Precarietà
Qualche anno fa, alla Biennale di Venezia 2008, mi sono imbattuta in un quadro specchiante di Pistoletto. Lo specchio però era infranto da un colpo di martello e a terra giacevano in un mucchio sparso tanti frammenti: mi sembra una buona metafora dello stato di precarietà. Se non altro perché lo specchio è luogo simbolico del riconoscimento, oltre a restituire l’immagine della propria identità.
Le «passioni tristi»
Le volte in cui ricordo di essere precaria sono le volte in cui provo rabbia, un forte senso di impotenza, di spaesamento. La cosa che mi colpisce di più di questa rabbia è che essa mi scollega dal resto degli uomini, mi oppone ad essi, mi individua in un «esser-con-tro».
La rabbia è una forma singolare di essere in rapporto, perché è il desiderio di relazione e la sua impossibilitazione. È una forma di sdoppiamento individuale e di scollamento sociale.
Se penso a questa forma di scollamento, mi rendo conto che essa riguarda il non sentirmi parte di una narrazione comune e il non poterne far parte. È vero che ci sono altri precari, ma non c’è nessuna solidarietà di classe o di categoria che invece potrebbe/dovrebbe legarci.
Probabilmente ci sarebbe bisogno di condividere luoghi comuni e tempi comuni per esser accomunati in una narrazione.
La mia esperienza lavorativa, invece, mi ha portato dall’Amiata a Follonica, da Città della Pieve a Deruta, da Perugia a Todi, da Gualdo Tadino a Foligno cambiando città, paesaggi, casa, vicini di casa, conoscenti, amici, abitudini, scuola, studenti, colleghi; accumulando esperienze disparate, belle e brutte, senza un filo conduttore che non fosse il lavorare per poter continuare a lavorare. Se ci penso sono stati tutti dialoghi interrotti.
E la sensazione è quella di essere un frammento in una moltitudine. Ogni esperienza nella precarietà è a sé. Tra precari non ci si incontra che per brevi stagioni e per questo le esperienze non sono mai accomunabili e, soprattutto, condivisibili.
Moltitudine
La precarietà non unisce, ma divide proprio perché scorpora da luoghi e tempi (routinari), gli unici dov’è possibile narrare la propria storia e solidarizzare.
Tra i docenti delle scuole c’è una composizione tale per cui ci sono quelli di ruolo, quelli a tempo determinato (tra questi i più fortunati, con le supplenze fino al 31 agosto, poi al 30 giugno), e poi i supplenti, quelli che entrano in classe per 15 giorni, due mesi, o tre, o sei. In questo panorama, e a partire da queste premesse, il precario occupa nella società scolastica un ruolo giuridico completamente diverso da chi è assunto a tempo indeterminato. C’è un sistema di graduatorie – di prima di seconda di terza fascia ministeriali, di prima di seconda di terza fascia di Istituto, e poi un’altra unica graduatoria per quelli di ruolo che dovrebbe regolare i trasferimenti ecc. ... – che crea una vera e propria gerarchia in relazione a tutele e diritti. Il paesaggio è quello di una moltitudine senza unità che solidarizza su base simpatica ed episodica. È pure vero che esiste un gruppo di precari della scuola, l’Associazione Viva la Scuola Pubblica, sganciata da ogni sigla sindacale, promotrice di manifestazioni, proteste, sit in. Ma essa, piuttosto che un’unità, rappresenta una rete di scuole che avvertono l’esigenza di frenare la frammentazione in moltitudine già in atto.
Le azioni del governo, così, toccano ciascuno in modo differente. E questo proprio perché è venuto a mancare un orizzonte di senso comune, nonostante si operi o si dovrebbe operare nello stesso orizzonte di senso.
La mancanza di una «salda unità sostanziale» in virtù della quale l’individuo sentirebbe di avere voce, di avere un’incisività sociale, di essere collegato col tutto, emerge da questa mancanza di un fronte comune di lotta.
Riflettevo con rammarico sulla serie di proteste in ambito scolastico, dalle meno alle più recenti. I primi tagli al MIUR varati dal ministero Gelmini non hanno implicato alcuna compattezza tra i docenti, divisi tra «di ruolo» e «precari». Questo semplicemente perché quei tagli, nonostante colpissero la Scuola, ledendo la professionalità di ogni singolo docente e il senso di una intera progettualità sociale, non colpivano, o almeno così sembrava, quanti avessero un contratto a tempo indeterminato.
