In un famoso discorso durante la campagna per le primarie del Partito Democratico del 1968, Robert Kennedy ricordava che il nostro reddito «non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio». Forse non il coraggio presente, ma certamente misura il coraggio che abbiamo avuto in passato. Guardando all’oggi, alla condizione italiana, la profonda preoccupazione è che il nostro livello di benessere domani rifletta lo scarso coraggio di oggi.
L'accusa di inadeguatezza che viene rivolta con instancabile periodicità verso la classe dirigente e la politica italiana, per quanto condivisibile, non risolve certo né il dibattito pubblico né i problemi italiani. Se le scelte politiche che parte della nostra classe dirigente si trova di fronte sono spesso chiare, non lo sono altrettanto le scelte che intendiamo fare come paese. Il nostro compito dovrebbe allora divenire quello di identificare il modello di paese che vogliamo essere e, di conseguenza, il ruolo che potremo assumere in Europa e nel mondo.
Tra i molti aspetti che determinano il modello di paese verso cui vogliamo tendere, vorrei concentrarmi su quelli economici. Faccio questa scelta non perché questi siano gli unici che importano ma perché, in questo momento, le scelte economiche che compiamo saranno la base del nostro futuro e definiranno quello che avremo da offrire a noi e al resto del mondo. Quasi nessuna tra le generazioni che si sono avvicendate nel dopoguerra in Italia si è trovata di fronte ad un momento da cui dipende il futuro del paese come l’attuale.
Non siamo infatti solo un paese bacato da problemi profondi e strutturali, il paese il cui prodotto interno lordo è cresciuto di meno tra tutte le economie sviluppate nel periodo 2001-2007. Siamo un paese dai profondi problemi strutturali che in più attraversa la più grave crisi economica globale dal secondo dopoguerra. L’Italia è un paese in crisi da prima della crisi e mai come ora aspettare significa scegliere. Ci sono in particolare alcune scelte economiche che non sono procrastinabili. Anche se in apparenza riguardano semplicemente il lavoro, il sistema produttivo o i mercati finanziari, in realtà interessano e determinano il futuro della nostra struttura sociale e culturale o, in breve, il livello di benessere futuro che non dovremmo mai dare per scontato. Analizzare la struttura del mercato del lavoro di un paese, unitamente alla sua situazione economica, retributiva e fiscale, significa quindi analizzarne il modello sociale sottostante, i valori che lo pervadono. Significa prevedere la sostenibilità di tale modello nel presente e nel futuro, vale a dire comprendere quale sarà il futuro del paese stesso. Questo sarà il tentativo sottostante questo articolo.
Da un punto di vista storico, non è tanto sorprendente che queste domande stiano di fronte agli attuali ventenni e trentenni. Questa è la Generazione Erasmus, la prima a sperimentare nella propria vita un’esperienza concreta di integrazione europea. Questa generazione si trova infatti allo spartiacque tra il modello economico, sociale e culturale che ha retto il nostro paese fino ad ora e l’urgenza di inventarne uno nuovo, in grado di rispondere alle mutate esigenze interne e alla pressione internazionale, pena l’abbandono di quel livello di benessere che diamo per scontato, non come generazione ma come Paese.
Occorre dunque, innanzitutto, esplicitare i modelli trasmessi a questa generazione per esporre le aspettative diffuse a livello sociale. Questo ci permetterà di capire come e perché esse siano state disattese e quali siano le soluzioni di politica economica praticabili, per salvare non solo i giovani di oggi ma il Paese di domani dalla povertà ‒ materiale e culturale ‒ che cominciamo a intravedere in lontananza. In particolare, intendo discutere tre ambiti della nostra economia che necessitano urgente cambiamento: l’accesso al mercato del lavoro e la relazione col sistema pensionistico e, infine, la struttura del sistema fiscale.
Il mercato del lavoro e il mito dell'anzianità
Partiamo dunque dal modello economico prevalente nel mercato del lavoro che abbiamo ereditato dalle generazioni più vecchie, talmente pervasivo da avere generato aspettative alquanto fuorvianti nelle giovani generazioni. La nostra generazione, la Generazione Erasmus, è cresciuta inseguendo il mito dell’anzianità. In Italia, infatti, nella struttura sociale così come nel mercato del lavoro, l’anzianità è sempre stata presentata come la caratteristica più importante, la virtù centrale e definitoria.
