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La metropoli distopica

ALESSANDRO LANZETTA
Articolo pubblicato nella sezione La distopia nel Terzo millennio
I. I piroscafi
Una grande epoca è cominciata
Esiste uno spirito nuovo
Esiste una quantità di opere ispirate a questo spirito nuovo; opere che si ritrovano soprattutto nella
produzione industriale.

(Le Corbusier 1973, pp. 65-66)

1. Le utopie del Movimento Moderno generate dalle distopie della Modernità

Venezia 2014

Venezia 2014, © A. Lanzetta


Ottobre 2014, una nave da crociera emerge dal canale della Giudecca nel centro storico di Venezia: è enorme, smisurata, tanto che la basilica di San Giorgio Maggiore sembra un piccolo edificio. Questa immagine, sfacciata e potente, è probabilmente una delle più efficaci e paradigmatiche descrizioni dell’inquietante rapporto tra le utopie e le distopie formulate sulla metropoli della modernità, definita nel 1925 da Le Corbusier: «la BESTIA, la Grande Città» (Le Corbusier 1925, pp. 157-158; Le Corbusier, Tamburrino 2003, p. 95).
Una nave, infatti, apparve nel «programma» pubblicato nel libro-manifesto Vers une architecture (1923): «Ingegneri anonimi, meccanici al lavoro tra la forgia e il grasso d'officina, hanno concepito e costruito quelle cose formidabili che sono i piroscafi. [...] Gli architetti dimorano nella pochezza dell'ignoranza delle nuove regole del costruire e le loro concezioni sono ferme alle colombe che si baciano. Ma i costruttori di piroscafi, ardimentosi e sapienti, realizzano palazzi al cui confronto le cattedrali appaiono piccolissime: e li lanciano per mare! [...] Il piroscafo è la prima tappa nella realizzazione di un mondo organizzato secondo lo spirito nuovo» (Le Corbusier 1973, pp. 70-80).
Il Novecento è finito. È passato quasi un secolo. Tutto è cambiato: l’eroico piroscafo lecorbusiano si è trasformato in un’empia nave che con il suo scellerato passaggio “stupra” la città-capolavoro; si è trasfigurato nell’archetipo della perversione della tecnica moderna. È diventato, insomma, la punta estrema di quell’immaginario distopico sulla metropoli contemporanea che regna in tutti i media italiani e che considera i simboli della modernità come catastrofi e incidenti della storia. Una percezione che rifiuta ogni fatto urbano “divergente” da ciò che l’élite culturale mainstream ritiene sano, corretto, morale e persino “bello”.
Gli enormi transatlantici, ovviamente, sono un pericolo concreto per Venezia, ma poche persone riflettono sul fatto che queste titaniche macchine navigano immerse in un tessuto urbano completamente gentrificato, in una città a loro analoga, uccisa dal turismo e trasformata nel più grande centro di servizi internazionale dell’«industria culturale» (Adorno, Horkheimer 1966). Ciò passa in secondo piano: sono divenuti un’icona negativa così performante che il Fondo Ambiente Italiano ha organizzato una mostra del fotografo Gianni Berengo Gardin dall’eloquente titolo Mostri a Venezia (Milano, 2014). La chiara evocazione al romanzo Morte a Venezia di Thomas Mann, tuttavia, appare assai controproducente, poiché potrebbe invece alludere a quella sensazione di cimitero urbano che s’impone al calar del sole, quando i visitatori e i lavoratori del comparto turistico spariscono e il silenzio invade ogni calle e campiello. In questo spazio sospeso, le enormi e sciatte navi da crociera sono così una perfetta e perturbante eterotopia foucaultiana, che rimanda come uno specchio la realtà «generica» (Koolhaas 1995), eterogenea ed eterocronica del capoluogo veneto: «un luogo senza luogo, che vive per se stesso, che si autodelinea e che è abbandonato, nello stesso tempo, all’infinito del mare» (Foucault 2001, p. 32). Venezia stessa, del resto, è ormai uno spazio eterotopico contemporaneamente reale e irreale, dentro e fuori dal tempo, poiché non è più un luogo di vera socialità urbana ma un concentrato di vite ludiche temporanee, sospese e spesso incompatibili: da decenni è un enorme parco a tema del turismo di massa e dello shopping, uno sconfinato museo a cielo aperto, la sede di numerosissime fondazioni culturali e la vetrina internazionale della cultura artistica, cinematografica e architettonica.
La città lagunare, in fondo, è il luogo in cui le utopie e le distopie dell’urbanistica contemporanea si sono realizzate nelle forme più estreme, concretizzando appieno sia lo zoning progressista, sia una versione surreale delle gated community neoliberiste: da una parte, nel bel centro storico insulare, i turisti, gli intellettuali, le feste, le mostre, i festival, le Biennali e i vernissages; dall’altra, deportati nelle bruttissime periferie continentali di Mestre e Marghera, i veri abitanti e i lavoratori degli altri comparti produttivi.

