La questione tibetana nasce in termini di problema internazionale molto prima che il XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso (1935), capo spirituale temporale del Tibet, fuggisse in esilio in India nell’agosto del 1959[1].
In seguito all’invasione del 7 ottobre 1950 dell’Esercito Popolare di Liberazione, comandato dal generale Zhang Guoha, l’Assemblea Nazionale Tibetana (Tshongdu) chiese al Dalai Lama, allora quindicenne, di assumere eccezionalmente i pieni poteri. Per misura cautelativa il giovane Tenzin Gyatso si recò nella valle di Chumbi, presso il confine indiano, dove, insieme ai membri del suo governo, svolse un’intensa quanto disperata attività diplomatica con tutti coloro che riteneva parti in causa: India, Cina, Gran Bretagna e Stati Uniti. Con l’invio di un appello alle Nazioni Unite si poneva, per la prima volta sul tappeto internazionale, il problema del Tibet[2].
Sono circa cinquanta anni che il dibattito sulla questione tibetana si svolge sulla base di due opposti punti di vista: per il primo, il Tibet era uno stato indipendente, conquistato militarmente dai comunisti cinesi e ingiustamente incorporato nella Repubblica Popolare Cinese; per il secondo, il Tibet è un paese che appartiene tradizionalmente alla Cina, addirittura fin dai tempi della dinastia Yuan (1270-1368).
La realtà storica è certamente più complessa se si esaminano i passaggi più significativi che hanno portato l’una e l’altra parte a formulare due diverse e contrapposte interpretazioni.
Quando nell’ottobre del 1949 i comunisti cinesi presero il potere dichiararono subito di considerare il Tibet parte inalienabile della Cina, così come avevano fatto Sun Yat-sen (1866-1925), Yuan Shikai (1859-1916) e Chiang Kai- shek (1888-1975)[3].
I Cinesi si avvidero però che il Tibet era di fatto indipendente poiché non vi erano più rappresentanti cinesi a Lhasa e anche gli inviati del Guomindang erano stati espulsi.
Nell’anno 1895 infatti erano accaduti due avvenimenti importanti che avevano influito a creare quella situazione: da una parte, la firma del trattato di Shimonoseki in seguito alla disfatta cinese contro il Giappone e, dall’altra, la presa del potere da parte del XIII Dalai Lama (1875-1933). Questi si rivelò uomo di grande statura politica e governò, finché visse, su un paese di fatto indipendente, secondo il proclama da lui stesso inviato ai tibetani (15 febbraio 1913) e ribadito nel trattato Mongolo-Tibetano di quello stesso anno[4].
Il nuovo governo comunista cinese invitò urgentemente i Tibetani ad incontrarsi per discutere lo status del Tibet.
Capo della delegazione tibetana era Tsepon Shakapba, uno dei pochi funzionari di governo che avesse conoscenza del mondo al di fuori dei confini tibetani. L’incontro con i cinesi sarebbe dovuto avvenire ad Hong Kong o a Singapore, ma gli Inglesi rifiutarono di permettere l’incontro sul loro territorio.
Un incontro in forma non ufficiale avvenne a Delhi tra Tsepon Shakapba e l’ambasciatore cinese in India Yuan Zhongxian[5]. La delegazione tibetana cercò di far presente la natura della relazione che aveva legato il Tibet alla Cina ricordando come la base di questa fosse il riconoscimento del prestigio reciproco tra Dalai Lama e Imperatore, in due diversi ma paritetici ambiti e che in tibetano era indicata dall’espressione mchod yon. I due termini che si trovano variamente tradotti come sacerdote e patrono, protetto e protettore ecc., indicano la relazione che si determina fra il maestro che riceve la protezione dal signore al quale fa il dono dell’insegnamento della dottrina[6].
Durante il XVIII secolo gli imperatori Qing onorarono il vincolo di protezione che li legava ai Dalai Lama del Tibet intervenendo militarmente per difendere il territorio tibetano dalle incursioni nepalesi (1788-1792) come anche in occasione della guerra nella regione di Gyalmorong (1771-1776). Nel 1720 infatti i cinesi della dinastia manciù dei Qing (1644-1911) erano entrati a Lhasa per la prima volta nella storia, dando inizio al "protettorato" che la Cina stabilì sul Tibet e che durò fino alla caduta della dinastia e che presupponeva una completa autonomia degli affari interni del paese, mentre lasciava ai Manciù il compito delle relazioni con l’estero e della difesa.
