Quale futuro per le Nazioni Unite?
“Le Nazioni Unite sono morte”. Una volta dopo l'altra. Soltanto nell'ultimo decennio abbiamo ascoltato questa fosca affermazione durante l'assedio di Sarajevo, mentre si perpetuava il genocidio in Ruanda, quando la Nato ha iniziato i bombardamenti in Serbia, quando George W. Bush jr e Tony Blair hanno sferrato l'attacco all'Iraq, al susseguirsi di ogni attentato terroristico. La morte delle Nazioni Unite, inoltre, è stata proclamata con rabbia e disperazione dai gruppi che hanno subito soprusi e richiesto protezione senza ottenerla: separatisti ceceni e movimenti di liberazione africani, minoranze Kashmir e Tamil, popoli senza stato nel Kurdistan e in Palestina.
C'è oramai quasi un gusto perverso nel decretare la morte delle Nazioni Unite. Forse perché, finita la Guerra Fredda, ci si aspettava che l'Onu potesse diventare un centro di potere assai più importante nella politica mondiale. Per decenni l'Organizzazione era stata paralizzata dai veti, formali e sostanziali, delle super-potenze. Le scelte decisive venivano prese in vertici segreti nei quali Krusciov e Kennedy, Breznev e Nixon, Gorbaciov e Reagan ridisegnavano i confini del mondo.
Scomparso il “pericolo rosso”, componenti importanti dell'opinione pubblica mondiale hanno posto fiducia in un progetto fin troppo ambizioso: quello di far diventare le Nazioni Unite l'istituzione centrale della vita internazionale, colmando l'insostenibile divario attuale tra i compiti assegnati all'Organizzazione e il suo potere effettivo. E la parola magica “democrazia” è stata spesa anche per un'istituzione che per anni era stata dominata dalla diplomazia.
Superata la fase del duello bipolare, si poteva sperare che l'arida saggezza realista si rivolgesse verso progetti di cooperazione controllata e che il vincitore, l'Occidente liberale dominato dagli Stati Uniti, compisse una decisiva sterzata politica. Dopo tutto, le organizzazioni internazionali – la Società delle Nazioni prima e le Nazioni Unite poi – sono stato il frutto del sogno di uomini politici americani come Woodrow Wilson e Franklin Delano Roosevelt, desiderosi di espandere il proprio sistema costituzionale nel pianeta.
Queste speranze si sono concentrate in questi anni su una serie di commissioni di esperti, nate con il compito di elaborare prospettive multi-laterali compatibili con gli interessi politici ed economici dell'Occidente, ma senza andare necessariamente a discapito del resto del pianeta. Uomini politici in pensione hanno riempito le proprie giornate viaggiando da una Commissione indipendente all'altra, rilanciando, nella loro nuova funzione, quelle proposte audaci che avevano regolarmente insabbiato quando erano in carica.
Non sono mancati, naturalmente, coloro che, con sottili argomenti teorici, facevano notare che tali speranze erano mal riposte. Perché gli stati usciti vincitori dalla Guerra Fredda avrebbero dovuto essere così altruisti da rinunciare al bottino di guerra? Il bipolarismo si era improvvisamente trasformato in uni-polarismo, e non c'era ragione di pensare che chi aveva in mano le leve del potere avrebbe altruisticamente optato per condividerle con altri. La teoria dominante delle relazioni internazionali, il realismo, sostiene a chiare lettere che gli interessi dominano le azioni degli stati, e che il multilateralismo può rientrare negli interessi degli stati più potenti solamente se è a servizio del loro tornaconto.
Di fatto, le proposte avanzate dalle varie commissioni di esperti sono rimaste per la maggior parte inascoltate. Veniva insomma confermato che i grandi progetti sono di competenza esclusiva di pazzi sognatori o di politici bocciati. L'ha imparato sulla propria pelle lo stesso Boutros Boutros-Ghali, che quando ha tentato di affermare un ruolo più incisivo per l'Onu, addirittura codificato in tre Agende (dedicate, rispettivamente, alla pace, allo sviluppo e alla democratizzazione), si è visto – per la prima volta nella storia dell'Organizzazione – non rinnovare il mandato di Segretario Generale per il veto posto da Bill Clinton. Quando gli si chiedeva perché aveva perso la sua poltrona, Boutros Boutros-Ghali notava con sofferta ironia: «io volevo fare il Generale, e loro volevano solo un Segretario».
