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Enrico Berlinguer e l'"occidentalizzazione" del PCI

Adriano Guerra

Quel che caratterizza Enrico Berlinguer nel quadro del gruppo dirigente del Pci – comprendente uomini provenienti o dall'emigrazione, in primo luogo sovietica, o dall'esperienza della lotta antifascista e della Resistenza – è riscontrabile già nel percorso che lo ha portato al comunismo in una Sardegna tagliata fuori, negli anni della guerra, dal continente e cioè dal campo delle situazioni e delle scelte che i comunisti suoi coetanei hanno dovuto affrontare. Basti dire che mentre il Pci era impegnato a sostenere nell'Italia del Nord la lotta armata contro i nazisti e i fascisti e in quella del Sud il governo Badoglio (forte dopo l'arrivo di Togliatti in Italia del sostegno del Pci) Berlinguer era alla testa a Sassari dei "moti per il pane" che, con l'assalto alla prefettura – e cioè alla sede di rappresentanza del governo legittimo – assunsero per qualche ora aspetti di lotta insurrezionale. Arrestato, Berlinguer dichiarò di "professare teorie comuniste". Si pensi ancora, per individuare il particolarissimo microcosmo nel quale il futuro segretario del Pci si è formato, che quando i vecchi comunisti di Sassari ricostituirono il partito lo chiamarono "Partito comunista d'Italia" perché nell'isola non era arrivata la notizia che il nome era cambiato. Ma la formazione politica del giovane Berlinguer avvenne anzitutto attraverso i libri di casa, quelli del padre, avvocato antifascista e deputato "aventiniano", e quelli in particolare di uno zio, Ettorino, dalla vita – si diceva – un poco sregolata ma di buone letture (Bakunin, Nardau e anche Marx). I libri, le discussioni col padre, le conversazioni con lo zio, gli incontri coi vecchi comunisti di Sassari. Da qui il "sentimento di ribellione" – le parole sono dello stesso Berlinguer in un'intervista ad Enzo Biagi – nei confronti "della religione, dello Stato, delle frasi fatte e delle usanze sociali", che lo ha spinto a farsi "capopopolo" nei "moti" ma contemporaneamente a operare perché la rivolta non degenerasse in cieca violenza. Ed è stato probabilmente per il modo col quale ha saputo gestire quella difficile prova che Renzo Laconi – che fu il primo dirigente del "vero" Pci a raggiungere Sassari – lo individuò come possibile quadro del partito. Berlinguer venne così chiamato a Salerno, ove il padre già nel maggio 1944 lo aveva presentato a Togliatti, e incaricato da quest'ultimo di raggiungere Milano per dirigervi il Fronte della gioventù, un'organizzazione comprendente comunisti, socialisti, repubblicani e – nonostante la posizione negativa assunta dalla Dc – democristiani, nella quale, nel difficile passaggio dalla lotta clandestina a quella legale, occorreva, per dirigerla, combinare le qualità del "capo" con quelle del politico accorto. Eletto membro del Comitato centrale del Pci al Congresso di Milano del gennaio del 1946, nell'estate successiva Berlinguer è stato poi il protagonista di un'altra vicenda che è possibile definire esclusiva: alla testa del Fronte ha compiuto un viaggio, durato oltre un mese, nell'Unione sovietica, da Mosca a Leningrado a Stalingrado, culminato con un incontro con Stalin. Quel viaggio, e quell'incontro, hanno avuto su Berlinguer una influenza che ha pesato a lungo. Di fronte alle rovine di Stalingrado, alla quale si guardava – e si guarda – da tutto il mondo come alla città simbolo della guerra antifascista e della vittoria su Hitler, ma anche alle "prove" – messe in piedi, come si saprà in seguito, con artifici e menzogne – non solo della superiorità del regime sovietico, ma del superiore livello civile e morale di quella società, Berlinguer giunse alla conclusione che compito dei comunisti anche in Italia fosse quello di guardare all'Urss come ad un modello. Ed è stato con questa convinzione che, diventatone il segretario, si è mosso alla testa della Federazione giovanile comunista italiana (Fgci) divenuta presto anche per la passione e le qualità di "capo" del fondatore, una grande organizzazione di massa (400.000 iscritti nel 1950). Anche per gli orientamenti sulla base dei quali era nata, essa era di fatto però chiusa al dibattito politico e immersa in un mondo (gli oppositori hanno parlato di "Fgci dei biliardini") caratterizzato, oltreché da ritualità di tipo sovietico, da iniziative di svago e in ogni caso di natura prepolitica.

