Fino dall’epoca di Archimede di Siracusa, e forse anche prima, alcuni scienziati hanno contribuito alla produzione di nuove armi.
Qualcuno lo ha fatto per difendere la propria patria ed i propri ideali: i casi dello stesso Archimede o degli scienziati antinazisti (da Enrico Fermi a Bruno Rossi, a Leo Szilard e tanti altri), che furono determinanti nella costruzione delle prime bombe atomiche, sono troppo noti per dovere essere ancora ricordati. Meno noto, ma forse ancora più rappresentativo di questo atteggiamento, è il caso del fluidodinamico inglese Wallis, il quale durante la II Guerra Mondiale, pur non essendo in alcun modo obbligato a svolgere ricerca militare, sviluppò di propria iniziativa un tipo di arma completamente nuovo[1], con la quale la Royal Air Force distrusse tre dighe nella Rhur, provocando danni ingentissimi all’economia tedesca ed oltre 5000 vittime civili in una sola notte.
Altri scienziati hanno inseguito l’illusione dell’arma tanto potente e distruttiva da porre fine alla guerra, perché nessuno avrebbe avuto il coraggio di utilizzarla: questa era l’idea di Nobel, convinto pacifista, quando brevettò la dinamite e lo stesso Einstein si lasciò tentare da questa illusione (salvo poi pentirsene immediatamente) quando sottoscrisse la lettera di molti suoi colleghi al Presidente Roosvelt, che fu all’origine del Progetto Manhattan sulle armi nucleari.
Molti altri scienziati si sono invece dedicati alla ricerca militare per il solo interesse personale, culturale ed economico, seguendo l’esempio di Leonardo da Vinci, il quale vendeva i progetti delle sue perfette fortificazioni e delle sue macchine belliche a chiunque lo pagasse. Questo atteggiamento si è enormemente diffuso nel corso del XX secolo, durante il quale i paesi economicamente più avanzati hanno destinato cifre enormi per la tecnologia militare: molti ricercatori quindi hanno accettato di entrare in progetti ad essa finalizzati prevalentemente per riuscire su questi fondi, elargiti spesso molto generosamente e senza troppi controlli sull’output, a ritagliare quanto serviva loro per proseguire ricerche di base che altrimenti nessuno avrebbe finanziato[2]. Spesso, questi ricercatori cercavano di giustificare, prima di tutto a se stessi, il loro atteggiamento con l’affermazione che in ogni caso le ricerche condotte a fini militari avrebbero potuto essere utili all’umanità per le ricadute che avrebbero potuto generare in campo civile, anche se è ben noto che ciò capita molto raramente perché da un lato la ricerca militare è usualmente soggetta a vincoli di segretezza che ne impediscono la divulgazione prima che i risultati conseguiti siano divenuti completamente obsoleti; dall’altro, le tecnologie sviluppate in ambito militare sono spesso troppo costose per potere essere utilizzate in produzioni civili.
Però, se ci sono, e ci sono sempre stati, scienziati che lavorano per la guerra, ce ne sono, e ce ne sono sempre stati, altri che lavorano per la pace, dando al movimento pacifista un contributo altrettanto importante di quello che portano alle proprie discipline: vengono immediatamente alla memoria i nomi di Bertand Russsel e Linus Pauling, ma non sono certo i soli. Forse, l’esempio più luminoso di scienziato che mise le proprie conoscenze a servizio della pace è rappresentato dal disperato tentativo del tecnologo nucleare israeliano Mordechai Vanunu di impedire che il proprio paese continuasse la produzione clandestina di armi nucleari; intorno a lui, si sviluppò la solidarietà (purtroppo inutile) di una larghissima parte della comunità scientifica internazionale quando egli venne rapito a Roma ed imprigionato per 18 anni in Israele.
Anche nell’epoca della “Guerra fredda” quindi una vastissima area della comunità scientifica non solo rifiutava il coinvolgimento nella ricerca militare ma cercava attivamente di impedire che la scienza venisse impiegata a fini bellici. Gli esempi di interventi di scienziati (isolati o riuniti in associazioni) in questa direzione sono troppi per essere anche solo ricordati tutti. A titolo di esempio, possiamo citare le iniziative dell’organizzazione internazionale “Pugwash”, fondata da Betrand Russel, della “Union of Concerned Scientists” americana, dell’Istituto di Ricerche sulla Pace dell’Accademia delle Scienze dell’URSS e dell’analoga istituzione (il SIPRI) dell’Accademia delle Scienze Svedese, dell’Unione degli Scienziati per il Disarmo (USPID) italiana, del gruppo di ricercatori pacifisti della Commision pour l’Energie Atomique (CEA) francese. A volte, queste iniziative pacifiste degli scienziati assunsero le dimensioni di fenomeni di massa, capaci di cambiare il corso della storia, come accadde ad esempio nella prima metà degli anni ’80 con le centinaia di migliaia di firme (quasi 9000 solo in Italia) di obiezione di coscienza all’utilizzo dei fondi della Strategic Defense Initiative di Reagan, meglio nota con il nomignolo di “Guerre Stellari”: questo movimento fu un elemento non secondario nel processo che portò al sostanziale fallimento della SDI.