Ma il fatto che tanti autorevoli statisti si siano dedicati all'industria della “Global Governance” testimonia che non era interamente insensato sperare in una riforma radicale del sistema internazionale. è vero che dopo la caduta dell'Impero Romano non era mai successo che una sola potenza mondiale avesse accentrato tanto potere politico, economico, culturale e, in ultima analisi, militare. Ma tanta potenza poteva essere utilizzata sia per servire interessi circoscritti quanto per far spiccare il volo a un sistema mondiale dominato dai valori e dalle procedure della democrazia occidentale. Antonio Gramsci ha insegnato che la supremazia non si fonda solo sul “bastone” (il dominio esercitato attraverso gli apparati coercitivi), ma anche sulla “carota” (l'egemonia fondata sulla direzione intellettuale e morale). Abbiamo visto che finora è prevalsa la legge del “bastone”.
Non è stato l'11 settembre a porre la parola “fine” a queste speranze. Il gigante ferito poteva usare quella immane tragedia in due direzioni contrapposte: poteva diventare il paladino del nuovo ordine mondiale, la vittima che accetta la sofferenza piuttosto che infliggerla e che, proprio per questo, è credibile come guida soft power della politica mondiale. Sappiamo invece che ha prevalso la scelta contraria dell'hard power: le guerre spettacolari in Afghanistan e in Iraq hanno dimostrato che, sotto l'amministrazione Bush, i vecchi mezzi utilizzati durante la guerra del Vietnam potevano essere riproposti anche in un'epoca in cui erano spariti i rivali. Il mito di Charles Bronson ha avuto la meglio su quello di Perry Mason. Le Nazioni Unite, così bisognose di trovare un campione, sono state ferite e umiliate ancora.
Il progetto neo-cons
Ma neppure gli Stati Uniti di George Bush jr. sono riusciti a eludere interamente il ruolo delle Nazioni Unite. Prova ne è che, prima di invadere l'Iraq, il Segretario di Stato si sia dovuto recare, e a più riprese, al Consiglio di Sicurezza per sostenere le ragioni del suo governo. Tutte le televisioni del mondo hanno fatto vedere Powell che esibiva le foto con i camion delle presunte armi di distruzione di massa. Non era mai successo in passato che uno stato sentisse il bisogno di giustificare apertamente le sue azioni di fronte all'organo mondiale che ne ha competenza legale. Le sale dell'Onu sono state sotto i riflettori proprio nel momento in cui l'Organizzazione era umiliata e resa irrilevante.
La tesi dei neo-cons americani è, del resto, assai chiara: le Nazioni Unite possono avere una funzione solo ed esclusivamente qualora non ci sia un divario troppo palese tra potere reale, così saldamente nelle mani degli Stati Uniti, e costruzione legale. Da qui l'idea che qualsiasi cambiamento di rotta nell'Organizzazione debba avvicinare le due realtà, e rendere l'Onu più vicina alla politica di Washington. Uno smacco come quello subito dal governo americano quando il Consiglio di sicurezza si è rifiutato di avallare l'invasione dell'Iraq, insomma, non si deve più ripetere.
Per rendere ancor più chiara la propria politica, il Presidente americano ha indicato due nomine indigeste: quella di Paul Wolfowitz a Presidente della Banca Mondiale e quella di John Bolton ad Ambasciatore presso il Palazzo di vetro. Due falchi in tutto e per tutto: Wolfowitz, vice di Donald Rumsfeld, si è distinto come uno dei principali architetti della guerra all'Iraq, Bolton per le espressioni offensive rivolte alle Nazioni Unite e ad altre istituzioni multilaterali. La nomina del primo è stata accettata, addirittura all'unanimità, dal Board of Directors della Banca, manifestando così la resa di tutti i governi al volere di Washington. La seconda è stata più contestata (anche da alcuni senatori repubblicani) e ha costretto Bush a farla passare di straforo approfittando delle vacanze estive del Senato. Confrontando le due vicende, si evince che i controlli e i contrappesi interni alla vasta America sono ancora oggi più efficaci di quelli che si riescono a porre dall'esterno.