La strana natura di Venezia, città antica e modernissima al tempo stesso, era stata notata proprio da Le Corbusier, che la adottò come paradigma della sua urbanistica utopica e meccanicista. Nel saggio La Ville Radieuse (1935), infatti, le dedicò due pagine di testo, grafici e fotografie che ne restituivano un’immagine sorprendente: «Quello che è fondamentale a Venezia è la distinzione tra la circolazione naturale e quella artificiale: il pedone e la gondola. Questa distinzione [...] offre agli abitanti un tesoro inestimabile: la quiete e la gioia. La netta separazione delle due circolazioni ha permesso d’organizzare, senza equivoci né dualità, i tracciati urbani: qui i canali, là le strade dei pedoni. [...] Venezia città funzionale, straordinariamente funzionale, modello per l’urbanistica contemporanea, testimone del rigore imposto dal fenomeno urbano. Venezia testimone del rigore funzionale» (Le Corbusier 1935; Petrilli 1999, p. 24).
La propensione di Le Corbusier per la città meno moderna d’Europa è strana, ma si può spiegare con quel carattere di perturbante eterotopia descritto sopra. Egli, infatti, mostrò sempre un amore spassionato per gli spazi tradizionali della città mediterranea, allora come oggi sospesi in un tempo indefinito che li rende vicini e contemporanei, eppure simultaneamente lontani e arcaici. Al contrario, manifestò sempre una chiara repulsione per la metropoli del suo tempo (Lanzetta 2016, pp. 45-77).
Pertanto - e qui veniamo al punto della questione - possiamo azzardare che l’utopia urbana della Ville Radieuse nacque da una percezione distopica della Grande Città della modernità, «la BESTIA» citata sopra. Il conseguente progetto del Plan Voisin (1922-1925), difatti, presentò un’idea radicale, frutto di un netto rifiuto del presente e di una visione nostalgica del passato. La tecnica, insomma, era il mezzo che poteva restituire la «quiete e gioia» dell’antica città mediterranea conosciuta nel Viaggio in Oriente del 1912 (Jeanneret-Le Corbusier 1974), era lo strumento per ricostruire quel paradiso perduto in un futuro meccanico, perfetto, «radioso».
Nel Plan Voisin, Le Corbusier immaginò una completa demolizione e ricostruzione del centro di Parigi, trasformato in un’enorme e astratta città giardino formata da grattacieli distanziati e immersi nel verde, da enormi arterie di scorrimento a sei corsie e da percorsi pedonali aerei. Una Ville Radieuse che azzerava e igienizzava la moderna cultura parigina della strada, descritta, per esempio, nei romanzi di Charles Baudelaire o nei saggi di Walter Benjamin, ma anche nelle opere delle Avanguardie, ossia dai movimenti culturali a cui l’architetto partecipava come artista e come direttore de «L’Esprit Nouveau». Questo complesso e contraddittorio rapporto tra percezione distopica del presente e visione utopica del futuro, comunque, lo possiamo cogliere nelle sue stesse parole: «Una volta fissato il limite di densità che un agglomerato urbano può raggiungere, diventa automatico il rifiuto di soluzioni di città disegnate come Parigi, con il suo cumulo di edifici ammucchiati l'uno sull'altro, le sue strade strette piene di rumore, puzza di benzina e polvere, dove le finestre di tutti i piani sono spalancate su un tale sudiciume. Partiamo da quel fondamentale evento costruttivo che è il grattacielo americano: basta concentrare in alcuni punti, poco numerosi, quella medesima densità di popolazione e lì costruire immensi edifici di sessanta piani. [...] A partire dal quattordicesimo piano, la calma è assoluta e l'aria è pura. [...] Le torri, poste a grande distanza l'una dall'altra, offrono in altezza quello che prima si svolgeva in superficie, liberando ampi spazi che convogliano lontano dalle abitazioni le grandi arterie, piene di rumore e di traffico veloce. [...] L'intera città è immersa nel verde. Le torri sono allineate lungo viali imponenti. È questa l'architettura veramente degna del nostro tempo» (Le Corbusier-Saugnier 1920-21; Le Corbusier, Tamburrino 2003, pp. 17-18.).


