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Obiettivo decrescita: tra utopia e realtà

Mauro Bonaiuti

Tutti abbiamo sempre più l’impressione di essere parte di un gioco più grande di noi, il cui controllo sfugge a tutti e a ognuno. Tutti noi avvertiamo, più o meno consapevolmente, il progressivo diffondersi di varie forme di malessere psicologico e sociale. In altre parole siamo sempre più consapevoli che, nonostante la crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL), dei consumi e dei redditi, il benessere sociale si va sempre più riducendo, anche all’interno delle nostre società “ricche” [1]. Ho chiamato questo paradosso “il paradosso del benessere”: fra le molte contraddizioni della società contemporanea questa è forse la più drammatica, perché ne pone in discussione il tratto dominante: il mito dello sviluppo. E la sua spina dorsale: la crescita economica illimitata.


La critica sociale allo sviluppo

A ben guardare, tutta la storia della modernità può essere letta come la storia di una grande espansione: militare, geografica, tecnico-scientifica, soprattutto economica. È la storia dello sviluppo, appunto, e ha raggiunto il suo culmine nel dopoguerra: sono gli anni del boom economico, della produzione di massa e del patto keynesiano tra capitale e lavoro. Sul fronte internazionale, a partire dal famoso discorso del Presidente Truman sullo stato dell’Unione del 1949, lo sviluppo è diventato la parola d’ordine con cui l’Occidente si presenta agli altri paesi, che non a caso diventano “paesi in via di sviluppo”. È così che la politica egemonica dell’Occidente viene mascherata dietro un colossale programma di emancipazione universale, con l’intero pianeta chiamato a seguire l’Occidente lungo le magnifiche sorti progressive della crescita e dello sviluppo [2].
Naturalmente non voglio negare i miglioramenti che si sono avuti nelle condizioni materiali di vita, almeno nei paesi Occidentali, in tutto questo periodo, ed in particolare nei così detti “trenta gloriosi”, gli anni che vanno cioè dal 1945 al 1975. Tuttavia, almeno a partire dagli anni Ottanta, è diventato sempre più evidente che, a dispetto delle pretese universaliste dell’Occidente, la ricetta dello sviluppo non è estensibile a tutti. Nello scenario globale ricchezza e benessere coesistono sempre più con un vasto panorama di esclusi dal banchetto della società di consumo. E, ancora, alla pattuglia dei radicalmente esclusi si affacciano all’interno dei paesi ricchi una pluralità di percorsi di disagio ed emarginazione: i “nuovi poveri” si contano ormai in oltre cento milioni tra Europa e Stati Uniti. Per quale motivo dunque la grande macchina dello sviluppo, il grande sogno occidentale di offrire condizioni di vita decenti ed in continuo miglioramento per l’intera umanità si è infranto?
Per quanto il quadro sia complesso credo si possa individuare una ragione di fondo. Il progresso tecnologico, e dunque la produttività, hanno raggiunto livelli tali che una minoranza è in grado di produrre tutto ciò di cui hanno bisogno le economie mondiali. Gli altri, i “naufraghi dello sviluppo” (sia singoli individui che interi stati nazione), sono incapaci di prendere parte a questo gioco poiché non sono sufficientemente efficienti e competitivi. Chi crederebbe oggi che il Bangladesh possa entrare nella corsa tecnologica, iniziando a produrre telefonini, computers o anche, più semplicemente, automobili, abbigliamento, servizi turistici a prezzi competitivi e con risorse proprie? Ormai si sa che questi paesi non hanno niente di interessante da fornirci, sono, per dirla con Latouche, «buoni per la demolizione». Oggi, quindi, nemmeno le tecnocrazie internazionali – dalla Banca Mondiale al Fondo Monetario Internazionale – hanno più il coraggio di parlare di sviluppo nei termini sopra accennati. Ed è per questo che, dalla fine degli anni Ottanta, fanno la loro comparsa le nuove formule di sviluppo “aggettivato”: si parla di sviluppo umano, di sviluppo durevole e soprattutto di sviluppo sostenibile. Questo però senza mai mettere in discussione i presupposti del mito e delle pratiche dello sviluppo: la fede incondizionata nel progresso tecnico, la massimizzazione dei profitti per le imprese e, soprattutto, la crescita illimitata della produzione e dei consumi, vera e propria spina dorsale di ogni politica di sviluppo. Se, come ha sottolineato H. Daly, siamo ben consapevoli che sviluppo e crescita non coincidono, tuttavia è mai esistita una forma di sviluppo senza crescita? Crediamo sia giunto il momento per uscire dall’ambiguità di queste formule, affermando con chiarezza che l’attuale processo di sviluppo non è sostenibile, né socialmente né ecologicamente. Abbiamo parlato di alcune delle contraddizioni che crescita e sviluppo creano sul piano sociale, soffermiamoci ora sulla questione ecologica.