È qui il nocciolo del problema: da una parte, è impensabile che qualsiasi cambiamento, formale o sostanziale, alle Nazioni Unite sia fatto senza la volontà del governo americano. Non si può prescindere dalla super potenza mondiale, paese che ospita la sede principale dell'Onu a New York, e che contribuisce, da solo, per poco meno di un quarto del bilancio ordinario dell'Organizzazione. Dall'altra, le azioni intraprese dal governo americano non possono prescindere da una complessa rete di controlli e contrappesi interni. E, nonostante la guerra, l'opinione pubblica americana continua a preferire soluzioni multilateraliste piuttosto che unilateraliste. Ma tali visioni sono più passive che attive, e in molti casi i cittadini degli Stati Uniti non si sentono motivati a favore del multilateralismo come invece si sentono per le questioni politiche interne. Forse il futuro delle Nazioni Unite risiede proprio nella capacità di risvegliare questa opinione pubblica e farle amare di nuovo il vecchio sogno di Roosevelt, malgrado o forse proprio a motivo dell'11 settembre.
Sarebbe stato assai difficile far accettare all'opinione pubblica americana una guerra a miglia e miglia di distanza evocando solamente la sicurezza e l'interesse nazionale. La nuova dottrina americana si è auto-investita della difesa dei valori supremi della democrazia e della libertà. Nello stesso Partito Repubblicano, la vecchia ideologia pragmatica di Henry Kissinger è stata ripudiata a favore di un messianesimo che enfatizza i valori. La “diplomazia trasformativa” dell'amministrazione Bush mira a promuovere, anche con mezzi militari, le condizioni istituzionali dove regimi democratici, regole del diritto e mercato possano svilupparsi. In gran parte, si tratta di un cambiamento meramente linguistico, mentre continuano imperterriti i sostegni a regimi dittatoriali ma fedeli all'amico americano (è il caso, ad esempio, dell'Arabia Saudita).
Ma l'ideologia nasconde spesso paradossi. Washington si indigna sempre più frequentemente contro la mancanza di democrazia in altri stati (sempre scelti tra i nemici) e poi si oppone a ogni azione che possa aumentare il livello di democraticità nelle organizzazioni internazionali. Giustizia penale internazionale, controllo nel commercio degli armamenti, coinvolgimento delle organizzazioni non governative e accordi ambientali sono tutte aree percepite dal governo Usa come minacce alle quali opporsi. A meno che non siano loro a stabilire chi giudicare, a chi vendere armi, quali associazioni ammettere e quanto inquinare. Non sorprende dunque che, finora, le grandi speranze siano state smentite.
Progetti riformisti per il Palazzo di vetro
Malgrado i fallimenti dei vari processi di riforma che hanno accompagnato la vita dell'Organizzazione sin dalla nascita, le proposte di revisione della struttura delle Nazioni Unite continuano ad animare i dibattiti delle cancellerie e delle organizzazioni della società civile in tutto il mondo. Anche la 60a Assemblea Generale delle Nazioni Unite del settembre 2005 ha mostrato che Washington può bloccare ogni decisione. L'Ambasciatore Bolton, appena arrivato, è riuscito a stravolgere l'agenda dell'Assemblea Generale, ottenendo una risoluzione ai minimi termini.
Il punto rimane però chiaro. Sostenere oggi la riforma democratica delle Nazioni Unite serve a scopi che vanno ben al di là della mera funzionalità: c'è un processo di democratizzazione da avviare nelle organizzazioni internazionali importante almeno quanto la democratizzazione interna agli stati stessi; i due processi non possono che influenzarsi reciprocamente. Allo stesso tempo, tale riforma democratica indica una strategia politica: piuttosto che forzare i paesi poveri ad abbracciare il credo democratico tramite bombardamenti aerei, può esistere un consesso di popoli liberi che sono disposti ad accogliere e ad aiutare i popoli che si indirizzano verso l'auto-governo e la tolleranza. Ma per diffondere questo messaggio ai popoli desiderosi di conseguire libertà e democrazia, occorre un cambiamento radicale nel panorama mondiale: si tratta di mostrare che le regole del sistema internazionale non sono imposte da un solo stato, ma sono concordate ascoltando la voce di tutti. E non c'è luogo migliore del Palazzo di Vetro per farlo.