2. Le utopie del Movimento Moderno generano le visioni distopiche del Postmoderno

Tor Bella Monaca, Roma, 2016

Tor Bella Monaca, Roma, 2016, © A. Lanzetta


Il Plan Voisin, per fortuna, rimase sulla carta, ma una parte di quel disegno generò la Carta di Atene (1933) e i paradigmi dell’urbanistica moderna, ossia le basi di quella metropoli che è stata successivamente percepita come alienante e inumana. Il grande progetto di Le Corbusier, in poche parole, è uno dei genitori di quella visione distopica del paesaggio odierno accennata sopra. Si può allora azzardare che, per quanto riguarda i fatti urbani, ci sia sempre stata una precisa relazione tra percezioni distopiche del presente, progetti utopici del futuro e successive narrazioni distopiche basate sulle loro concretizzazioni: un rapporto ciclico tra immagini, un incessante eterno ritorno nietzschiano che, in fondo, rappresenta la stessa città moderna.
Ogni progetto urbano, del resto, che sia dell’epoca Rinascimentale con Leon Battista Alberti o Filarete, dell’epoca Illuminista con Étienne-Louis Boullée o Claude-Nicolas Ledoux, dell’epoca contemporanea con Tony Garnier, Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe o Ludwig Hilberseimer, possiede un’innata pulsione utopica. Questo perché comporta necessariamente l’arrogante, autoritaria e tuttavia bellissima pretesa di cambiare il corso delle cose attraverso la forma impressa allo spazio. Ciò nonostante, ogni edificio, strada, piazza, parco, quartiere o intera città, una volta realizzati, diventano proprietà degli individui che li vivono, i quali hanno il potere - se non il dovere - di contestare e contrastare quell’idea, tentando di modificarla a loro piacimento. Un fatto, del resto, ben testimoniato dalla pessima fama dei quartieri europei di edilizia sociale del Secondo dopoguerra, costruiti per sanare la miseria dei borghetti proletari dell’epoca.

Gli edifici realizzati a partire da idee utopiche sono spesso diventati un’ambientazione perfetta per le narrazioni a sfondo distopico della fantascienza letteraria, cinematografica e fumettistica. Ciò accade perché le forme architettoniche avanguardiste creano sempre una frattura con le concezioni spaziali coeve e hanno bisogno di molti anni per essere accettate. Questo è sicuramente il caso del Marin County Civic Center (1957) di Frank Lloyd Wright a San Rafael in California, usato come set di due film di fantascienza. Il primo è L’uomo che fuggì dal futuro (1971) di George Lucas, che racconta di un’umanità del XXV secolo rifugiata in città sotterranee e organizzata in una civiltà totalitaria dominata dalle macchine. Un mondo alienante e iperfunzionalista in cui tutto è omologato e le persone sono controllate dal governo attraverso droghe: non esistono nomi ma numeri; tutti sono rasati a zero e vestiti di bianco; le pulsioni sessuali sono sfogate tramite ologrammi erotici o represse con farmaci; la riproduzione è programmata per inseminazione artificiale.
Il fatto che i meravigliosi spazi di Wright siano stati reputati adatti a rappresentare un tale futuro, getta una sinistra luce sulla percezione popolare dell’immaginario avanguardista architettonico. Cosa confermata dalla trama del secondo film ambientato nell’edificio, Gattaca (1997) di Andrew Niccol, un'altra pellicola distopica in cui è immaginato un futuro in cui si controlla il corredo genetico delle persone per selezionare individui perfetti e scartare quelli imperfetti.
Tornando a Le Corbusier e alla sua idea della Ville Radieuse, le varie tipologie edilizie che presenta sono state frequentemente protagoniste di pungenti critiche e parodie, espresse attraverso racconti e film di fantascienza. Per tutti può valere High Rise (1975) di J.G. Ballard, che ne offre un’immagine differente: «Per molti versi il grattacielo era il perfetto modello di tutto ciò che la tecnologia aveva fatto per rendere possibile l’espressione di una psicopatologia autenticamente “libera”» (Ballard 2005, p. 41). Una rappresentazione molto diversa da quella del grande architetto, ossia di un’architettura dove «la calma è assoluta e l'aria è pura» (Le Corbusier, Tamburrino, pp. 17-18).
Nell’ipertecnologica torre ballardiana, invece, scoppia una violenta faida tra i condomini che la trasforma in un ambiente anarchico, simile agli attuali territori dell’Afghanistan o del Corno d’Africa, dove non esistono leggi o istituzioni. Un ambiente deviante che, tutto sommato, gli abitanti delle periferie costruite a partire dalle idee di Le Corbusier ben conoscono e che Ballard intelligentemente ritiene implicito nella natura stessa dell’edificio: «Con i suoi quaranta piani e le migliaia di appartamenti, il supermarket e le piscine, la banca e la scuola materna - ora in stato di abbandono, per la verità - il grattacielo poteva offrire occasioni di scontro e violenze in abbondanza» (Ballard 2005, p. 7).