L’insostenibilità ecologica

L’evidenza empirica che si è accumulata negli ultimi trent’anni è, a questo proposito, robusta e concorde: basta ricordare che l’impronta ecologica, ossia la superficie degli ecosistemi terrestri ed acquatici che serve a produrre le risorse consumate dalla popolazione umana, e ad assimilare i rifiuti, è negli USA circa 5 volte superiore alla disponibilità media del pianeta. In altre parole, se si estendessero a livello globale i consumi dell’americano medio, per sostenere questo stile di vita occorrerebbero circa cinque pianeti. I valori dei paesi europei sono circa due-tre volte superiori alla disponibilità media e bisogna anche considerare che la Cina ha, per adesso, un’impronta pro-capite oltre sei volte inferiore a quella americana [3].
Certo i dati possono sempre essere messi in discussione ma, ad uno sguardo d’insieme, mostrano con evidenza – a chi voglia leggerli senza pregiudizi – quanto il sistema produttivo globale sia già oggi insostenibile per la biosfera. Un passo in più: al di là delle cifre è necessario capire le ragioni profonde dell’insostenibilità ecologica dello sviluppo. I sistemi biologici e gli ecosistemi, a differenza del sistema economico, non tendono alla massimizzazione di alcuna variabile, sono al contrario soggetti a limiti invalicabili. Negli organismi viventi, un valore troppo grande di qualsiasi grandezza, come uno troppo piccolo, è sempre pericoloso: troppo ossigeno comporta la combustione dei tessuti, troppo poco conduce all’asfissia. Nel mondo biologico esistono quindi ovunque soglie che, per quanto flessibili e difficili da stabilire, non possono essere superate. Questo principio contrasta fortemente con gli assunti della teoria economica dominante, secondo la quale per i soggetti economici una quantità maggiore di un bene è sempre da preferire ad una quantità minore: a livello macroeconomico, quindi, nulla si oppone ad una crescita continua del reddito, dei consumi e della produzione, anzi questa crescita è ritenuta il primo, ed essenziale, obiettivo di ogni politica economica. Dobbiamo, poi, acquisire consapevolezza della natura entropica del processo economico: ogni attività produttiva comporta l’irreversibile degradazione di una certa quantità di materia ed energia. Poiché la biosfera è un sistema chiuso, che scambia energia ma non materia con l'ambiente, si arriva all’importante conclusione che la crescita illimitata della produzione e dei redditi – in quanto si basa sull’impiego di risorse energetiche e materiali non rinnovabili – è in contraddizione con le leggi fondamentali della termodinamica: esso pertanto va abbandonato o, comunque, radicalmente rivisto [4].