Ai giovani di questo paese veniva chiesto, una volta completati gli studi, di entrare nel mercato del lavoro senza pretendere buoni redditi o di occupare posti di rilievo. La ragione era accettabile, perfino ovvia, nel sentire collettivo: i giovani erano necessariamente privi di quell'esperienza degna di essere ben retribuita. In un paese che non deve cambiare velocemente, è proprio l’esperienza con l'esistente che diviene centrale. Il tempo avrebbe curato questo peccato generazionale. Il semplice passare degli anni avrebbe assicurato, passata l’opportuna gavetta, l'acquisizione della famigerata anzianità, quella che avrebbe garantito ai non-più-giovani quel posto di qualcuno che, dopo una carriera in continua ascesa salariale, si sarebbe finalmente ritirato per godersi una buona pensione e investire la sostanziosa liquidazione per acquistare casa, allargarla o togliersi quelli sfizi che aveva così a lungo ritardato. Tutto era sostenibile, perché l’attesa a cui ciascuno era sottoposto, l’avrebbe poi tutelato una volta raggiunta la tanto sospirata posizione. Inoltre, era poi facile aspettare in una economia dinamica e in crescita, come quella italiana del dopoguerra. Il bello di un paese che cresce è che le cose migliorano anche quando rimane fermo.
Questo equilibrio sociale ha reso il mito dell'anzianità così radicato nella società italiana, da aver sviluppato una propria retorica: la retorica della pazienza. Ai giovani si chiede anche oggi semplicemente di attendere il proprio turno. Non è naturalmente sorprendente che questo crei incentivi sbagliati: il lavoratore non doveva impegnarsi per esprimere il proprio potenziale e sviluppare la propria creatività ma semplicemente aspettare, attendere che passasse tempo sufficiente per far valere i propri meriti. Tale meccanismo era forse ‒ sottolineo forse ‒ comprensibile in un paese che non aveva troppa esigenza di divenire diverso da se stesso e in un contesto nazionale ed internazionale fondamentalmente stabile. Quel sistema, quel paese aveva bisogno di lavoratori che l’avessero soprattutto visto e vissuto, competenti riguardo i propri consolidati processi e meccanismi.
Non sorprende quindi che la stessa struttura retributiva dei lavoratori del settore privato e non solamente ‒ come è più lecito aspettarsi ‒ del settore pubblico, ricalchi oggi questa impostazione, premiando l'anzianità su tutto il resto. L’anzianità contava e conta molto più della capacità o della produttività e quindi l’Italia si trova, unica tra le principali economie europee, ad avere remunerazioni nel settore privato che crescono quasi solo con l'anzianità, con scarso riferimento alla produttività del lavoratore. Durante la lezione di apertura dell'incontro annuale della Società Italiana Economisti nel 2007, il Governatore Mario Draghi presentò a questo riguardo i dati europei provenienti da una indagine riconosciuta (la Labour Force Survey) che mostravano questa peculiarità italiana. La risposta nel dibattito pubblico italiano fu un assordante silenzio.
Questo dunque era il patto sociale implicito che la Generazione Erasmus ha ereditato, nel quale i trentenni di oggi sono cresciuti. L’avvento della integrazione europea prima e della famigerata globalizzazione dopo ha reso questo patto quasi grottesco. Quando questa generazione ha cominciato ad andare in Erasmus, (perché, a differenza della generazione precedente, gli si chiedeva di studiare all’estero, di imparare lingue straniere, di sperimentare modelli alternativi di società e di produttività), questa generazione ha scoperto che un altro mondo è possibile. Anzi che altri mondi sono possibili. La vera ironia di questo meccanismo è stata poi di costringere questa generazione a tenere per sé quanto appreso, senza poterlo mettere a disposizione del sistema-paese, poiché l'unico criterio di ingresso al mondo del lavoro continuava ad essere l’attesa del pensionamento di chi precedeva, senza molti riguardi alla competenza. Questo era un fenomeno diffuso, pervasivo in tutti i settori, nel pubblico come nel privato.