Per quanto riguarda il Consiglio di Sicurezza, il recente rapporto del Segretario generale raccomanda l'aumento dei membri per rendere maggiormente rappresentativo il Consiglio[1].Proposte più ambiziose provenienti dalla società civile e dall'Internazionale Socialista[2]tendono, invece, a una limitazione immediata del potere di veto ad aree predeterminate, per giungere alla sua progressiva eliminazione nel futuro. Si auspica inoltre l'apertura alle organizzazioni regionali, la creazione di un Consiglio di Sicurezza “ombra”, un più stretto legame con la Corte di Giustizia Internazionale e il riconoscimento dello status consultivo permanente delle Organizzazioni non-governative (Ong). L'esperienza degli ultimi quindici anni insegna, tuttavia, che tra tutte le azioni di riforma quella del Consiglio di sicurezza ha meno possibilità di essere approvata, perché schiava delle inevitabili rivalità tra gli stati membri (si pensi, ad esempio, al teso rapporto tra Cina, membro permanente, e Giappone, che aspira a tale status). Sarebbe dunque riduttivo focalizzarsi esclusivamente su questa proposta, senza prendere in considerazione tutti gli altri aspetti dell'Organizzazione che hanno anch'essi bisogno di radicali cambiamenti.
E' il caso, ad esempio, del Consiglio Economico e Sociale. L'Internazionale Socialista ha opportunamente sollevato la questione, proponendo una doppia azione riformatrice[3].Nell'immediato si raccomanda di rafforzare il ruolo del Consiglio come coordinatore tra le varie istituzioni economiche internazionali. Nel lungo periodo, invece, si caldeggia la creazione di un nuovo Consiglio Economico, Sociale e Ambientale con status politico pari al Consiglio di Sicurezza. Tale rinnovato Consiglio dovrebbe avere mandato di coordinamento strategico e di valutazione delle prestazioni delle agenzie specializzate, di supervisione dei beni pubblici globali e di gestione non solo dei problemi economici e sociali, ma anche di quelli dell'ambiente, dello sviluppo e del debito. Dovrebbe infine essere dotato di maggiori risorse economiche e aprirsi sia alle rappresentanze regionali, sia agli attori della società civile.
Altro punto controverso del progetto di riforma all'ordine del giorno riguarda l'intervento umanitario. In troppe occasioni, la mancanza di una solida struttura istituzionale nell'ambito Onu per affrontare i problemi umanitari ha determinato l'azione di comportamenti individuali degli stati, sempre in bilico tra un altruistico intervento umanitario e il proprio interesse strategico. In altre occasioni – è il caso del Ruanda – l'assenza di strumenti ha fatto sì che le Nazioni Unite optassero per il non intervento. La nozione di Responsibility to Protect, responsabilità internazionale a garanzia dei diritti umani, rappresenta oggi un nodo fondamentale nella discussione sul mandato dell'Onu. Come, perché, quando, e chi può e deve intervenire in futuro nei casi di violazioni sistematiche dei diritti umani come i genocidi? Possono le Nazioni Unite svolgere tempestivamente ed efficacemente la funzione d'intervento umanitario? Sono queste le questioni che animano il recente rapporto dell'High-Level Panel on Threats, Challenges and Change[4]e quello del Segretario generale, nel quale viene anche proposta la creazione di una Peacebuilding Commission intergovernativa[5].