Ma nel XIX secolo si assistette ad un graduale disimpegno della politica della dinastia verso il Tibet, sia a livello locale che centrale. È stato notato come i due funzionari dei Manciù residenti a Lhasa, chiamati amban[7], esercitassero un controllo sempre più debole e che questo dipendesse sostanzialmente dal carattere più o meno forte e volitivo delle persone che in molti casi invece si dimostrarono inefficaci e corrotte. A livello centrale il disimpegno fu causato dai problemi interni, come ad esempio la guerra sino-giapponese, che rendevano difficile esercitare il controllo delle zone più lontane dell’impero.
Nonostante la dichiarazione di indipendenza del XIII Dalai Lama e la rivendicazione della relazione mchod yon, l’ambasciatore cinese rispose che la Cina non avrebbe mai accettato un Tibet indipendente e presentò una proposta in tre punti: 1) Il Tibet era parte della Cina; 2) la Cina era responsabile per la difesa del territorio tibetano; 3) il commercio e le relazioni internazionali sarebbero stati affidati ai cinesi.
Tsepon Shakabpa informò il governo tibetano che però cercò di ritardare una risposta di istruzioni al fine di comprendere meglio l’evolversi della situazione internazionale, forse anche nella speranza che gli Stati Uniti potessero dare un aiuto concreto alla sopravvivenza di un Tibet indipendente.
I Cinesi da parte loro divennero sospettosi per i contatti che la delegazione tibetana aveva avuto a Delhi con l’ambasciatore americano Loy Henderson. Si stava infatti profilando la crisi coreana e i cinesi temevano che la Corea fosse un pretesto da parte americana per invadere la Cina.
Quando il 7 ottobre 1950 gli americani attraversarono il 38° parallelo, i cinesi decisero di unirsi ai nord coreani e lanciarono l’attacco al Tibet orientale[8].
Non si può non notare a questo punto quanto l’esistenza politica e territoriale del Tibet fu determinata dalla politica imperialistica delle nazioni occidentali che tra l’altro possedevano tecnologie e informazione geo-strategiche molto al di là di quelle che era dato sapere ai tibetani.
L’attacco cinese colse di sorpresa i tibetani e l’esercito, male equipaggiato[9], subì una grave sconfitta a cui seguì l’occupazione militare di Chamdo (Tibet orientale). Il governatore della regione Ngabo Ngawang Jigme inviò a Lhasa il 7 dicembre del 1950 una lettera che conteneva una nuova proposta dei cinesi di accordo in otto punti, inclusiva anche dei tre punti presentati mesi prima a Delhi.
Il secondo e il terzo punto della nuova proposta stabilivano che il Tibet sarebbe rimasto sotto l’autorità del Dalai Lama e che la religione sarebbe stata protetta. La storia dimostrerà quanto questo ultimo punto sarà disatteso.
Vi furono vari scambi nei quali il governo tibetano cercò disperatamente di mantenere lo status quo del 1913[10] prima che fosse deciso un incontro con i cinesi, e anche quando l’incontro avvenne a Pechino la delegazione aveva ricevuto istruzioni affinché non accettasse in alcun modo la sovranità della Cina sul Tibet.
Sulla via di Pechino i delegati tibetani avevano incontrato il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru ed erano venuti così a conoscenza che l’India non avrebbe dato nessun aiuto per l’indipendenza del Tibet. In questo clima si giunse alla firma dell’Accordo detto in 17 Punti, secondo il quale la Cina, pur riconoscendo la speciale posizione autonoma del Tibet, stabiliva che il paese era parte della Repubblica Popolare Cinese[11].
Il giovane XIV Dalai Lama denunciò l’accordo come imposto con la forza nella sua prima intervista dall’esilio indiano[12].
Tra il 1950 e il 1959 la politica cinese subì via via dei cambiamenti sempre più severi nei confronti dei Tibetani, passando da una apparente collaborazione ad un inasprimento del processo di collettivizzazione della terra che portò ad aperte rivolte, soprattutto in Amdo e Kham (Tibet orientale), dove, dal 1956 al 1974, si ebbero continuamente azioni di guerriglia, sostenute dalla CIA[13].
Il 6 settembre 1965 la Regione Autonoma del Tibet fu ufficialmente inaugurata: territorialmente comprendeva e comprende solo il Tibet centrale e occidentale mentre il Kham e l’Amdo, due terzi del Tibet geografico ed etnografico, furono incorporati nelle province cinesi del Qinghai, Gansu, Sze chuan e Yunnan[14].