Finché comunque ai giovani, prima o poi, veniva garantito l’accesso al posto fisso con crescita salariale solida e costante, tale modello ha retto. Ma poi è avvenuta la rottura del sistema: spesi gli ultimi denari in debito pubblico nei primi anni Novanta, abbiamo dovuto affrontare i nostri problemi. La crescita economica si è fermata e le premesse del passaggio di consegne generazionale sono venute meno. Abbiamo provato a continuare come se le cose non fossero radicalmente mutate, passando più di un decennio – dalla metà degli anni Novanta al 2007 – senza cambiare in profondità. Poi, l'arrivo della crisi economica internazionale che oggi viviamo ha messo a nudo senza possibilità di appello le debolezze del nostro mercato del lavoro, rendendo questo equilibrio non più sostenibile. Abbiamo reagito come forse era logico attendersi, obbligando chi si trova all’inizio della propria carriera lavorativa a pagare i costi economici e sociali di quasi tutta la flessibilità del sistema economico italiano. Ma non sempre quel che è logico funziona ed è utile. In questo caso pare proprio di no.
Lavorare non basta
Gli italiani sono così abituati alla crisi che fa quasi parte dell’identità del nostro paese. L’Italia è il paese in crisi quasi per eccellenza, ma la transizione critica che stiamo vivendo in questi anni non è figlia della crisi internazionale, è stata da essa solo aggravata. Già dal 2001 al 2007 il reddito medio italiano cresceva meno di tutte le altre economie sviluppate, anche di Grecia e Portogallo. In seguito, la straordinaria contrazione di redditi e occupati del 2009-2012 ha cambiato il nostro futuro, insieme al presente. Questo vale per tutti, ma in particolare per le generazioni che entrano nel mondo del lavoro in questi anni. Sappiamo infatti che il livello di crescita economica al momento dell’ingresso nel mercato del lavoro influenza i redditi per l’intera carriera del lavoratore. La situazione economica al momento dell’entrata nel mercato del lavoro ha quindi effetti molto persistenti nella vita futura del lavoratore.
Per questo motivo, la Generazione Erasmus allo stato attuale non può attendersi un miglioramento nell’arco della vita che sia anche lontanamente comparabile a quello esperito dai propri genitori. Non a caso, la Generazione Erasmus è nota soprattutto come la «generazione milleuro»: lavoratori spesso qualificati, che guadagnano poco più di 1000 euro al mese con progressioni salariali lentissime. In Italia il giovane lavoratore ha sempre cominciato la propria carriera con salari bassi, che poi però crescevano in fretta. Oggi non è più così e l’attuale modello di inizio di carriera lavorativa ha finito di essere sostenibile. La crisi economica ha esasperato i limiti strutturali di questo modello e reso evidente l’urgenza del cambiamento. Il futuro non sarà più quello di una volta, a meno di non ricominciare a cambiarlo.
La flessibilità del mercato del lavoro è necessaria per permettere questa trasformazione e non può essere cancellata. Questa è stata una scelta condotta a livello europeo, ancor prima che italiano. Infatti, se confrontiamo il numero di lavoratori con un contratto a termine scopriamo che fino al 2010 la loro percentuale era inferiore in Italia rispetto a Svezia, Francia, Germania e naturalmente Spagna. Questo è vero sia per la i giovani fino a 24 anni che per la popolazione in generale. La straordinarietà italiana è un’altra: si chiede flessibilità ad alcuni – si noti bene, non a tutti - e invece di offrire loro più sostegno se ne offre meno degli altri. Non possiamo più ignorare le straordinarie disparità tra lavoratori tipici ‒ assunti con contratti a tempo indeterminato ‒ e atipici – tutti gli altri. I lavoratori atipici – categoria quasi del tutto inesistente prima della Generazione Erasmus - non sono tutelati se perdono il lavoro e avranno pensioni a dir poco ridicole. Da questo punto di vista, l'Italia si trova in una situazione davvero peculiare, perfino la Spagna e gli Stati Uniti – da sempre considerati meno attenti agli aspetti di previdenza sociale - sono più attrezzati di noi a gestire la disoccupazione. I lavoratori italiani all’inizio della propria carriera lavorativa sopportano quasi tutta la flessibilità del sistema economico. Ricevono contratti di lavoro precari, guadagnano tra il 20 e il 30% in meno dei lavoratori a tempo indeterminato che svolgono mansioni analoghe, soffrono tassi di disoccupazione marcatamente al di sopra della media nazionale e la loro stragrande maggioranza non riceve sostegno quando diventa disoccupata. Infine, pur pagando gli stessi contributi sociali di chi li ha preceduti, questi lavoratori riceveranno tra 30-40 anni trattamenti pensionistici inferiori del 20-30% rispetto ai lavoratori che vanno oggi in pensione. Il tutto considerando la Riforma Fornero approvata a fine 2011.