Oltre ai temi cruciali finora elencati, va inevitabilmente aggiunto quello dell'Assemblea generale (AG). È innegabile, infatti, che qualsiasi riforma dell'Onu in senso democratico non possa prescindere dalla revisione della struttura dell'AG verso una maggiore inclusione di tre tipologie di agenti internazionali: Ong, organizzazioni regionali, e multinazionali. Oltre ad esser stato riconosciuto da voci autorevoli tra le quali l'ex Segretario Generale Boutros-Ghali, l'attuale Segretario Kofi Annan e l'High-Level Panel on UN-Civil Society presieduto da Fernando Enrique Cardoso[6], questo aumento della partecipazione è già stato sperimentato in alcuni eventi recenti. Tra le varie proposte che ambiscono a colmare questo deficit di rappresentanza, tre si segnalano come più innovative. Da un lato si raccomanda che i delegati governativi siano nominati sia nel governo sia nell'opposizione di ciascun paese, seguendo il modello della rappresentanza triplice già adottato presso l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (governo, sindacati e imprese). Dall'altro si suggerisce di creare meccanismi di rappresentanza in cui i parlamentari nazionali possano partecipare ai lavori dell'Onu, oppure si auspica che ci siano elezioni dirette dei rappresentanti nazionali all'Onu secondo un metodo di proporzionalità rispetto alla popolazione di ogni singolo stato (una testa – un voto contro uno stato – un voto). Una terza soluzione caldeggiata da molti attivisti della società civile consiste, infine, nella creazione di un'“Assemblea dei Popoli” che affianchi l'AG e in cui siano rappresentati le Ong, gli enti locali e, più in generale, la società civile. Sono queste proposte che, sebbene ancora lontane dal riscuotere un'adeguata risposta ai massimi livelli, stanno facendo sempre più strada nei circoli politici dei diversi paesi.
Il Segretario Annan ha auspicato, fin dal novembre del 2003, la creazione di un'agenzia dell'Onu specificamente dedicata alla migrazione e ha convocato un High-Level Dialogue on International Migration and Development. In questo senso, un Organizzazione Mondiale della Migrazione rappresenterebbe lo sbocco ideale per aumentare la cooperazione internazionale e assicurare un regime migratorio umano ed efficace.
Qualcosa, per fortuna, si muove anche nella palude diplomatica che domina la vita dell'ONU: il 15 marzo scorso, la vecchia Commissione per i diritti umani è stata finalmente trasformata in un Consiglio dei diritti umani, diventando organo sussidiario dell'Assemblea generale. Finalmente, gli stati che verranno eletti nel Consiglio dovranno provare di essere capaci, come minimo, di rispettare i diritti umani a casa propria; in caso contrario, l'AG potrà addirittura sospenderli dalle funzioni nel Consiglio.
L'Italia e l'Europa
Per quanto riguarda il ruolo del nostro paese e dell'Unione Europea in tale processo di riforma, si auspica una politica estera che dia vigore ad un multilateralismo fondato sul dialogo e la legittimità. L'Italia e l'Europa possono avere un ruolo cruciale. Il nuovo governo del paese dovrebbe diventare un campione di cosmopolitismo, anche tramite il sostegno ad una riforma democratica. L'Italia ha già avuto un ruolo di primo piano nell'istituzione della Corte Penale Internazionale (1998), e nell'approvazione del Trattato per la messa al bando delle mine anti-persona (1997). In entrambi i casi, il governo italiano ha lavorato in stretto contatto con i governi di altri paesi, in Europa e nel mondo, e si è avvalso della collaborazione di esperti della società civile e delle organizzazioni non governative. Ciò ha consentito una mobilitazione dell'opinione pubblica mondiale su obiettivi discreti e raggiungibili. Occorre rivitalizzare in questa direzione l'azione della diplomazia italiana.
Ma l'Italia può anche diventare, in aree specifiche, un caso esemplare di “buon cittadino” delle Nazioni Unite. Ad esempio, potrebbe essere tra i primi paesi del mondo a far eleggere direttamente dal proprio pubblico almeno uno degli ambasciatori presso il Palazzo di Vetro. Potrebbe anche predisporre una forza permanente di soldati (circa 5.000) addestrati per operazioni di peace-keeping e per intervento umanitario, rendendoli disponibili come caschi blu su richiesta del Segretario Generale. Se poi l'Italia associasse a questi soldati un numero pari di “caschi bianchi” (ossia operatori quali medici, infermieri, insegnanti, assistenti sociali) sarebbe il primo paese del mondo a mettere in campo una forza mista militare e civile per garantire la pace e la sicurezza.
Parallelamente all'Italia, l'Europa rimane il candidato naturale per incoraggiare un radicale cambiamento di prospettiva nel processo di riforma delle Nazioni Unite. Il difficile esperimento in corso di democrazia europea è sempre più un esempio istituzionale per molte altre macro-regioni nel mondo. In quanto attore di natura transnazionale, l'EU è dunque storicamente e strutturalmente meglio predisposta a prospettare una riforma che vada nella direzione del multilateralismo a sostegno della pace, democrazia e prosperità. Oltre a tale predisposizione, l'EU è anche sempre di più nella posizione di poter svolgere un ruolo cruciale in tale riforma, essendo il maggiore finanziatore del budget regolare dell'ONU (38%), avendo due membri permanenti con potere di veto e tre eletti nel Consiglio di Sicurezza (1/3 del totale) e un totale di venticinque voti nell'Assemblea Generale.