Esiste una divertente e poco nota parodia dell’urbanistica di Le Corbusier che ci può illuminare su come erano state recepite le sue idee negli ambienti conservatori d’oltralpe. René Barjavel, autore francese di fantascienza, sospettato di legami con il governo collaborazionista di Pétain, esordì nel 1943 con Ravage, un romanzo catastrofista basato su una profonda avversione alla modernità e alla tecnica, un tema ovvio alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La storia è ambientata nel 2052 in una Parigi trasfigurata nella Ville Radieuse: «Gli studi della Radio erano installati al 96° piano della Città Radiosa, una delle quattro costruite da Le Cornemusier per decongestionare Parigi. Si ergeva sull’antico quartiere dell’Alto Vaugirard, mentre la Città Rossa era stata costruita sull’antico Bois de Boulogne, la Città Azzurra sull’antico Bois de Vincennes e quella d’Oro sulla Butte Montmartre, nella quale un’unica costruzione era stata lasciata intatta: il Sacro Cuore. Il capolavoro di buon gusto e di originalità dell’inizio del XX secolo era stato delicatamente e interamente trasportato in un angolo dell’immensa terrazza di un grattacielo, e dominava la capitale dall’alto» (Berjavel 2008, pp. 14-15).
Nella distopica Parigi di Barjavel tutti gli individui sono schiavi della tecnica e inquadrati in una società iperfunzionalista, disegnata in una forma identica a quella della metropoli sognata dall’architetto svizzero: «Blanche Rouget prese l’ascensore e si fermò al primo piano del grattacielo, all’altezza dell’autostrada su palafitte. Il pianterreno e il suolo erano riservati ai pedoni e ai giardini. [...] Le Città Alte non subivano il fastidio della canicola: i muri di facciata erano di vetro, ma all’interno la temperatura era regolabile a piacere» (Berjavel 2008, pp. 23 e 28). L’innovativa e spettacolare architettura in vetro e acciaio di “Le Cornemusier”, tra l’altro, è foriera di una singolare e inquietante innovazione sociale; in realtà, un’usanza di sapore arcaico: «Il progresso e la tecnica avevano permesso di eliminare la necessità di sotterrare i morti. Ogni appartamento appena appena confortevole aveva [...] un reparto che veniva chiamato “conservatorio”. Era contornato da doppie pareti di vetro, nelle quali era stato fatto il vuoto assoluto d’aria. La temperatura vi era mantenuta a trenta gradi sotto zero. Lì le famiglie conservavano i propri morti, rivestiti dei loro abiti preferiti, in piedi o seduti, negli atteggiamenti che gli erano stati familiari. [...] In generale la stanza del conservatorio era in posizione centrale, negli appartamenti, di modo che ciascuno dei suoi muri trasparenti formasse la parete di una stanza contigua e diversa. Gli invitati salutavano i morti passando, e sovente uno dei muri trasparenti dava sulla stanza da pranzo, di modo che i morti sembravano partecipare alla riunione. Quella silenziosa presenza dava alla gente e alla casa un tono più alto dei costumi» (Berjavel 2008, pp. 30-31).
Una sinistra usanza che riporta il lettore nella dimensione nostalgica del “mondo perduto” dell’antichità classica: i «conservatori» di Barjavel, infatti, sono una parodia modernista degli armadi negli atri delle domus romane, che custodivano le maschere mortuarie degli antenati. Il mondo antico e rurale, infatti, è la vera utopia reazionaria dello scrittore francese, il quale, esattamente come Le Corbusier, è ben cosciente della sua perdita.
Il paradiso artificiale della Città Radiosa, inevitabilmente, diventa un inferno e collassa su stesso per un’improvvisa e inspiegabile fine dell’energia elettrica che, misteriosamente, non si forma più. Si blocca ogni cosa creata dalla moderna tecnologia: le macchine, i trasporti, le industrie, l’acqua potabile, le comunicazioni, l’aria condizionata, i servizi e gli ascensori delle torri, dove milioni di persone muoiono intrappolate senza cibo e acqua; i «conservatori» si surriscaldano e le salme degli antenati si decompongono oscenamente, inquinando aria e acqua e innescando pestilenze ed epidemie di ogni tipo: «Il puzzo terribile della morte sostituì nella capitale il caldo afrore della vita» (Berjavel 2008, p. 94). Tra aeroplani che cadono come mosche, sommosse popolari, saccheggi ed esplosioni, la Città Radiosa si consuma in un enorme rogo e i sopravvissuti cercano di ricostruire da zero una sana, reazionaria e un po’ fascista società rurale nel Sud della Francia.
Lasciando definitivamente la Grande Città, il messianico protagonista della storia le volge un ultimo sguardo, gravido delle visioni apocalittiche dell’autore: «Ho guardato da lontano Parigi. L’abbiamo lasciata appena in tempo: sta bruciando completamente, non solo la città bassa, le quattro città alte, ma anche le città satelliti. Torrenti di fuoco avanzano lungo le autostrade, probabilmente alimentate dalle auto ferme dovunque. [...] Un diluvio di fuoco... Il mondo ne verrà distrutto» (Berjavel 2008, p. 113).