Un altro aspetto da considerare è che la disoccupazione è aumentata molto durante la crisi passando da poco più del 5% ad oltre il 10% dei lavoratori. Il mercato del lavoro italiano non ha reagito meglio degli altri nonostante il paese cresca meno. Se si aggiungono le ore di cassa integrazione al numero dei disoccupati ‒ come sembra giusto fare perché il cassaintegrato si astiene del lavoro ‒ oggi la disoccupazione italiana è superiore al 10%, su livelli comparabili a quella americana. La crisi economica avrà i più gravi effetti sulla disoccupazione a partire dalla fine del 2012 e, probabilmente, il peggioramento si protrarrà fino a 2014 inoltrato. Questa crisi occupazionale non coinvolge solo i cassaintegrati, lavoratori occupati il cui posto è a rischio, ma soprattutto i disoccupati, vale a dire quei lavoratori che il posto l’hanno già perso. La disoccupazione si distribuisce infatti in maniera diseguale tra le generazioni: mentre il tasso di disoccupazione generale si è attestato a quasi l’11% nel 2012, quello per i lavoratori sotto i 24 anni è tre volte maggiore.
Quando si parla di flessibilità, bisognerebbe allora comprendere che la flessibilità di cui hanno bisogno le imprese è prima di tutto sulla forza lavoro, sull’orario, non sul salario. Per ricominciare a crescere, dobbiamo favorire chi ha il coraggio, ma soprattutto la necessità, di rischiare. Oggi l'Italia non è un paese equo perché le persone che rischiano di più non sono anche quelle maggiormente tutelate. Il più tragico fallimento economico nella vita di un individuo è la perdita del lavoro. In attesa di estendere il sussidio di disoccupazione a tutti quei lavoratori che, in prevalenza atipici, ancora non ne possono beneficiare, sarebbe importante che in tempo di crisi ci concentrassimo sull’aumento della disoccupazione e sulla sua distribuzione tra le generazioni, non solo della crescita delle ore di cassa integrazione. Questa prospettiva non è la soluzione a tutti i problemi del paese, ma forse può essere un inizio. Le crisi economiche dure come quella che stiamo vivendo costituiscono una minaccia per la nostra ricchezza, per il tenore di vita a cui siamo abituati. Ma sono anche un’opportunità per cambiare, per affrontare le nostre deficienze strutturali e sprigionare il potenziale di questo paese.
Il debito pubblico italiano è figlio degli anni ‘80. Alla fine degli anni ‘70, era inferiore al 60% del reddito nazionale. In soli dieci anni il debito arrivò al 100%: vale a dire spesa senza quasi alcun investimento. La Grecia ha subito il medesimo processo con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Occorrerebbe allora cambiare radicalmente prospettiva, smettere di guardare alla spesa pubblica come illusione di sviluppo, per concentrare invece l'azione politica sull'assicurazione contro i veri rischi dei cittadini di oggi: la disoccupazione, la salute e l'istruzione. Occorre una politica in grado di scrollarsi di dosso il fallimentare paternalismo pubblico che ha caratterizzato i decenni passati, troppo condiscendente verso progetti “di sviluppo” estemporanei e basati sul cemento, che sia in grado di concentrarsi invece sul rinnovamento della missione produttiva italiana. Le energie imprenditoriali di questo paese sono sempre state in grado di cambiare, lo farebbero anche adesso se la politica offrisse nuovi incentivi, invece dei soliti appalti.