L'Unione Europea nella recente 60a Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dimostrato di poter svolgere un ruolo importante sia come voce progressista autonoma sia come mediatore tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Se si esclude la spinosa questione del Consiglio di sicurezza, l'EU si è presentata compatta con un'unica voce all'Assemblea ed è riuscita a sostenere alcune importanti proposte sui temi dello sviluppo, dell'uso di forze civili nella gestione dei conflitti, della difesa dei diritti umani e della riforma istituzionale interna. Malgrado le divisioni interne, in special modo quelle tra governi più schierati con Washington, sembra che l'Europa possa dunque esprimere una strategia comune per quanto riguarda le Nazioni Unite più di quanto accada per i singoli aspetti di politica estera. Per questo e altri motivi, pur non avendo alcun interesse ad agire come avversario nei confronti degli Stati Uniti, il vecchio continente dovrebbe svolgere il ruolo di potenza equilibratrice nei confronti delle forzature egemoniche che animano l'attuale leadership americana.
Da dove cominciare?
Al di là dei singoli temi appena passati in rassegna, quale strategia complessiva si dovrebbe adottare per una riforma democratica del sistema internazionale, in primis dell'Onu? La prospettiva che qui si auspica è genuinamente politica e multilateralista. Vanno rifiutate sia la prospettiva anti-sistemica, di totale opposizione a qualsiasi coordinamento delle politiche internazionali che porta direttamente ad affossare l'Onu, sia quella assai più insidiosa della tecnocrazia, che ridurrebbe l'ONU ad un mero segretariato tecnico, un passacarte delle decisioni dei governi più importanti. Escluse queste due pericolose alternative e il semplice stallo nello status quo, non rimane che la prospettiva sanamente riformista, secondo la quale le Nazioni Unite debbano ancora oggi essere viste come la sede istituzionale più importante della politica mondiale[7]. Questa prospettiva non è ignara dei limiti attuali dell'Organizzazione, e ha ben presente gli ostacoli istituzionali e formali; ma si basa su alcuni valori fondamentali della democrazia presenti nell'Organizzazione, e invece assenti nella pratica diplomatica.
L'esperienza degli ultimi quindici anni mostra chiaramente che gli stati democratici non sono più propensi di quelli autoritari a rispettare la legalità, e tanto meno a introdurre modifiche democratiche nelle regole del sistema internazionale. Il paradosso è che gli stati democratici (a cominciare dagli Stati Uniti) non sono affatto più ligi nel sottoscrivere accordi internazionali, né nel rispettarne i precetti. Si crea così una situazione insostenibile nella quale gli stati democratici definiscono le norme del diritto internazionale per farle rispettare solamente agli stati più deboli (spesso non democratici). Rivitalizzare le Nazioni Unite significa dunque richiedere agli stati democratici di espandere le norme del diritto e di applicarle nell'ambito dell'unico sistema giuridico condiviso.
I magnifici progetti di riforma delle Nazioni Unite presentati nel 1995, in occasione del 50° anniversario, sono stati ignorati. I cambiamenti attesi per il nuovo millennio sono evaporati. Ugualmente deludente quanto conseguito nel settembre scorso in occasione del 60° compleanno. È lecito chiedersi se le prospettive di riforma che abbiamo brevemente passato in rassegna sono destinate a rimanere una pia consolazione per anime belle, una sorta di tributo che gli attori politici enunciano sapendo in anticipo che non se ne farà nulla, o meno. Se si guarda la natura delle proposte e, soprattutto, le istituzioni che le sostengono, si nota che i temi avanzati poco più di un decennio fa da sparuti gruppi di “sognatori” o “super tecnici” sono oggi stati fatti propri da istituzioni ben più autorevoli[8].La riforma delle Nazioni Unite, insomma, non è più un tema affrontato solo con il gregoriano dei corpi diplomatici: il linguaggio e le proposte avanzate da movimenti globali visionari ha contaminato tutto l'establishment. Ma questo, purtroppo, non significa che cambiamenti sostanziali siano più prossimi.