Poi, con la fine della “Guerra Fredda”, alla quasi totalità degli scienziati pacifisti sembrò di aver svolto con successo il proprio compito: l’equilibrio del terrore era finito e l’umanità non era stata distrutta da una Terza Guerra Mondiale combattuta con armi di distruzione di massa. Si poteva quindi tranquillamente tornare ai propri studi, al limite partecipando ogni tanto a qualche convegno sui metodi migliori per distruggere sotto controllo internazionale le armi nucleari ormai inutili.
Purtroppo, coloro che, nella comunità scientifica, manifestavano profondi dubbi sul fatto che il vuoto lasciato dall’Unione Sovietica ed il permanere di un’unica superpotenza militare potessero essere forieri di pace rimasero inascoltati. Invece, l’equazione “Niente giustizia, niente pace” non è esprimibile in termini matematici ma ha una validità comparabile con quella dei principi della termodinamica: il “nuovo ordine mondiale” unipolare non assicurava certamente più giustizia di quello bipolare che lo aveva preceduto e non poteva quindi garantire più pace. Ai milioni di morti virtuali dell’epoca del confronto USA-URSS si sostituirono centinaia di migliaia di morti reali in operazioni militari che però erano decisamente diverse da quelle che si erano viste fino al 1990. Le tradizionali organizzazioni pacifiste faticarono non poco a capire il nuovo quadro che si andava sviluppando, mentre, passati i primi anni di confusione e di illusione, veniva avanti un nuovo pacifismo, fatto di movimenti meno organizzati, che si aggregavano, si disgregavano e si aggregavano di nuovo in modo diverso in risposta al flusso degli eventi. Anche questi movimenti per la pace inclusero numerosi scienziati, ma inizialmente solo come cittadini, non nella loro professionalità.
Sotto molti punti di vista, infatti, il rapporto tra scienza ed armi nell’epoca delle “nuove guerre” è assai diverso da quello che si era determinato durante la II Guerra Mondiale e poi durante la “Guerra Fredda”: infatti, sia nello scontro tra gli Alleati e le potenze dell’Asse sia nel confronto tra gli USA e l’URSS, a fronteggiarsi erano le nazioni più sviluppate sia dal punto di vista economico che da quello militare, con eserciti sostanzialmente equivalenti dal punto di vista numerico e tecnologico. È quindi ovvio che in questa situazione (così come accade nella competizione economica tra grandi gruppi industriali) solo l’innovazione originata dalla ricerca scientifica poteva far pendere la bilancia in favore dell’una o dell’altra parte.
Nel caso delle “nuove guerre” invece lo scontro si svolge tra l’unica superpotenza militare rimasta e potenze locali che non hanno alcuna possibilità di resistere ad un attacco frontale ed ad un’invasione e che possono al massimo, dopo essere state invase, trasformare la guerra in una guerriglia senza fine. Le armi ad alta tecnologia quindi non servono né nella prima fase, che viene risolta dalla forza soverchiante dell’attaccante, né in quella successiva, perché non esiste tecnologia che possa sostituire la soluzione politica per sconfiggere la guerriglia. Per questo motivo, le “nuove guerre” hanno sempre meno bisogno delle scienze matematiche, fisiche e naturali: al massimo, si è operato un trasferimento al militare di tecnologie sviluppate in ambito civile, come alcune applicazioni informatiche, o qualche innovazione incrementale di sistemi d’arma e di quelli per il telerilevamento esistenti, ma più per comodità e per ragioni economiche che per reale necessità militare. I fisici, i chimici, i biologi, che di fronte allo sviluppo delle armi di distruzione di massa si erano giustamente ritenuti personalmente responsabili dei rischi che esse comportavano per l’umanità, non si sentirono quindi in un primo tempo personalmente coinvolti come professionisti da queste guerre combattute con armi sostanzialmente convenzionali.