Verso una decrescita pacifica, sostenibile e conviviale

Se l’analisi che abbiamo svolto è corretta, non ci resta che abbandonare l’illusione dello sviluppo sostenibile ed iniziare a concepire, e ad osare, la decrescita. Decrescita è certamente una parola forte, e come tutte le parole forti suscita notevoli entusiasmi ma anche decise reazioni critiche. Perché, dunque, è stata scelta proprio questa parola? Se è vero che l’economico è il cuore dell’immaginario occidentale, e la crescita il totem dell’economia, è chiaro che parlare di decrescita significa innanzitutto mettere in discussione la centralità dell’economico nel nostro immaginario ed iniziare a pensare ad un’altra società. Va chiarito, tuttavia, che quello alla decrescita è essenzialmente un appello: non siamo fronte ad un modello compiuto, ad una ricetta “chiavi in mano”, ma piuttosto ad una matrice, ad una pluralità di vie per decostruire il pensiero unico e andare oltre la società della crescita. Come ogni appello ha il merito di esprimere la necessità e l’urgenza di un’inversione di rotta rispetto al paradigma dominante. Devo dire che molti hanno capito che dietro questo appello si nasconde la possibilità di un’alternativa reale, e la parola decrescita, nonostante la doccia fredda che produce, sta incontrando un grande successo.
Tuttavia riconosco che il termine decrescita si può prestare ad alcuni fraintendimenti. Ed è quindi bene chiarire subito cosa la decrescita certamente non è: non è un programma di riduzione dei consumi e della produzione masochistico-ascetico, attuato nell’ambito di un sistema economico e sociale immutato rispetto all’attuale. La decrescita non è semplicemente crescita negativa. È evidente, infatti, che una politica economica incentrata su una drastica riduzione dei consumi creerebbe, data l’attuale struttura del sistema produttivo e delle preferenze, una drammatica riduzione della domanda globale e un aumento significativo della disoccupazione e del disagio sociale. Non è questa, certo, la prospettiva che auspichiamo. Ma decrescita non significa neppure condannare i paesi del Sud del mondo ad un’ulteriore riduzione del reddito pro-capite. Per quanto la decrescita alluda, sul piano economico, ad una riduzione complessiva delle quantità fisiche prodotte e delle risorse impiegate, essa va intesa piuttosto come una complessiva trasformazione della nostra struttura sociale, economica e politica e dell’immaginario collettivo. Questo avendo come prospettiva un significativo aumento, non certo di una riduzione, del benessere sociale. Quale che siano le forme che la decrescita assumerà avrà sicuramente un carattere multidimensionale, ed è certo che ogni cultura, ogni territorio, la esprimerà in forme proprie e diverse. Per essere più chiari, possiamo individuare almeno quattro livelli sui quali agisce il processo di decrescita: quello immaginario, l’economico, il sociale e il politico. Tenterò ora di delineare alcuni di questi possibili processi di trasformazione, per ciascuno dei quattro livelli.


Ripensare l’immaginario collettivo

Poiché anche i valori hanno un carattere sistemico, come ha mostrato Castoriadis, le multinazionali, le tecnologie, le istituzioni – in altre parole le modalità concrete di produzione della ricchezza – determinano la nostra cultura ed i nostri valori, non meno di quanto siano da questi condizionate. È ovviamente necessario proporre nuovi valori, alternativi a quelli dominanti: la cooperazione al posto della competizione sfrenata, la reciprocità al posto dell’ egoismo e della massimizzazione dei profitti, la qualità della vita al posto dell’efficienza, la partecipazione al posto dell’eteronomia; ma deve essere chiaro che non sarà possibile giungere ad una trasformazione ampia e diffusa dei valori senza modificare le condizioni sociali di produzione della ricchezza. Questo aspetto deve essere tenuto in particolare considerazione da chi, impegnato nei movimenti e nelle associazioni per il consumo critico e il cambiamento degli stili di vita, si illude che il solo agire sui modelli di consumo consenta di trasformare le ferree leggi dell’economia capitalista. D’altro canto il fallimento delle esperienze del socialismo reale ci mostra che non è possibile costruire un’ autentica società autonoma e conviviale senza uscire dall’immaginario della crescita e dall’utilitarismo economicista che le è proprio. In conclusione, in una prospettiva sistemica, l’eterno domandarsi se debbano cambiare prima le strutture economiche o prima l’immaginario collettivo serve solo a ritardare il cambiamento. E’ evidente che entrambi sono necessari e che le une accompagnano, e sostengono, la trasformazione dell’altro, e viceversa.


Perché piccolo è …bello

A livello economico decrescita significa innanzitutto riduzione delle dimensioni (della scala) dei grandi apparati produttivi (le imprese trans-nazionali) e, più in generale, delle grandi organizzazioni, tecnocrazie, sistemi di trasporto, cura, svago, ecc. Il cammino verso un sistema economico e sociale sostenibile non potrà avviarsi seriamente sino a quando non si diverrà consapevoli che la maggior parte delle risorse e del lavoro sono oggi impiegate non per produrre benessere, ma per alimentare le tecnostrutture stesse. Più alto è il grado di complessità, maggiore è l’entropia, maggiori sono le risorse che queste megamacchine divorano semplicemente per autoconservarsi. Poiché le dimensioni delle imprese sono inscindibilmente connesse alle dimensioni dei mercati, questo significa spostare il baricentro dell’economia dai mercati globali a quelli regionali e locali. In altre parole, rilocalizzare l’economia. È chiaro ormai che solamente ripensando radicalmente l’economia potremo risolvere la crisi ecologica.