A mano a mano però che la crisi si è aggravata, essa ha cominciato a coinvolgere un po’ tutti, ampliando il fronte di chi protestava, senza per altro compattarlo. Di recente, infatti, alle due categorie classiche «precari/di ruolo», si sono aggiunti i «perdenti posto». I perdenti posto sono coloro che, in fondo alla graduatoria dei docenti di ruolo, rischiano di perdere il loro posto fisso in un istituto, di esser messi in mobilità, costretti a completare l’orario di lavoro in più sedi fino a perderlo anche. Negli ultimi Collegi Docenti sono emerse proprio le ansie di questi ultimi, per cui, nonostante fossero proprio loro i primi ad avere tutti i motivi per protestare contro la spending review, si trovavano nella paradossale situazione di non poterlo fare.
Le proteste della Scuola consistono, infatti, nel blocco di tutta una serie di attività che altrimenti arricchiscono l’offerta formativa dell’Istituto, catturando più iscritti. Queste attività variano dalle gite – uscite didattiche, stage linguistici all’estero, scambi – ai progetti con enti del territorio e non, a funzioni strumentali di coordinamento per migliorare l’organizzazione e l’efficienza scolastica, all’adozione dei libri di testo, fino al blocco degli scrutini. Secondo l’equazione più iscritti = più classi = più posti, questi colleghi hanno deciso di non protestare, bloccando l’intera iniziativa, per evitare che la protesta potesse aggravare la loro posizione.
Come dare loro torto?
Ma come narrare un unico racconto là dove all’unità di orizzonte si sostituisce la moltitudine delle voci?
È perso il legame che esiste col tutto.
Il riconoscimento
fuori-
Insegno oramai da 10 anni, e il mio contratto continua a scadere al termine delle attività didattiche nonostante mi sia stato rinnovato, fino ad ora, ogni settembre. Riguardo alla mia professione, è chiaro che ogni interruzione di contratto implica prima di tutto l’interruzione di relazioni affettive e cognitive, il cosiddetto dialogo educativo. Io sono costretta a ricominciare ogni anno daccapo senza avere la possibilità di continuare. Continuare significherebbe ripartire da punti già acquisiti, da un discorso già avviato su un riconoscimento reciproco il quale non funge solo affettivamente, ma anche cognitivamente. Il dialogo che si istaura con una classe o con un consiglio di classe o con un istituto nell’arco di un triennio è paragonabile alla costruzione di un edificio, la cui prosecuzione implicherebbe la realizzazione di una struttura dotata di una certa coerenza e solidità, solidità di cui il mondo di oggi, così liquido, e le giovani generazioni, forse, hanno bisogno.
La continuità didattica potrebbe essere fondamentale per la «narrazione dell’identità», di alcuni adolescenti di sicuro. Mi piacerebbe poterla paragonare alla Cura e, proprio in quanto va al di là dei confini della mia singola esistenza, verso la comunità di cui faccio parte, essa mi renderebbe partecipe alla istituzione di un bene pubblico, di una res pubblica presente e futura, in cui io stessa mi riconoscerei.
A pensarci, dunque, ciò che la precarietà corrode, insieme e in conseguenza alla frammentazione dell’esperienza (dell’insegnamento), è proprio un intero orizzonte di senso e la possibilità di una reciprocità del riconoscimento che sta a fondamento di ogni comunità. Ho perso la possibilità di una narrazione coerente e lineare, perché ho perso questo scambio tra il vedere l’incisività della mia azione sulla realtà che mi circonda nella comunità di cui faccio parte; e l’esser vista e riconosciuta da parte di questa comunità nella funzionalità dell’espletamento del mio lavoro.