Le delusioni del passato inducono a scegliere la strategia dei piccoli passi, delle riforme specifiche come quelle relative alla Corte Penale Internazionale, al Trattato per la messa al bando delle mine anti-persona e al recentissimo Consiglio dei diritti umani. Ma qualunque di queste riforme resterà lettera morta in assenza di attori politici intenzionati a promuoverle. L'esplicito sostegno del Segretario Generale non basta. I governi del G5 sono quasi inevitabilmente propensi a un atteggiamento conservatore a difesa dello status quo. Eccezione a ciò è chiaramente offerta da alcuni settori della politica americana, che vedono nella riforma dell'Onu un possibile moltiplicatore degli interessi nazionali. Spinte al cambiamento verso un maggior grado di democraticità istituzionale devono quindi provenire da altri attori politici, magari coalizzati.
L'esperienza recente mostra che cambiamenti normativi a livello internazionale sono possibili solo a patto che si riesca a instaurare una coalizione mista tra governi dei paesi non-G5 e società civile transnazionale[9].Mentre i primi ambiscono a ridurre il loro grado subalterno all'interno dell'Organizzazione, la società civile ha obiettivi più genuinamente democratici, declinati attraverso progetti di maggiore inclusione dei soggetti politici non tradizionali all'interno della vita istituzionale.
In questo senso le campagne della società civile sono una condizione senz'altro importante, ma non sufficiente per produrre cambiamenti istituzionali a livello internazionale. Occorre dunque trovare degli ancoraggi fermi in governi disposti a sostenere queste iniziative. Una sponda attiva sul fronte della riforma dell'Onu è sicuramente l'Internazionale Socialista, la quale si è espressa in tal senso e ha incoraggiato i governi capeggiati da partiti che ad essa si richiamano a sostenere effettivamente tali proposte. L'ex Segretario stesso dell'Internazionale Socialista, Antonio Gutierrez, si è personalmente speso nella campagna Reclaim Our UN promossa dall'italiana Tavola della Pace, accolta con favore dal governo brasiliano di Ignacio Lula da Silva, e inserita all'interno delle iniziative del World Social Forum. Il governo spagnolo di Rodriguez Zapatero, tramite l'iniziativa per una Alleanza tra Civiltà, sta facendo la sua parte. C'è da sperare che gli altri governi europei seguano la stessa strada.
Ma soprattutto, c'è da sperare che una vibrante opinione pubblica in Europa e nel mondo abbia anche il salutare effetto di dare la sveglia ad un popolo americano che ha troppo spesso dato ascolto alle sirene di chi gli ha promesso un nuovo Impero.
Nel 1840, il pacifista americano William Ladd avanzò alcune lungimiranti proposte, come la creazione di un Congresso delle Nazioni con funzioni legislative e una Corte internazionale con funzioni giudiziarie. Le Nazioni Unite e la Corte Internazionale di Giustizia sono approssimazioni molto vicine a quelle proposte. Ladd sosteneva che le condizioni per un governo esecutivo mondiale non fossero ancora date e che tale funzione dovesse essere lasciata nelle mani dell'opinione pubblica mondiale, che chiamava ottimisticamente «la Regina del mondo». Per troppe decadi la Regina è rimasta addormentata, ma ultimamente ha dato segni di risveglio. È tempo ormai che riprenda il posto che merita negli affari internazionali.
Proposte riformatrici delle Nazioni Unite
Nella vasta letteratura dedicata alla riforma delle Nazioni Unite, indichiamo di seguito i documenti che più si sono tenuti presenti.
1. Il Rapporto presentato dal Segretario Generale Kofi Annan alla 60a Assemblea Generale dell'ONU (In Larger Freedom. Toward Development, Security and Human Rights for All, New York, A/59/2005, United Nations): http://www.un.org/largerfreedom/.
2. Le Proposte dell'High Level Panel on Threats, Challenges and Change istituito dal Segretario Generale dell'ONU Kofi Annan, composto da 16 membri e presieduto dall'ex Primo Ministro tailandese Anand Panyarachun (A More Secure World: Our Shared Responsibility, New York 2004, United Nations): http://www.un.org/secureworld/.