Critiche molto dure nei confronti di Berlinguer si fecero sentire presto soprattutto da parte di un gruppo di studenti impegnati nel dibattito politico, e a partire dal Congresso della Fgci di Ferrara (marzo 1953), anche da parte del partito. Le critiche si accentuarono dopo la morte di Stalin quando all'interno della Fgci si venne a poco a poco a formare una corrente di opposizione nettamente minoritaria ma favorita nella sua battaglia dalle tensioni, dal clima di dibattito e dal generale rafforzarsi all'interno del partito, delle spinte al rinnovamento. A prendere di petto la questione fu al congresso di Milano della Fgci del giugno 1955 lo stesso vicesegretario del partito Luigi Longo che respinse perché "vuoti e generici" i documenti presentati per le conclusioni. Era di fatto la sconfessione di Berlinguer ma il suo allontanamento dall'organizzazione, seppure deciso all'indomani stesso del congresso, non poté essere attuato nei tempi stabiliti sia per l'apparire di divergenze sulla questione all'interno del gruppo dirigente del partito sia per il sopravvenire nel 1956 col "Rapporto segreto" di Chruscev e successivamente coll'intervento sovietico contro l'Ungheria di Imre Nagy, di questioni che imposero al Pci di affrontare dibattiti e scelte ben più gravi e non rinviabili.