Si preparava per il Tibet uno dei momenti più drammatici della sua storia. Ad una grave carestia che durò dal 1961 al 1963 seguirono gli anni della rivoluzione culturale che videro la devastazione sistematica di 6000 monasteri: tutto ciò che era tibetano fu distrutto, tutto ciò che era cinese e comunista adottato. Il corollario ideologico era la distruzione della cultura tibetana e l’identità nazionale di tutto un popolo[15].
I primi segni di un nuovo cambiamento della politica cinese si ebbero a partire dal 1977 quando Hua Guofeng (1921-) permise il ripristino di alcune usanze tibetane. Inoltre Deng Xiaoping dopo la morte di Mao (1976) diede il via ad una serie di iniziative per intavolare un dialogo sino-tibetano volto al ritorno del Dalai Lama. Nel 1978 era stato liberato il X Pan chen Lama (1938-1989) dopo una decina d’anni di permanenza nei campi di lavoro e di rieducazione politica[16].
Sembrava evidente che i cinesi desiderassero trovare una soluzione al problema del Tibet.
Il governo centrale aveva investito molto costruendo strade, ospedali e scuole. A fronte degli alti costi dell’occupazione, i cinesi si trovavano davanti un paese in cui le attività di guerriglia si ripetevano continuamente, i quadri tibetani del partito, tra le diecimila-quarantamila persone, nonostante gli sforzi per l’indottrinamento ideologico e politico, erano inadeguate al compito di funzionari.
Tra il 1979 e il 1980 tre delegazioni del Dalai Lama visitarono il paese: con l’annuncio dato a Pechino dalle autorità cinesi che i tibetani fuoriusciti potevano finalmente prendere contatto con i loro parenti in patria, il ritorno ad una limitata libertà di culto insieme alla ricostruzione di alcuni monasteri devastati sembrò che almeno i problemi interni dei tibetani potessero avviarsi sulla via di una normalizzazione. La nuova politica liberale di Deng Xiaoping con il lancio delle "Quattro Modernizzazioni" fu anche molto significativo non solo per l’economia e la società cinese, ma anche per Regione Autonoma del Tibet.
Nel maggio 1980 Deng Xiaoping inviò infatti Hu Yaobang (1915-19899), Segretario Generale del PCC, in Tibet, per un’indagine sulle condizioni della regione e il lancio di nuove riforme[17].
Ma nei primi anni ‘80 subentrò una massiccia immigrazione di coloni fin tanto che si parlò della presenza di otto milioni di cinesi a fronte dei sei milioni di tibetani diventati quasi una minoranza etnica nel loro stesso paese.
Le rivolte a favore dell’indipendenza continuarono: tra il 1982 e il 1983 si verificarono ondate di arresti, coprifuoco nei maggiori centri e pubbliche esecuzioni.
La rivolta del 1987[18] causata dalla convocazione di una grande riunione di massa durante la quale 11 tibetani furono condannati a varie pene e due giustiziati pubblicamente fu davanti agli occhi di tutto il mondo: i cinesi avevano già aperto il Tibet al turismo. Lo stato di rivolta che si venne a creare e che ebbe termine soltanto nel 1989 con l’imposizione della legge marziale fu messo in relazione con il discorso pronunciato il 21 settembre dal XIV Dalai Lama davanti al Comitato per i diritti umani della Camera del governo americano. Tenzin Gyatso espose un suo piano di pace in cinque punti con il risultato di iniziare quel processo mediatico del problema tibetano i cui effetti sono tanto più visibili nel mondo attuale di internet e della globalizzazione.
Tra il 1987 e il 1992 ci furono da parte del Congresso USA otto risoluzioni e sei disegni di legge che condussero alla formulazione del Foreign Relations Authorization Act (1991), in cui si proclamava che il Tibet era un paese occupato illegalmente e si invitavano i dirigenti cinesi al rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli[19].
Nei giorni seguenti alla rivolta si seppe che i cinesi avevano fermato alcuni stranieri colpevoli di aver affisso per la via di Lhasa manifesti con una richiesta di intervento dell’Onu per la violazione dei diritti umani in Tibet.
Quando nell’ottobre del 1989 il Dalai Lama ricevette il premio Nobel per la pace, le iniziative a favore del Tibet si rinnovarono. Dal suo esilio Tenzin Gyatso non mancò mai di invitare il suo popolo a percorrere pur nella difficile situazione la via della non violenza[20].