Le pensioni per i giovani lavoratori
Una delle cose più sorprendenti del dibattito sul nostro futuro consiste nel come è stata affrontata la discussione sul nostro sistema pensionistico. Non sorprende tanto la mancanza di una riforma conclusiva, almeno fino alla Riforma Fornero di fine 2011, quanto il fatto che questa riforma non consideri la relazione tra la spesa pensionistica, il totale della nostra spesa e tra la pensione degli individui e il loro lavoro. Con la crisi economica è calato il nostro reddito nazionale ma non la spesa pensionistica. Questa anzi è aumentata di più del 4% nel solo 2009. Questo fatto ha destato particolare preoccupazione perché il nostro è il paese dell'Unione Europea con la maggiore spesa pensionistica in rapporto al reddito: oltre il 15,5% nel 2012.
La buona notizia è che, malgrado questa difficile situazione, i conti dell'Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS) sono sostenibili e non avranno bisogno di manovre correttive, come è stato enfatizzato dai vertici dell’Istituto e poi confermato da vari autorevoli esperti. Alcuni dei quali si sono addirittura sentiti legittimati nell’affermare che la riforma previdenziale italiana sia stata finalmente ultimata e che il nostro paese offra un modello in Europa.
Questo ottimismo è, almeno in parte, mal riposto perché sottovaluta l'importanza della realtà sottostante il dato aggregato: il nuovo sistema pensionistico ‒ frutto di una serie di interventi che vanno dalla Riforma Dini del 1995, alla legge sulle lavoratrici del pubblico impiego del 2009 ‒ lega strettamente le pensioni future agli stipendi dell’intera carriera del lavoratore. Nel vecchio sistema retributivo, che vale ancora solo per chi va in pensione in questi anni, sono gli ultimi stipendi della vita lavorativa a determinare l'ammontare della pensione. Così facendo, il sistema pensionistico opera implicitamente una forte redistribuzione di risorse dalle giovani alle vecchie generazioni.
Come già accennato in precedenza, ancora una volta la Generazione Erasmus è quella chiamata a sopportare la disparità del sistema. La redistribuzione di risorse tra le generazioni si aggiunge alle ragioni di riforma del nostro mercato del lavoro, del nostro stato sociale e di completamento del nostro sistema pensionistico. Non sembra possibile chiedere solo ad alcune generazioni di portare il peso del cambiamento strutturale dell’economia italiana, di accettare la flessibilità del mercato del lavoro, mentre si offrono loro pensioni insufficienti.
Com’è stato possibile affermare che, malgrado l’innalzamento della spesa con 25 anni di anticipo, non ci sia bisogno di una correzione legislativa? La sostenibilità futura dei conti previdenziali si regge su un aumento di fatto dell'età minima di pensionamento e su una marcata riduzione del livello delle pensioni che i lavoratori di oggi verranno a percepire dal 2030 in avanti - almeno 25% in meno rispetto a chi andava in pensione nel 2010, a parità di storia contributiva del lavoratore, secondo la Ragioneria Generale dello Stato. Un lavoratore che andava in pensione nel 2008 a 63 anni, dopo una carriera di 35 anni da dipendente privato, riceve in pensione poco meno del 70% dell'ultimo stipendio, contro il solo 50% che riceverebbe se andasse in pensione nel 2040. Naturalmente queste sono valutazioni in buona parte ottimistiche: tra le giovani generazioni è difficile oggi trovare qualcuno che, assunto con un contratto a tempo indeterminato a 28 anni, potrà vantare una carriera che permetta di arrivare a 63 anni con ben 35 anni di contributi. Se poi si volesse fare il confronto sulle pensioni dei lavoratori autonomi, la differenza sarebbe ancora più drammatica: si passerebbe da una pensione eguale al 68% dell'ultimo stipendio nel 2008 ad una che ne supera di poco il 30% nel 2040.
Alla radice di questa sproporzione nelle pensioni sta l’essenza della trasformazione del sistema pensionistico dal retributivo al contributivo. Per chi va in pensione in questi anni le pensioni dipendono praticamente solo dagli ultimi stipendi ricevuti, mentre per chi va in pensione tra 15-20 anni le pensioni dipenderanno sempre di più da tutti i redditi percepiti durante l’intera carriera lavorativa, inclusi i periodi con contratti atipici e precari e quelli di crisi economica come l’attuale.