La parodistica versione della Ville Radieuse di René Barjavel, a ben vedere, mostra la potenza dell’immaginario urbano degli architetti del Movimento Moderno, la “politicità” intrinseca delle loro proposte che, indicando un futuro diverso, utopico ma contemporaneamente concreto, diventavano agli occhi dei loro oppositori delle insopportabili distopie da combattere in ogni modo. Un’efficiente e raffinata maniera di denigrare la metropoli si espresse anche attraverso la letteratura per l’infanzia: è il caso della bellissima favola anti-urbana disegnata dal fumettista Carl Barks in Lost in the Andes (Barks 1949), in cui da americano pragmatico mise alla berlina sia la visione nostalgica del “mondo perduto” che le idee progressiste del Movimento Moderno. In questa storia, in particolare, vennero derisi Ludwig Mies van der Rohe e i suoi seguaci dell’International Style, autori di molti progetti urbani basati su ossessive e astratte griglie modulari quadrate. Un modello di città e di architettura tecnicista che negli Stati Uniti è stata realizzata nei capolavori del Campus dell’Illinois Institute of Technology (1941) di Chicago e del Seagram Building (1958) di New York.
Il racconto inizia con Paperino che, pulendo una teca in un museo, scopre strane uova quadrate provenienti da una misteriosa città incaica del Perù, dove tutto è quadrato o cubico: le architetture, i pavimenti, i tavoli, i piatti, le galline e persino le teste e i nasi degli abitanti, i Testaquadra, strani omini che mangiano esclusivamente le famigerate uova quadrate e canticchiano ossessivamente jingles pubblicitari americani. Il Papero e Qui, Quo e Qua partono così per il Sudamerica alla ricerca delle galline che producono queste uova, perfette da imballare e stoccare. Sulle Ande, dopo varie e surreali avventure, riscoprono il mondo perduto quadriforme, disegnato esattamente come un progetto di Mies van der Rohe. Qui però i nipotini, giocando, compiono un empio gesto di “tondeggiamento” con il chewing-gum: palloncini rotondi. I piccoli paperi, così, vengono condannati a morte, ma si salvano miracolosamente facendo fare, al loro posto, palloncini cubici alle galline-quadre. L’allegra brigata, infine, torna rocambolescamente alla civiltà con una coppia di questi strani pennuti, non senza il tipico finale disastroso delle storie di Paperino: gli uccelli riportati sono dello stesso sesso e quindi non si possono sfruttare per una remunerativa produzione industriale.
Nell’immaginario Disney, del resto, la metropoli moderna non ha mai goduto di buona fama: i personaggi positivi del mondo di Topolino e di Paperino non vivono in città ma nei tipici sobborghi americani, composti di casette in balloon frame con ridenti giardinetti che le isolano dalla strada. In città abitano i cattivi, come Gambadilegno, Macchia Nera o la Banda Bassotti, oppure gli spietati capitalisti, come Zio Paperone o Rockerduck, che risiede addirittura in un grattacielo. Questa percezione distopica riguarda infatti anche l’architettura moderna, vista come qualcosa di stravagante e poco adatto alla sana vita di Topolinia e Paperopoli.
