del governo dell'immigrazione ai vari livelli. Queste sono le conseguenze “dibattimentali” dell'evento straordinario.
L'analisi mostra un'ulteriore porzione dello spazio narrativo-discorsivo, che propone l'uso dell'evento da parte dei mezzi d'informazione improntato all'accountability dell'azione politica. I cluster centrali e tra loro vicini indicano che la contesa elettorale è stata associata alle storie dei migranti e al pulviscolo disperso delle vicende di “turbolenza” con protagonisti i profughi e gli altri migranti. Sembra qui di riscontrare l'accompagnamento tipicamente cronachistico della contesa politico-elettorale, mentre siamo di fronte ad un sistema di connessioni tematiche che sottolineano e ribadiscono le difficoltà di gestione dell'immigrazione.
La narrazione giornalistica, pertanto, mette in scena il conflitto simbolico-valoriale, ma lo contestualizza o anche lo controbilancia con il racconto del critico inserimento dei profughi e della problematicità delle politiche di accoglienza-inserimento, della loro sospensione nella contingenza. Il che riconduce la gestione narrativa dell'evento al frame del management e più ampiamente a quello dell'emergenza irrisolta. Ciò conferma che le crisi migratorie riconfigurano i rapporti media/politica, accentuando in larghi settori dell'informazione l'atteggiamento e la strategia di vigilanza critica, anche utilizzando - pragmaticamente o responsabilmente - la terzietà come strumento di legittimazione e di influenza.
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