Il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura nella quarta sessione tenuta nell’aprile-maggio 1990 chiese alla Cina, che nel 1988 aveva ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, un rapporto in base alle denunce di violazioni dei diritti umani.
Come si può notare da queste brevi note la “questione tibetana” non riguarda soltanto il fatto se il Tibet sia stato invaso illegalmente dai comunisti cinesi o no, ma anche i gravi atti di violazione dei diritti umani che i comunisti cinesi hanno compiuto nel paese, molta parte dei quali sono stati resi noti dagli osservatori stranieri presenti sul territorio[21].
La Cina stava vivendo in quegli anni una fase veramente delicata della sua storia: tutti ricordano l’immagine simbolo dello studente in piazza T'ien an men. All’epoca era presente un diffuso malessere della società cinese a cui diedero voce non solo gli intellettuali, ma anche uomini politici come il segretario del partito Zhao Ziyang (1919): la discussione sui temi delle libertà individuali si intrecciavano con quelle a livello politico, che tendevano ad inserire la Cina in un contesto di relazioni internazionali favorevoli e a rompere l’isolamento dovuto alla Rivoluzione culturale. Come è ben noto i cinesi riuscirono a superare quel momento e a diventare un paese di importanza planetaria da un punto di vista economico.
L’eccezionale crescita economica cinese ha coinvolto il paese delle nevi. A partire dal Terzo Forum Nazionale sul Tibet[22], il governo centrale cinese ha deciso di investire cifre rilevanti per lo sviluppo della Regione Autonoma del Tibet come anche per la province occidentali della Cina.
Questa politica di sviluppo, ancora in corso, chiamata “Xibu Da Kaifa”[23], che vuol dire “Grande Sviluppo per l’Ovest”, prevede investimenti per grandi progetti come quello già realizzato della costruzione della ferrovia Golmud-Lhasa.
Il progetto di un linea ferroviaria che unisse Pechino al Tibet risale al 1958, ma fu più volte abbandonato per motivi tecnici. La linea è stata inaugurata il primo luglio del 2006 dal presidente Hu Jintao e collega Pechino a Lhasa in 48 ore.
Anche per gli interventi di ristrutturazione del Potala, il palazzo dei Dalai Lama, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità nel 1994, i cinesi hanno speso somme ingenti.
Ci si chiede come mai mentre da parte cinese sembra evidente lo sforzo di modernizzare la Regione Autonoma del Tibet e di portare un maggiore benessere alla popolazione attraverso la politica del Xibu Da Kaifa, vi siano state nel marzo 2008 ripetute manifestazioni di protesta, soprattutto nella parte orientale del Tibet.
Le cause delle proteste dei tibetani riguardano in special modo la violazione dei diritti umani in molti ambiti della vita quotidiana: ad esempio, il progetto di residenza stanziale dei nomadi che a detta del governo centrale è finalizzato a combattere la povertà, in realtà ha come risultato quello di sradicare un antichissimo modo di vita tradizionale che procura nelle famiglie dei nomadi un degrado visibile nella perdita di coesione sociale che a volte li conduce all’alcolismo e al crimine[24].
Inoltre la libertà di culto costituisce da sempre un grave problema: i dirigenti cinesi, per la loro ideologia, non possono permettere che ci sia una autorità religiosa indipendente dallo stato e ciò fa sì che chiunque venga trovato con la foto di Tenzin Gyatso venga arrestato come dissidente.
La religione buddista è sentita come un elemento di identità nazionale: le rivolte del marzo 2008 legate ai Giochi Olimpici hanno fatto vedere come i dimostranti iniziassero le loro marce di protesta dai luoghi di culto o in occasione di cerimonie religiose[25].
È impressione condivisa che ancora oggi la questione tibetana rimanga drammaticamente aperta, nonostante le promesse di dialogo avanzate dalle autorità cinesi.
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[1] La bibliografia sul XIV Dalai Lama è molto estesa: sulla sua figura si consiglia la lettura di T. LAIRD, Il mio Tibet, Conversazioni con il Dalai Lama , tr. it. di F. Gimelli, Mondadori, Milano 2008.
[2] Appello dell’11 novembre 1950, cfr. INTERNATIONAL COMMISSION OF JURISTS, Tibet: Human Rights and the Rule of Law, Geneva: ICJ,1997, 45; d’ora in poi ICJ 1997.