Un’architettura avanguardista, quasi futurista, per esempio, appare all’interno della storia Mickey Mouse on Sky Island (Gottfredson, Osborne 1936). Non è in città, però, ma nell’isola volante del Doctor Einmug, ossia incardinata all’interno di quella ghettizzazione estetica della straordinarietà ben definita da Fabrizio Toppetti: «L’architettura, quella ritenuta importante, sfugge alla dimensione del vivere quotidiano, subisce nella percezione collettiva una forma di isolamento che la mette in cornice» (Toppetti 2018, p. 110).
L’illustrazione migliore di questo «effetto cornice», tuttavia, è quella che appare nella storia The Monarch of Medioka (Gottfredson, De Maris, Osborne 1937), dove Pippo, dopo un’inaspettata fortuna, si costruisce una villa in perfetto stile modernista californiano. L’abitazione, però, ha misteriose tende che corrono intorno al piano terra, così spiegate da Pippo: «Sapevo bene che, essendo milionario, dovevo avere una casa adeguata alla mia posizione! Ma volevo anche le comodità! Perciò ho ordinato all’architetto di applicare quelle cortine! Basta premere questo bottone, e ...». Improvvisamente, la tenda scorre attorno alle facciate mostrando la vecchia e cara catapecchia di Pippo, nascosta al pian terreno. «La tua vecchia casa!» - esclama uno stupito Topolino - «Già! Non potevo separarmene. S’adatta di più alla mia personalità!» - risponde lo straordinario cane antropomorfo.
Un altro esempio illuminante dell’indottrinamento delle nuove generazioni all’anti-urbanismo è contenuta nella storia a fumetti La maison de Barbapapa di Annette Tison e Talus Taylor, dove la famiglia di "blob" polimorfi si trova coinvolta nella dura lotta contro la cattiva architettura: la loro deliziosa casetta di provincia, vagamente Art Nouveau, diviene preda della speculazione e viene abbattuta per costruire un “palazzone”. «Ma gli appartamenti moderni non sono adatti per i Barbapapà» (Tisom, Taylor 1972, p. 15) e i componenti dell’allegra brigata periforme se ne vanno lontano dal paesaggio degradato della città, pieno di ciminiere affumicanti e fiumi inquinati, verso il paradiso della campagna, dove si costruiscono una “barba-casa” letteralmente «a modo loro» (Tisom, Taylor 1972, p. 18). Realizzano una serie di stanze a cupola ricoprendo di “barba-plastica” un Barbapapà dilatato: quando la plastica tira, Barbapapà si sgonfia, esce e la stanze sono pronte.
In questa storia, curiosamente, la classica visione negativa della città moderna è incrociata con le ricerche anti-urbane della generazione degli architetti degli anni Sessanta e Settanta, come gli esponenti del Team X, i “sognatori” High-tech Archigram o Paolo Soleri, fondatore delle città utopiche di Cosanti e Arcosanti, isolate nel deserto dell’Arizona. L’autocostruzione della casa attraverso colate di materiale liquido e le forme seriali a cupola, infatti, rimandano a questo contesto culturale, molto legato all’ambiente Hippy americano, inglese e francese, mentre la “barba-plastica” riecheggia le ricerche innovative e quasi fantascientifiche sui nuovi materiali industriali da costruzione, iniziate da R. Buckminster Fuller e dal francese Jean Prouvé. Nel racconto di Barbapapà, insomma, si inizia a vedere quel cortocircuito tra utopie e distopie che nella postmodernità finì per distruggere l’immaginario visionario degli architetti.