Per Berlinguer i mesi durante i quali rimase alla testa dell'organizzazione nell'attesa di essere sostituito sono stati duri e difficili. È stato tuttavia quello il periodo della sua crescita politica e persino del suo affacciarsi sulla scena come portatore di istanze di rinnovamento. E questo per le conclusioni cui era giunto a seguito delle riflessioni cui era stato costretto come tutti i compagni di partito dall'aprirsi del processo a Stalin, ma anche perché nello stesso momento in cui dirigeva la Fgci, essendo stato incaricato di guidare l'organizzazione mondiale della gioventù comunista, aveva potuto compiere – altro tratto distintivo della sua formazione – una vasta esperienza internazionale. L'Unione sovietica – il suo regime dispotico, la sua burocrazia corrotta, il carattere "imperiale" delle strutture e dei metodi con i quali imponeva la sua volontà ai paesi dell'Europa dell'Est – gli era apparsa così a poco a poco in una luce nuova. Non può dunque destare stupore il fatto che nello stesso momento in cui veniva allontanato dalla direzione della Fgci con le motivazioni prima ricordate Berlinguer partecipasse al dibattito sul XX Congresso del Pcus sostenendo che la svolta attuata da Chruscev doveva essere considerata necessaria e salutare. «Il pericolo maggiore è che le critiche sul modo coinvolgano la valutazione dei fatti», disse prendendo le distanze da Togliatti che, parlando del "Rapporto segreto", aveva messo in rilievo le inadeguatezze e le debolezze di Chruscev. Quando poi sopravvenne con l'attacco all'Ungheria e l'esplicito appoggio ad esso fornito da Togliatti, il duro confronto all'interno del gruppo dirigente col segretario della Cgil Di Vittorio, schieratosi coi rivoltosi di Budapest, Berlinguer si pronunciò per una "discussione aperta" tra posizioni diverse ma tutte "legittime" e certo non a caso è stato a lui, oltreché a Ingrao, sostenitore "forte" delle posizioni di Togliatti, che venne assegnato il compito di preparare il progetto di risoluzione della riunione. A testimoniare della crescita politica di Berlinguer di quel periodo sta il fatto che dopo essere stato incaricato – a conclusione dell'VIII Congresso (dicembre 1956) – di dirigere la scuola centrale del partito col compito di preparare i quadri alla strategia della "via nazionale al socialismo" e successivamente (dicembre 1957) di trovare soluzioni stabili, in Sardegna, alla crisi che si era aperta all'interno del gruppo dirigente locale del partito, egli è stato chiamato a lavorare nella Segreteria del partito, dapprima alle dirette dipendenze di Longo e poi (1962) per sostituire quest'ultimo. Divenne così il più stretto collaboratore di Togliatti. Contemporaneamente continuò a occuparsi di politica estera e in particolare dei rapporti col Pcus. È stato così a lui che, dopo la morte di Togliatti e, qualche mese dopo, il defenestramento di Chruscev, Longo affidò il compito di guidare la delegazione che a Mosca avrebbe dovuto avere spiegazioni sui mutamenti intervenuti con l'ascesa di Breznev (nonché sulla questione dei rapporti fra il Pci e il Pcus dopo le dure critiche nei confronti dell'Unione sovietica presenti nel "Memoriale di Yalta" di Togliatti e la decisione sovietica di pubblicare, ponendo fine all'ostracismo precedente, il documento sulla stampa di Mosca). Quello avvenuto fra un Berlinguer "martellante" e "implacabile" (le parole sono di un testimone, Paolo Bufalini) e i dirigenti sovietici è stato il primo di una serie di confronti diretti che hanno fatto conoscere in tutto il mondo il nome del comunista sardo. Gli interventi più significativi sono stati nell'ordine quello del giugno 1969 alla Conferenza internazionale dei partiti comunisti, quello del febbraio 1976 al XXV Congresso del Pcus (nel corso del quale venne affermato il carattere pluralistico e democratico non solo della "via italiana al socialismo" ma del sistema socialista che il Pci intendeva costruire in Italia) e quello – infine – del novembre 1977, nel 60° anniversario della rivoluzione d'Ottobre, divenuto famoso per la formula sul "valore universale" della democrazia ivi affermata. Quel che questi interventi mettono in luce è un'altra particolarità che ha caratterizzato, a partire dal 1968-69, Berlinguer: l'idea che socialismo e democrazia (e qui con democrazia si intende il riconoscimento della validità del pluralismo, del pluripartitismo e delle conseguenti "regole del gioco") dovessero camminare sempre insieme. Si aprì però nel partito una contraddizione che non verrà mai colmata: all'XI Congresso – gennaio 1966 – colpendo la sinistra ingraiana il Pci si pronunciò contro la legittimità delle manifestazioni di dissenso e nel 1969 allontanò i dissidenti del "Manifesto". Per Berlinguer, la cui politica espresse la contraddizione di cui si è detto ma che in ogni caso nelle due circostanze citate si mosse per tener aperte le vie del dialogo, non si trattava soltanto di rendere il Pci autonomo dall'Urss – verso la quale si continuava comunque a guardare come ad un paese socialista che aveva in sé le forze e le possibilità di autoriformarsi – ma di trasformarlo in un partito della sinistra occidentale.

Il processo di "occidentalizzazione" del partito ha conosciuto una prima fase – "eurocomunismo" – caratterizzata dal fatto che si pensava di dar vita, all'interno di un movimento comunista internazionale non più monolitico ma articolato in strutture regionali, ad un'associazione forte della presenza dei comunisti italiani, francesi e spagnoli. L'eurocomunismo – nei confronti del quale l'Urss aprì subito una dura polemica – ha avuto però breve durata. Quando dopo la cacciata di Salazar i comunisti portoghesi di Cunhal, si schierarono col sostegno dei sovietici contro i socialisti di Soarez e la loro "rivoluzione democratica", proponendosi di dar vita nell'Europa occidentale ad una "democrazia popolare" del tipo di quelle nate dell'Est, il Pcf si schierò con Mosca mentre il Pci con Berlinguer sostenne Soarez e proseguì poi il cammino da solo ("terza via", "terza fase"). Contemporaneamente prendeva vita il dialogo con la socialdemocrazia tedesca, senza mai rinunciare tuttavia a polemizzare con essa, e venivano avviati contatti con gli Stati uniti. Nella realizzazione di questa linea Berlinguer, eletto deputato nel Lazio nel maggio 1978 con un larghissimo suffragio, ha incontrato all'interno del gruppo dirigente divergenze assai forti: esse sono venute non soltanto dai "prosovietici" ma anche da quanti proponevano, con Amendola e poi con Napolitano, un collegamento molto stretto coi socialisti italiani e con la socialdemocrazia, e da Ingrao e dagli altri esponenti della "sinistra" sui temi della politica economica e sociale.