[3] Sulla storia cinese del ‘900 in relazione con il Tibet, si veda: G. SAMARANI, La Cina del Novecento. Dalla fine dell’Impero a oggi, Einaudi, Torino 2004, pp. 227-234.
[4] A. MCKAY (ed.), The History of Tibet, the Modern Period: 1895-1959, the Encounter with Modernity, Routledge Curzon, London 2003 (v. Introduzione, pp. 1-35). Da ora in poi citato come A. MCKAY (ed.) 2003.
[5] TSERING SHAKYA, The Genesis of the Sino-Tibetan Agreement of 1951, in ivi, pp. 589-606.
[6] D.S. RUEGG, Mchod yon, Yon mchod and mchod gnas/yon gnas on the Historiography and semantics of a Tibetan Religio-Social and Religio-Political in concept, in ivi, (vol. II) pp. 362-372 e ICJ 1997, p. 32.
[7] La nomina dei due residenti manciù come supervisori fu una delle riforme introdotte dai cinesi all’epoca del protettorato. Un’altra riforma importante fu l’introduzione del sistema dell’urna d’oro per la selezione dei candidati alla nomina dei Dalai Lama e degli altri incarnati (sprul sku). Sul periodo del Tibet sotto i Dalai Lama vedi M.T. KAPSTEIN, The Tibetans, Blackwell, Oxford 2006, pp. 127-168, da ora citato come M.T. KAPSTEIN 2006.
[8] A. MCKAY (ed.) 2003, p. 593.
[9] All’epoca del XIII Dalai Lama, fino al 1925, vi fu un tentativo di aprire il paese alla modernità come quello di riformare il vecchio esercito, ma l’opposizione della parte più tradizionalista dei lama dei grandi monasteri vi pose presto fine, vedi M.C. GOLDSTEIN, The Demise of the Lamaist State, in ivi, pp. 531-537.
[10] È importante fare riferimento alla Convenzione di Simla, in territorio indiano, il cui testo finale fu firmato dalla delegazione inglese e tibetana, ma non da quella cinese. Vedi ivi, p. 11. In quell’occasione gli inglesi non sostennero fino in fondo la rivendicazione tibetana per l’indipendenza e lo status del Tibet nelle relazioni sino-tibetane rimase irrisolto. La politica inglese di quegli anni aveva interesse che il Tibet rimanesse uno stato cuscinetto per il timore di un coinvolgimento della Russia zarista nella politica del Tibet. Vedi ivi, p. 5 e ICJ 1997, p. 39.
[11] Ivi, p. 47, pp. 355-358.
[12] Vedi il testo della dichiarazione del 20 giugno 1959 in Commission Internationale de Juristes , La Question du Tibet et la Primauté du Droit, Genève 1959, pp. 220-223.
[13] A. MCKAY (ed.), 2003, p. 25.
[14] ICJ 1997, p. 92.
[15] Ivi, pp. 72-75.
[16] Il Pan chen Lama è la seconda figura religiosa più importante nel Buddismo tibetano; da un punto di vista dottrinale, anche più in alto del Dalai Lama poiché la sua linea mistica di incarnazioni risale al Buddha Amitabha. Dopo alcuni anni dalla sua morte, nel 1995 il Dalai Lama e il governo in esilio annunciarono il ritrovamento dell’incarnazione in Gedun Chekyi Nyima, che da allora è il più piccolo prigioniero politico del mondo: M.T. KAPSTEIN 2006, p. 295.
[17] Ivi, p. 293.
[18] Ivi, p. 294.
[19] DAWA NORBU, China’s Tibet Policy, Curzon Press, Richmond 2001, pp. 274-281.
[20] Vi è un movimento che attualmente rivendica la lotta armata contro i cinesi: vedi l’articolo apparso recentemente sul quotidiano “La Repubblica” (1 marzo 2008) e anche T. LAIRD, T. GYATSO, Il mio Tibet, Conversazioni con il Dalai Lama, Mondadori, Milano 2008, p. 361.
[21] Sul ricorso all'uso della tortura , vedi ICJ 1997, p.246.
[22] ICJ 1997, pp. 146-158.
[23] Tracking the Steel Dragon, How China’s economic Policies and Railway are transforming Tibet, International Campaign for Tibet, Washington 2008.
[24] Tutto ciò si trova documentato in ivi, pp. 117-119.
[25] Si veda il quotidiano “La Repubblica” (18 marzo 2008).