Vivere più semplicemente, perché agli altri sia semplicemente consentito di vivere

Il terzo livello, o terza via della decrescita, è quello della dimensione dell’equità, della giustizia e della pace; in altre parole di quella che possiamo definire la sostenibilità sociale. Attraverso quale processo la decrescita può favorire il prevalere di relazioni pacifiche tra gli esseri umani? Anche qui la storia può fornirci indicazioni importanti, insegnandoci che una civiltà fondata sull’espansione è incompatibile con la conservazione della pace. La biologia e l’antropologia ci mostrano poi che comportamenti particolarmente aggressivi e competitivi possono favorire la specie in contesti espansivi, ma che in contesti non espansivi – quali quelli a cui ci stiamo necessariamente avvicinando data una biosfera ormai pressoché interamente colonizzata – sono i comportamenti cooperativi a risultare premianti. La decrescita, cioè la riorganizzazione del processo economico secondo modalità non predatorie, in particolare delle risorse possedute da altre società, è la premessa indispensabile per non fare della guerra l’unico possibile esito dei conflitti. Se questo è vero a livello “macro”, nei rapporti tra le società, cosa può favorire l’affermarsi di un’economia più giusta a livello “micro”? La mia idea è che la decrescita, attraverso il progressivo aumentare della domanda di beni relazionali, favorisca la sostenibilità sociale ed ecologica: è la via dell’economia sociale e solidale.


Autonomia, convivialità e partecipazione

Il quarto livello è quello che possiamo definire degli assetti politici. La decrescita, grazie alla riduzione delle dimensioni delle imprese, delle istituzioni e dei mercati, valorizza la dimensione locale, favorendo l’affermarsi di forme politiche partecipate e conviviali. Il termine conviviale, nell’accezione di I. Illich, oltre ad alludere al piacere del vivere assieme, indica una forma di organizzazione sociale e del lavoro che consente l’autonomia di ciascun lavoratore, intesa come potere di controllo sulle risorse e sui programmi. In altre parole, conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare la tecnologia per realizzare le proprie intenzioni. Convivialità, secondo Illich, è dunque sinonimo di partecipazione: partecipazione, innanzitutto, alla definizione delle modalità di produzione della ricchezza, e quindi al controllo democratico della tecnologia. La partecipazione a forme di organizzazione del lavoro maggiormente conviviali consentirebbe al lavoratore di migliorare il proprio benessere, liberandolo dagli ingranaggi della megamacchina tecno-scientifica che domina il mercato globale. Si tratterebbe cioè di offrire a sempre più persone una migliore qualità di vita all’interno di organizzazioni non disumanizzanti, ma semmai portatrici di senso, che consentano di aumentare di tempo libero, di ridurre lo stress e l’alienazione, e permettano di definire le forme e le finalità del processo economico. Questa riappropriazione delle principali attività umane, lavoro, scambio, salute e sapere – e delle relative istituzioni, impresa, mercato, organizzazione sanitaria, la scuola ecc. – sarebbe certamente favorita in una società di decrescita, una società cioè, in cui le dimensioni delle organizzazioni siano tali da rendere pensabili forme di controllo da parte di coloro che vi prendono parte.
Si può ora comprendere come la decrescita rappresenti la sola risposta coerente al paradosso del benessere indicato in apertura. Solo raggiungendo la piena consapevolezza che la crescita e lo sviluppo non sono la soluzione del nostro malessere, come vorrebbero gli apologeti del pensiero unico, ma rappresentano piuttosto il problema, la causa, potremo finalmente uscire dall’ingranaggio e costruire una nuova prospettiva.

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[1] Per un confronto tra andamento di PIL e benessere sociale, così come valutato dall’Indice di Progresso Genuino (GPI) si veda il sito “Redefining Progress”:
http://redefiningprogress.org/newprograms/sustIndi/gpi/index.shtml.
Su questo paradosso si è sviluppata una recente letteratura: cfr. B.S. FREY – A. STUTZER, Happiness and Economics. How the Economy and Institutions Affect Well-being, Princeton University Press, Princeton, New Jersey, 2002; E. DIENER – R. BISWAS-DIENER, Will Money Increase Subjective Well-being?, “Social Indicator Research”, v. 57, n. 2, 2002, pp. 119-169. In italiano vedi anche la raccolta di testi a cura di L. BRUNI – P. L. PORTA, Felicità ed economia, Guerini e Associati, Milano 2004.
[2] G. RIST, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino 1997.
[3] Cfr. N. CHAMBERS – C. SIMMONS – M. WACKERNAGEL, Manuale delle impronte ecologiche, Ed. Ambiente, Milano 2002.
[4] N. GEORGESCU-ROEGEN, Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
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