3. Le distopie del Postmoderno come utopie del Contemporaneo

Centro Commerciale La Romanina, Roma 2017

Centro Commerciale La Romanina, Roma 2017, © A. Lanzetta


Il potere delle visioni degli architetti di generare narrazioni e parodie di sapore distopico sembra ormai perso: le generazioni successive al Movimento Moderno non hanno proposto idee di città concretamente utopiche, ossia realmente abitabili. Gli esponenti del cosiddetto Postmoderno, infatti, non sono mai riusciti ad assumere il prolifico ruolo di incubatori di futuri negativi o addirittura catastrofici. Le ardite proposte del movimento Radical della fine degli anni Sessanta, per esempio, erano visioni di terza specie, generate da un doppio salto mortale: più che presentare un paesaggio idealizzato ma comunque plausibile, sembravano ripercorrere le coeve narrazioni della fantascienza, che, a loro volta, erano parzialmente figlie dei progetti degli architetti degli anni Trenta. Il cinema e la letteratura degli anni Cinquanta e Sessanta, infatti, si erano nutriti delle idee rivoluzionarie del Movimento Moderno, traghettandole molto più in là: nello spazio, sulla Luna, su Marte e ancora più lontano, nelle profondità delle galassie, come in 2001 Odissea nello Spazio (1968) di Stanley Kubrick o nei romanzi di Isaac Asimov, che ripropongono calchi più o meno deformati dell’immaginario modernista.
I Radical, rifiutando di confrontarsi nello spazio metropolitano concreto e spostando i loro progetti fuori dall’ambiente antropico e dal mondo abitato, produssero inconsciamente un immaginario cinico dei fatti urbani. Le loro proposte architettoniche di un futuro “divergente”, infatti, erano icone rivelatrici di una realtà in formazione, come le installazioni artistiche della New Babylon (1956-1974) di Constant o i racconti già citati di Ballard e degli altri autori: raffinate istantanee di un presente imposto dalle violente e concrete visioni dell’economia di mercato, utopiche per una ristretta cerchia di azionisti e distopiche per le masse di abitanti delle nuove megalopoli, trasformati in meri consumatori.
Tra le numerose esperienze Radical è importante ricordare il Monumento Continuo (1969) del gruppo italiano Superstudio: una fantastica Superarchitettura, seriale, omogenea e modulare che attraversava indifferentemente paesaggi antropici e naturali; un vero e proprio «modello architettonico per l’urbanizzazione totale» che, in realtà, deformava le precedenti visioni del Movimento Moderno, come la griglia modulare di Mies van der Rohe o la megastruttura del Plan Obus (1931) di Le Corbusier per Algeri. A differenza dei suoi antenati, però, il Monumento Continuo risultava una proposta priva di vita urbana e quindi di per sé totalmente distopica e sterile. Troppo simile alle tante immagini antagoniste alla modernità, prodotte dalla letteratura, dal cinema e dal fumetto, per poter produrre una vera contestazione, che del resto gli stessi autori inconsciamente disincentivarono: «La superarchitettura è l'architettura della superproduzione, del superconsumo, della superinduzione al consumo, del supermarket, del superman e della benzina super» (Superarchitettura 1967).
A conferma di ciò, molti anni dopo il Monumento Continuo fu usato come scenografia del video musicale Everyday (2005), opera del gruppo tecno-dance Planet Funk. Nella clip, un vecchio astronauta precipitato dallo spazio si aggira confuso e spaesato in un mondo astratto, formato dal grande superedificio e da sconfinate favelas che attraversa indifferente perdendosi nel paesaggio. Non c’è contestazione. Non c’è critica. C’è solo un senso di nostalgia per qualcosa di poco chiaro.
Come intuì già Rem Koolhaas, che plagiò platealmente Superstudio nel cinico progetto Exodus or the Volontary Prisoner of the Architecture (1972), le visioni Radical applicate alla città reale erano un calco perfetto della civiltà dell’iperconsumo: dai primi anni Settanta l’estetica globalista neoliberista stava costruendo ovunque sia la superarchitettura concreta delle cattedrali contemporanee dei centri commerciali, tutti uguali e indistinguibili a qualsiasi latitudine, sia gli accattivanti mega-edifici culturali disegnati dalle Archistar, tutti apparentemente diversi ma, in fondo, terribilmente analoghi. Lo stesso Rem Koolhaas, con la teoria della Città generica (1995), chiarì definitivamente che la spietata visione urbana del liberismo era ormai la vera utopia dell’architettura contemporanea, realizzabile a buon mercato: «La grande originalità della città generica sta semplicemente nell’abbandonare ciò che non funziona (ciò che è sopravvissuto all’uso) spezzando l’asfalto dell’idealismo con il martello pneumatico del realismo, e nell’accettare qualunque cosa cresca al suo posto» (Koolhaas 1995, p. 37).



Bibliografia

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