Tutte le volte che si è proposto di portare avanti scelte di carattere radicale Berlinguer ha dovuto fare i conti poi con la tendenza che spingeva il partito a muoversi sempre sulla linea del gradualismo. Da qui, per imporre scelte radicali ritenute necessarie, la spinta ad utilizzare i poteri esclusivi che nel movimento comunista le vicende storiche avevano assegnato ai segretari del partito. Sta anche qui l'origine della particolare "solitudine" di Berlinguer, eletto segretario al XXIII congresso del marzo 1972. Contenere e battere le critiche che venivano dall'interno e, parallelamente, dai movimenti – quello femminile e quello degli studenti in primo luogo – che si erano affermati a partire dal 1968, come "nuovi soggetti" di una sempre più radicale lotta rivoluzionaria, (senza tuttavia allentare i rapporti coi movimenti stessi e con le spinte democratiche che venivano dalla società sui nuovi temi del divorzio e della legislazione dell'aborto) divenne un problema quotidiano per Berlinguer. Soprattutto quando obiettivo dichiarato divenne quello del passaggio del Pci dall'area dell'opposizione a quella del governo.

Il primo progetto di partecipazione del Pci al governo – quello noto con la formula del "compromesso storico", e cioè con un accordo con la Democrazia cristiana allo scopo di impedire che, come era avvenuto nel Cile, un golpe della destra potesse riuscire sfruttando le rotture fra la sinistra e le forze democratiche borghesi – raccolse, tra gli altri, il "no" di Longo. Ad avviare il nuovo corso politico non fu però la proposta del "compromesso storico" ma la situazione di crisi che, sotto il segno della "ingovernabilità", si venne a creare in Italia nel momento in cui colle elezioni del giugno 1976 la Democrazia cristiana venne privata del vecchio sistema di alleanze. In una situazione caratterizzata da una pesante condizione economica e, dopo le stragi di Milano (1969), di Brescia e del treno Italicus (1974), dalla sanguinosa guerra contro lo Stato avviata dal "partito armato" e in primo luogo dalle Brigate rosse, si aprirono così le trattative fra il Pci e la Dc. A favorirle era stato il "dialogo coi cattolici" che Berlinguer aveva raccolto da Togliatti e che era culminato nell'ottobre 1977 con la risposta del segretario del Pci alla "lettera aperta" del vescovo di Ivrea, Luigi Bettazzi. Berlinguer e Moro, i due protagonisti del dialogo, dopo la nascita del "governo delle astensioni" di Andreotti crearono le condizioni perché potesse nascere, con l'ingresso del Pci nella maggioranza, un governo basato su un programma comune. Il che avvenne, favorito anche dai mutamenti intervenuti nelle posizioni, sino ad allora rigidamente contrarie all'ingresso di comunisti nei governi dell'Europa occidentale, dei paesi della Nato e soprattutto degli Stati uniti, il 16 marzo 1978, lo stesso giorno nel quale le Brigate rosse rapirono Aldo Moro (che verrà assassinato il successivo 9 maggio). Il governo Andreotti cadde, nel gennaio 1979 e cadde per iniziativa dei comunisti, e in primo luogo di Berlinguer, per il rapido logoramento dei rapporti del Pci con la Dc (nonostante l'accordo raggiunto sulla linea della fermezza contro le Brigate rosse), ma anche, e soprattutto, per le debolezze della "politica di governo" del partito e per le difficoltà incontrate presso una base gravemente colpita dalla crisi economica. L'esperienza si chiuse dunque con una sconfitta. Non si tornò però alla situazione precedente, tanto meno a quella del 1947 quando l'estromissione delle sinistre dal governo venne decisa a Washington e si aprì la via ai sempre più ristretti equilibri imposti dalla conventio ad excludendum ora di colpo tolta di mezzo.