Tutti i vincoli sono sciolti, e potrebbe non esserci motivazione alcuna a dar seguito responsabilmente alla propria azione. Ho la sensazione molto spesso che le mie siano performances, come quelle degli attori su un palcoscenico e che il mio lavoro sia principalmente una interazione linguistica. E non penso di drammatizzare, perché spesso immagino di esser costretta a lasciare tutto per ricominciare da qualche altra parte. In questi momenti mi chiedo se le idee, le virtù, i principi su cui fin’ora ho calibrato la mia esistenza, abbiano qualche valore o se debbo esser pronta a cambiarli.
dentro-
E penso allora al risvolto della precarietà che «genera [un] impatto sul carattere dei singoli individui». Per Sennett il carattere è il «valore etico attribuito ai nostri desideri e alle nostre relazioni con gli altri» (Sennett, 1999, p. 8). Dipende dai legami che abbiamo con il mondo, in quanto indica i tratti permanenti della nostra esperienza emotiva rispetto alla fedeltà e all’impegno reciproco, al tentativo di raggiungere obiettivi a lungo termine e rispetto alla pratica connessa di ritardare la soddisfazione in vista di uno scopo futuro (Ibidem).
È in questo modo che noi decidiamo di scegliere e rafforzare alcuni sentimenti rispetto ad altri, attribuendo valore a ciò che facciamo e, appunto, sforzandoci di essere riconosciuti da parte degli altri. Proporzionalmente alla mia esperienza, invece, posso dire che i brevi periodi in cui pur consiste il mio lavoro, la mancanza di linearità della progressione temporale, la paura che di anno in anno mi assale circa la possibilità o meno di vedere il mio contratto rinnovato, l’impossibilità di costruire qualcosa di solido, essendo il terreno piuttosto simile alle sabbie mobili che alla roccia o all’argilla; tutto ciò mette in crisi continua la validità delle mie scelte, la solidità di ciò in cui credo, il valore dei miei ideali, l’intelligenza dei miei desideri, la fedeltà ad un impegno su cui, tutto sommato, si incardina la mia vita.
Mi dibatto cioè tra il ritrovare negli eventi una vecchia logica e ricostruirla, o il reinventarne una nuova.
-Through the Looking-Glass
Se mi guardo indietro, se guardo ai miei ultimi 10 anni, sono sempre allo stesso punto.
Naturalmente la prima cosa da fare era di passare bene in rassegna il paese attraverso il quale avrebbe viaggiato. «È un po’ come imparare la geografia […] Fiumi principali – non ce n’è nessuno. Montagne principali […] Città principali […]». «Biglietti prego!» gridò il Controllore affacciandosi al finestrino […] «Ehi tu! Ragazzina, sbrigati! Tira fuori il biglietto!» […] «Ma io non ho il biglietto» rispose Alice con voce spaventata, «vengo da un posto dove non c’era biglietteria». E un coro di voci dissero tutte insieme «Non c’era posto per la biglietteria da dove viene lei. La terra, là, vale un miliardo di euro al millimetro!»
«Poche storie» disse il Controllore: «potevi comprarne uno dal macchinista». E di nuovo il coro attaccò con «Il macchinista che fa andare il treno. Solo il fumo vale un miliardo di euro allo sbuffo!»
Alice pensò fra sé «ma qui è proprio inutile parlare». Le voci non si unirono in coro questa volta dal momento che lei non aveva parlato, ma con sua grande sorpresa, pensarono tutti in coro (mi auguro che voi sappiate cosa significa pensare in coro perché devo confessarvi che io non lo so). Durante tutto questo tempo il Controllore non aveva smesso di fissarla, prima attraverso un telescopio, poi attraverso un microscopio, poi attraverso un binocolo da teatro. Infine disse: «Stai viaggiando nella direzione sbagliata» e chiuso il finestrino se ne andò.
«Un ragazzina così giovane» disse il signore che era seduto di fronte a lei (portava un vestito di carta bianca), «dovrebbe sapere in quale direzione andare, anche se non sapesse nemmeno il proprio nome!» (Carroll, 1993, pp. 177-178).
In Through the Looking-Glass vale questa regola al contrario: per restare fermi in qualche posto bisogno correre a perdifiato, e per andare in qualche posto e necessario stare fermi. Io ho camminato tanto per stare sempre allo stesso posto.
Il non-sense in Attraverso lo specchio non è sporadico, è assurto oramai a regola e a struttura di una nuova razionalità proprio perché è inserito nell’ordine autorevole di una partita a scacchi, e si presenta attraverso un rigoroso rovesciamento.