3. Il Rapporto dell'High-Level Panel on UN-Civil Society istituito dal Segretario Generale dell'ONU Kofi Annan, composto da 12 membri e presieduto dall'ex Presidente brasiliano Fernando Enrique Cardoso (We the Peoples: Civil Society, the United Nations and Global Governance, A/58/817, 2004, United Nations): http://www.un.org/reform/panel.html.
4. Il Rapporto della Commission for Global Governance, presieduta da Carlsson, Ingvar and Ramphal, Shridath (Our Global Neighbourhood, Oxford University Press, 1995).
5. Il Rapporto dell'ex Segretario Generale dell'ONU Boutros Boutros-Ghali (An Agenda for Democratization, Blackwell, 1996).
6. Il Position Paper dell'Internazionale Socialista, che ha, tra l'altro, fatto appello ai partiti membri al governo di sostenere tali proposte presso la stessa ONU (Reforming the United Nations for a New Global Agenda, Socialist International, 2005):
http://www.socialistinternational.org/6Meetings/Council/
MidEast-May05/Documents/English/UNReform-E.doc.
7. Il Rapporto del South Centre (What UN for the 21st Century? A New North South Divide, Doha, 2005):
http://www.southcentre.org/publications/whatUN/WhatUN.pdf.
8. Il Rapporto del World Federalist Movement-Istitute for Global Policy (A Call for International Democracy, New York, 2005):
http://www.un-ngls.org/cso/cso6/
WFM%20paper%20on%20International%20Democracy.doc.
9. La dichiarazione della campagna internazionale Reclaim Our UN, coordinata dalla Tavola della Pace-Assemblea dei Popoli e sviluppata all'interno del World Social Forum (We the Peoples for a New Just, Peaceful and Democratic World Order, Porto Alegre):
http://www.reclaimourun.org/reclaimourun.html
10. Le proposte presentate al Simposio Envisioning a More Democratic Global System, Widener University School of Law, Aprile 2006.
Bibliografia:
ARCHIBUGI D., Il futuro delle Nazioni Unite, Edizioni Lavoro, Roma 1995.
CAFFARENA A., Le organizzazioni internazionali, Il Mulino, Bologna 2001.
DE GUTTRY A. – PAGANI F., Le Nazioni Unite. Sviluppo e riforma del sistema di sicurezza collettiva, Il Mulino, Bologna 2005.
LOTTI F. – GIANDOMENICO N. (a cura di), L'Onu dei popoli. Progetti, idee e movimenti per riformare e democratizzare le Nazioni Unite, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996.
MARCHETTI R., La riforma delle Nazioni Unite: modelli istituzionali e proposte politiche, "Teoria Politica", XXI, no. 2 (2005), pagg. 49-68.
MASTROLILLI P., Lo specchio del mondo. Le ragioni della crisi dell'Onu, Laterza, Roma-Bari 2005.
PIANTA M., UN World Summits and Civil Society Engagement, UNRISD, Ginevra 2005.
daniele.archibugi@cnr.it
raffaele.marchetti@iue.it
[2] Internazionale Socialista, Reforming the United Nations for a New Global Agenda, position paper, 2005, pp. 23-4.
[3] Ivi, pp. 24-7.
[4] High-Level Panel on Threats, Challenges and Change, A More Secure World: Our Shared Responsibility, New York 2004.
[5] In Larger Freedom, cit., p. 31.
[6] High-Level Panel on UN-Civil Society, We the Peoples: Civil Society, the United Nations and Global Governance, A/58/817, 2004.
[7] Per un approfondimento si veda R. MARCHETTI, La riforma delle Nazioni Unite: modelli istituzionali e proposte politiche, “Teoria politica”, vol. XXI, 2, 2005.
[8] Una rassegna di queste proposte è contenuta in D. ARCHIBUGI, The Reform of the United Nations and Cosmopolitan Democracy: A Critical Review, “Journal of Peace Research”, vol. 30, n. 3, 1993, pp. 301-315.
[9] Nel caso specifico, è difficile pensare che la Corte penale e il Trattato sulle mine sarebbero mai stati approvati senza l’intervento decisivo dei governi
italiano e canadese.