Ma la differenza forse più importante, raramente enfatizzata, tra il vecchio sistema retributivo e il nuovo sistema contributivo è un’altra. Col sistema di calcolo contributivo, per le pensioni di domani contano molto i redditi percepiti all’inizio della carriera lavorativa. Su questi si pagano contributi sociali che vengono capitalizzati per decenni e che finiscono per influenzare non poco la pensione. Col retributivo, il loro effetto sul livello finale della pensione era fondamentalmente nullo. Questo aspetto, ad oggi trascurato nel dibattito, ha però effetti molto profondi.
Questo semplice cambiamento nelle regole pensionistiche, dal retributivo al contributivo, si è reso necessario per assicurare la sostenibilità della spesa previdenziale italiana ed è stato unanimemente salutato come una scelta fondamentale. Una scelta però che finisce per mettere in crisi il patto sociale, implicito ma pervasivo, alla base del nostro mercato del lavoro, che abbiamo illustrato in precedenza.
Come dicevamo, l'Italia è l’unico dei grandi paesi europei in cui le remunerazioni nel settore privato sono strettamente legate all’aumentare dell’età dei lavoratori. A sostegno di questo peculiare equilibrio del mercato del lavoro italiano c’era la convinzione da parte dei lavoratori di questo paese che, se avessero accettato remunerazioni basse all’inizio della propria carriera, sarebbero poi stati ricompensati attraverso remunerazioni sempre crescenti all’avanzare dell'anzianità e pensioni proporzionate solo all'ultima fase della propria vita lavorativa.
Esisteva quindi un patto sociale implicito in cui lavoratori giovani e produttivi accettavano di venire sottopagati in cambio della promessa di aumenti di reddito posticipati nel tempo e pensioni a questi proporzionati. Questo patto ha finito per promuovere un equilibrio in cui l’anzianità ha acquisito una centralità unica nel panorama internazionale. Le remunerazioni di questo paese premiano l’anzianità innanzi tutto, anche a scapito della competenza individuale. Come affermato in apertura, questa caratteristica strutturale della nostra economia, presente in passato come oggi, ha semplicemente smesso di essere accettabile nella situazione attuale: a causa della prolungata stagnazione economica del paese e della riduzione, dovuta al sistema contributivo, delle pensioni di chi oggi comincia a lavorare. Il sistema previdenziale non è un pezzo isolato dell'economia e, se si decide di cambiarlo, non si può evitare di guardare alla struttura del mercato del lavoro.
Alla Generazione Erasmus si è data l’illusione di un futuro comunque migliore insegnandole a guardare cosa succede a chi va in pensione oggi, per avere un'idea su cosa ci attenderà quando verrà il proprio turno di ritirarsi dal lavoro. Alla luce della lunga transizione del nostro sistema pensionistico, oggi questo insegnamento non potrebbe essere più sbagliato.
La politica economica deve affrontare il fatto che la nostra economia è cambiata. Concluse le riforme che hanno reso la spesa previdenziale sostenibile, rimane ancora da compensare quei lavoratori, in prevalenza donne e giovani, che avranno un futuro particolarmente difficile anche a causa di una pensione pubblica insufficiente. Questi sono gli stessi su cui grava in maniera sproporzionata la precarietà lavorativa. Ma, se mettiamo anche il sistema previdenziale al servizio dell’obiettivo generale di favorire la trasformazione produttiva di questo paese attraverso un mercato del lavoro flessibile, allora bisogna cominciare da due interventi, diversi ma strettamente collegati nella logica del sistema contributivo.
Il primo è assicurare la continuità contributiva alla maggior parte dei lavoratori. Per questo è necessario ridurre l’incertezza individuale nel mercato del lavoro attraverso l’introduzione di un assegno universale di disoccupazione e di un percorso definito di stabilizzazione occupazionale, come il contratto unico a tutele crescenti proposto dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi. Il secondo intervento é costruire un complemento alle carenze del sistema previdenziale pubblico attraverso la massiccia incentivazione fiscale progressiva (cioè maggiore per i meno abbienti) del risparmio privato volto all’età del pensionamento.
L’alternativa è ritrovarsi tra qualche tempo con una fetta fondamentale della nostra popolazione desiderosa di batter cassa per aumentare le proprie pensioni. Ma sarà molto più costoso, oltre che iniquo, farlo quel giorno invece di oggi.