Tuttavia, le “nuove guerre” hanno avuto sempre più bisogno delle scienze umane e sociali. L’opinione pubblica, infatti, tende ormai a considerare la guerra come un evento estremamente negativo. I governi possono pertanto renderla accettabile solo tramite una pressione costante ed intensa dei mezzi di informazione di massa che la faccia ritenere giusta, inevitabile e prossima ad una sicura vittoria: si tratta della “guerra delle informazioni”, che precede l’inizio delle operazioni militari sul campo. Questa campagna propagandistica è finalizzata a far apparire il nemico come una banda di criminali guidati da un dittatore che opprime il suo stesso popolo, e d’altra parte far credere che dalla guerra i soldati del proprio esercito non corrano rischi di sorta e che anche la gente comune della nazione attaccata riporterà pochi danni in cambio dell’enorme dono della libertà. È chiaro però che, perché questa tesi sia credibile, bisogna che l’opinione pubblica sia convinta che le armi usate siano in grado di colpire “i cattivi” senza produrre danni ai civili (a meno che, naturalmente, questi non siano usati proditoriamente come “scudi umani” o che si tratti di trascurabili “danni collaterali”). Nascono così il concetto di “arma intelligente” e di “intervento chirurgico”. Il primo si riferisce ad un tipo di arma capace di dirigersi da sola sul bersaglio con la massima precisione, distinguendolo da ciò che lo circonda e distruggendolo senza fare altri danni. L’“intervento chirurgico”, invece, è un intervento armato rapido ed ad alta tecnologia, che distrugge solo pochi obiettivi nevralgici, e paralizza ogni capacità di nuocere del nemico: in pratica, si tratta di un sinonimo mediatico del “primo colpo disarmante” teorizzato da tempo come il miglior intervento bellico, o, se si preferisce, della “Blitz Krieg” della fine degli anni ’30. Tuttavia questi concetti, nati per motivi di propaganda, non si concretizzano in oggetti reali ed in comportamenti praticabili. Non è il caso di ripetere qui quanto già ripetutamente pubblicato in dettaglio altrove[3], anche perché è ormai evidente a tutti che le tanto decantate “armi intelligenti” non sono state capaci di risolvere alcuna guerra, oltre a non risparmiare i civili, a meno di non voler considerare “danni collaterali” l’uccisione diretta, in operazioni militari, di decine di migliaia di civili innocenti in Jugoslavia, in Palestina, in Iraq, in Afghanistan.
Negli anni ’90 del secolo scorso questo tipo di propaganda aveva però ancora larga presa sull’opinione pubblica. Divenne perciò evidente che gli scienziati pacifisti avevano ancora un ruolo importante: quello della denuncia delle operazioni di disinformazione che sono volte a giustificare gli interventi militari. Così, ad esempio, nell’aprile del 1999 in vari centri di ricerca e dipartimenti universitari italiani nacquero spontaneamente “comitati contro la guerra” condotta dalla N.A.T.O. contro la Repubblica Federale di Jugoslavia. I messaggi rimbalzavano rapidamente e si diffondevano, parallelamente alle iniziative che in molte località italiane comitati e coordinamenti cittadini andavano organizzando per rispondere, con l’indignazione e il rifiuto civile, al “bombardamento” della informazione manipolata. Così si diffuse un appello di ricercatrici e ricercatori romani, che suscitò un’eco immediata e da qui si formò a livello nazionale il “Comitato scienziate e scienziati contro la guerra” e subito dopo la lista di discussione di posta elettronica “Scienza e Pace”, entrambi finalizzati a porre le più svariate competenze scientifiche al servizio del movimento pacifista e di una sua corretta informazione.
Questo Comitato, pur tra diverse traversie, continua ancora la propria opera, così come continua ad essere attiva l’Unione degli Scienziati per il Disarmo, che concentra invece i propri interventi altamente specialistici prevalentemente contro la diffusione delle armi di distruzione di massa.
Anche questo tipo di intervento sta infatti riprendendo importanza di fronte all’evolversi della situazione internazionale, che vede sempre di più prospettarsi un nuovo bipolarismo nel quale il ruolo che era svolto dall’URSS potrebbe ora passare alla Cina[4]. In questo caso, si riproporrebbe un confronto tra schieramenti militari sostanzialmente equivalenti e di nuovo si verificherebbe la necessità di sviluppare una ricerca militare che possa portare a sostanziali innovazioni tecnologiche nei sistemi d’arma di distruzione di massa, capaci di sbloccare a favore dell’una o dell’altra parte un nuovo “equilibrio del terrore”. La ripresa degli studi e delle applicazioni dei sistemi antimissili, di quelli tendenti al controllo ed al monopolio delle orbite circumterrestri basse e lo sviluppo del “bombardiere spaziale” da parte degli USA[5], così come i sempre più ambiziosi programmi di ricerca spaziale cinesi sembrano indicare che questo processo sia già in atto.