Sintomatico di ciò è che la prima cosa che Alice trova nel mondo dello Specchio è il Jabberwocky. Una poesia costruita con parole così lontane da un significato da sembrare significanti puri, ma allo stesso tempo «tenute insieme da una struttura elementare e solida» (Carroll 1993, p. xxv). Compare nel mondo dello specchio come un testo che aspetta di essere decodificato, un documento al quale vanno connessi tutti gli eventi successivi e che stabilisce un dubbio «definitivo e radicale» sulla legittimità del senso che può avere una parola e sulla leggibilità o meno della realtà. Questo è paragonabile allo spaesamento rispetto alla difficoltà dei miei codici di decifrare il mondo e alla difficoltà di utilizzare il mio linguaggio per arrivare ad esso.
È un posto un po’ orribile quello che Carroll descrive in Attraverso lo specchio. Alice qui è come se avesse perso la reattività e l’immediatezza che aveva nel Wonderland. Ha tutte le possibilità per essere una Regina rossa, «gli aspetti aggressivi e impositivi del suo carattere sono perfettamente fissati», potrebbe essere «la governante che sa dirigere ed amministrare» la propria vita, «fare programmi e portarli a termine», «ma lo scacco che le dà il Mondo dello Specchio è di quelli che vanno al fondo di una struttura per scardinarla» (Carroll 1993, p.xxvii): è «quel senso di predestinazione» contenuto «nell’immagine del gioco a scacchi» nel quale qualcuno «dirige il movimento dei vari pezzi» (Carroll 1993, p. xxvi), sussurrando continuamente ad Alice l’interrogativo se si è o meno auto-diretti.
Alice piange lacrime amare al solo pensiero di essere qualcosa su cui ha potere un qualcos’altro d’arcano, perché in questi termini essa perderebbe la sua identità precipitando nel «terrore di non appartenere a se stessa» (Carroll 1993, p. xxvi) e di essere, senza saperlo, legata alla struttura (psichica, il sogno del Re) di qualcun altro.
Dalla coppia paura/riparo alla coppia paura/coraggio
Ma tra le passioni tristi che si accompagnano in questi giorni precari, ce ne sono anche di felici. Esse nascono come reazione all’autocompassione, al risentimento di chi si sente escluso, e al vago rimpianto.
Se il mondo non è più solido, né quello di fuori né quello di dentro, ciò a cui non cedo è la coppia paura/riparo, ad essa preferisco il coraggio, l’amicizia, l’amore, la cooperazione. Mi rifiuto di continuare a cercare di misurare le mie scelte e la loro bontà sugli standard di successo di un mondo che pretende di essere solido e che produce macerie. In alcuni momenti sento tutta la solitudine di chi deve ripensare valori nuovi e riscoprirne di antichi; di chi sa che ogni crisi - e la precarietà è uno stato permanente di crisi – pone un discrimine tra ciò che è necessario e ciò che è secondario, tra ciò che si deve lasciare e ciò che si deve tenere. Ponendo la nuda vita di fronte alla sua costitutiva incertezza, essa disvela in pari tempo un’opportunità per chi sappia darle forma nuova.
Se penso al superfluo, allo spreco, al consumo indiscriminato, alla brama di possesso dell’«individuo proprietario», all’attitudine consumistica applicata ad ogni ambito, da quello relazionale a quello, per così dire, del consumo del tempo, ebbene mi vengono in mente tutta una serie di contro-valori con cui vorrei poter iniziare a ripensare lo stato di precarietà come potenzialità pura, come atto di invenzione e di immaginazione continua, per vivere con gioia, piuttosto che paura, e allontanare ogni risentimento e malinconia. La necessità del riciclo, l’importanza della misura e della moderazione, il coltivare beni relazionali, il trovare la sicurezza e il riparo negli affetti e in quella rete di relazioni che ripristinano l’essere-con che la rabbia invece pietrificava. Il rendersi partecipe di un rinnovamento che parte dalle piccole cose, dalla comunità di quartiere, per esempio, che richiede di essere ritessuta per restituire alla città quella dimensione vitale, e frugale, che è alla base del benessere. Tutto questo irraggia il suo enorme valore sulla vita e pone le basi per una nuova narrazione. Anche se non si può tornare indietro, nel mondo solido di qualche decennio fa, si può desiderare di cominciare a rendere solido ciò che ora è liquido.
Bibliografia
Carroll L. (1993), Alice nel Paese delle Meraviglie. Attraverso lo specchio, Garzanti, Milano.
Galimberti U. (2006), I nuovi vizi capitali, Feltrinelli, Milano.
Latouche S. (2011), Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino.
Sennett R. (1999), L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano.
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