Il fisco al servizio del paese
Oltre alle molte politiche che abbiamo discusso, esiste un’altra scelta di politica economica che questo Paese ha oggi l’obbligo di compiere. Infatti qualunque Governo dispone di un potente sistema di incentivi dei comportamenti economici: il sistema fiscale. Il sistema fiscale infatti, distribuendo il carico del finanziamento della spesa pubblica tra i cittadini, ha la possibilità di compensare chi paga i costi maggiori del cambiamento mentre incentiva i cittadini ad agire nell’interesse del paese.
In Italia la pressione fiscale è più alta di tutti i principali paesi europei (Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna) e degli Stati Uniti d’America. Secondo i dati OCSE del 2009, l’ultimo anno per cui i dati siano internazionalmente comparabili, il nostro paese è infatti il primatista per gettito fiscale in rapporto al reddito prodotto: più del 43% del prodotto nazionale finiva nelle casse statali a causa della imposizione fiscale. Questo primato è destinato a consolidarsi e non è un accidente contabile: se anche sottraessimo dal complesso della pressione fiscale i contributi sociali – cioè quanto versato annualmente per pagare pensioni, cassa integrazione e trattamenti di disoccupazione – scopriremmo che in Italia versiamo più che in tutti gli altri paesi.
Al primato della pressione fiscale corrisponde in Italia una distribuzione del carico fiscale sfavorevole ai fattori di produzione e al lavoro. Sempre secondo i dati OCSE del 2009, il gettito fiscale proveniente dalla tassazione degli individui e delle imprese era di poco superiore al 14% del PIL italiano, una percentuale maggiore di Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e USA. Questa situazione è il risultato di una lunga successione di scelte politiche dalla metà degli anni Settanta ad oggi. L’Italia ha deciso di gravare più delle principali economie del mondo sui fattori responsabili della crescita economica e, in particolare, sul lavoro. Questo equilibrio non ha ragione di essere. Questo paese deve impegnarsi per premiare concretamente fin da subito il lavoro attraverso la riduzione delle imposte su chi lo svolge.
Due sono gli aspetti più sorprendenti della nostra anomalia. Il primo aspetto è che le aliquote della Imposta sui Redditi delle Persone Fisiche (IRPEF) che gravano sui lavoratori sono cresciute costantemente dal 1975 ad oggi, come ha osservato Sandro Brusco di Fermare il Declino. Chi oggi guadagna 10,000 Euro lordi all’anno paga un’aliquota marginale al 23% mentre nel 1975 pagava per un reddito equivalente il 13%. Chi oggi guadagna 30,000 Euro lordi all’anno paga un’aliquota marginale al 38% mentre nel 1975 pagava per un reddito equivalente il 25%. Chi oggi guadagna 50,000 Euro lordi all’anno paga un’aliquota marginale al 38% mentre nel 1975 pagava per un reddito equivalente il 32%. Il secondo aspetto è che 4 italiani su 5 dichiarano meno di 26,000 Euro lordi all’anno (dati 2007, Agenzia delle Entrate). 26,000 Euro è un falso, perché c’è ben più di 1 contribuente su 5 che, in Italia, guadagna al di sopra di questa cifra. Non possiamo rispondere ai falsi con la retorica dell’indignazione e delle regole da far rispettare. La verità è che esiste una Italia divisa in due: da una parte i negligenti di professione, evasori fiscali che nulla hanno da temere e dall’altra gli onesti produttori oberati da un sistema fiscale vessatorio.
E’ venuto il momento di offrire un riconoscimento concreto a tutti quelli che lavorano e producono in questo paese. Questa deve essere la scelta senza ipocrisia di una «Repubblica fondata sul lavoro». La cosa più rivoluzionaria che si può fare oggi in Italia è decidere di premiare i cittadini responsabili con la stessa determinatezza con cui si promette di sanzionare gli irresponsabili.
Prima ancora di colpire gli evasori, bisogna favorire e premiare chi evasore non lo è mai stato. Lo si fa con il sostegno concreto della riduzione delle imposte e con la liberazione da un sistema barocco che nulla ha a che veder con l’equità. Se davvero crediamo in un paese diverso, oggi dobbiamo dargli voce, scegliendo di rappresentare la maggioranza operosa e responsabile e, finalmente, tornare a premiare gli sforzi e il lavoro.