La fine del governo Andreotti del gennaio 1979 può e deve essere vista dunque come la normale conclusione di una crisi di governo di un paese normale. A testimoniare che non vi furono passi indietro da parte del Pci vi furono del resto nel 1980 – insieme ad una politica di netto inserimento nell'Occidente europeo e nelle istituzioni comunitarie – le critiche alla politica di potenza dell'Urss nei giorni dell'invasione dell'Afganistan e del sostegno di Mosca alla decisione del generale polacco Jaruzelski di far fronte con la proclamazione dello "stato d'assedio" agli scioperi del Baltico. Si giunse così a quello che venne chiamato lo "strappo". Ma a caratterizzare la nuova fase è stato soprattutto – e per iniziativa di Berlinguer ancora una volta in solitudine nella rivendicazione della "diversità" del Pci nei confronti non solo degli altri partiti comunisti ma dei partiti del sistema politico italiano – il ruolo attribuito dal segretario del Pci alla "questione morale" e alla riforma della politica. La "svolta", come fu chiamata, venne avviata con una dura polemica nei confronti delle forze di governo di fronte ai gravi episodi di incapacità e di corruzione venuti alla luce nei giorni del terremoto che nel novembre 1980 colpì gravemente la Campania e la Basilicata. E venne proseguita poi, investendo la Dc ma soprattutto il Psi di Bettino Craxi (accusato da Berlinguer di aver provocato nel suo partito una vera e propria "rottura genetica") con una serie di interventi – sulla degenerazione dei partiti («che hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire del governo» – sono parole di Berlinguer del luglio 1981 – e ancora «gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai-Tv, alcuni grandi giornali»). Il rischio era – aveva già detto in precedenza mettendo al centro il tema della lotta contro gli sprechi e per l'austerità – che si scendesse «di gradino in gradino la scala della decadenza, dell'imbarbarimento della vita e quindi anche, prima o poi, di una involuzione politica reazionaria». Né si era di fronte ad un problema soltanto italiano nel momento in cui sull'intero pianeta pesavano con la frattura sempre più grave fra Nord e Sud, le minacce della crisi energetica e di quella alimentare. L'ultima battaglia di Berlinguer – mentre l'esplodere nell'Urss della "crisi generale" metteva a nudo le contraddizioni e i limiti della "diversità" del Pci – fu quella che lo vide contrapporsi a Craxi in difesa della "scala mobile". Ma la conclusione della battaglia, con la sconfitta del Pci, avverrà senza Berlinguer, colpito da un ictus il 7 giugno 1984 a Padova durante un comizio per le elezioni europee. Da allora due, distinti e contrastanti, sono gli atteggiamenti che si contendono il campo nei suoi confronti: quello che si spinge sino a proclamare la necessità di un esplicito e pieno distacco dall'uomo politico (e insieme dai partiti, dalla politica, dalle ideologie del secolo scorso) e quello del rimpianto nostalgico e in molti casi dell'auspicio del "ritorno" a quella politica, a quei partiti, a quegli uomini. E questo – si afferma – per l'attualità di tanti aspetti della sua politica dimenticati dai suoi successori ma anche perché caratteristica fondamentale di Enrico Berlinguer – ha scritto Norberto Bobbio – è stata quella «di non avere i tratti negativi che contraddistinguono tanta parte della classe politica italiana», vale a dire la vanità, l'esibizionismo, l'arroganza, il desiderio di primeggiare.



Riferimenti bibliografici


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