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Il terreno d’intesa. Altiero Spinelli e Ernesto Rossi alla ricerca di un lessico politico europeo

Fabio Corigliano
Articolo pubblicato nella sezione "Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana tra ’700 e ’800"

1. Il necessario ritorno ai “padri fondatori”

Il 3 maggio di quest’anno, in riferimento alla crisi scatenata dalla guerra in Ucraina, Mario Draghi, intervenendo al Parlamento Europeo, ha affermato:

Abbiamo bisogno di un federalismo pragmatico, che abbracci tutti gli ambiti colpiti dalle trasformazioni in corso - dall’economia, all’energia, alla sicurezza. Ho parlato di un federalismo pragmatico ma devo aggiungere che mai come ora i nostri valori europei di pace, di solidarietà, di umanità, hanno bisogno di essere difesi. E mai come ora questa difesa è per i singoli stati difficile, e diventerà sempre più difficile. Abbiamo bisogno non solo di un federalismo pragmatico ma di un federalismo ideale.

Posta l’annosa necessità di superare il sistema intergovernativo per cui gran parte delle decisioni in ambito europeo vengono prese all’unanimità, Draghi ha platealmente proposto, riferendosi al disegno dei “padri fondatori”, di valutare una seria revisione dei Trattati, al fine di condurre l’Europa verso una maggiore integrazione politica, appunto all’insegna di un federalismo “pragmatico” e allo stesso tempo “ideale”: «i padri dell’Europa ci hanno mostrato», ha continuato il Presidente del Consiglio, «come rendere efficace la democrazia nel nostro continente nelle sue progressive trasformazioni. L’integrazione europea è l’alleato migliore che abbiamo per affrontare le sfide che la storia ci pone davanti».
Di fronte a tali premesse, pare opportuno cogliere lo spunto e rivolgere l’attenzione al disegno dei “padri fondatori”, in particolare Altiero Spinelli (1907-1986) e Ernesto Rossi (1897-1967), che insieme a Eugenio Colorni hanno costituito il nucleo gravitazionale intorno al quale si sono radunate le discussioni che hanno portato alla redazione del Manifesto di Ventotene. Si tratta di un passaggio davvero fondamentale per comprendere quali sono state (e quale ne è stato il contesto) le proposte avanzate da un’avanguardia di antifascisti mobilitati intorno alla dottrina federalista, al fine di instaurare un ordinamento di libertà e democrazia non solamente per l’Italia ma nell’intera Europa, nell’epoca della crisi più profonda dello Stato nazionale.
Nell’ambito di tali discorsi non si devono tuttavia dimenticare le parole con le quali Piero Graglia ha chiuso l’introduzione del suo Unità europea e federalismo:

La storia ha tempi lunghi, è vero. Solo che sorge sempre più prepotente il dubbio che - a forza di affermare che si è davanti all’“ultima occasione possibile” per unificare il continente europeo su basi federali, per dare vita ad un’organizzazione mondiale sovrana nei confronti dei suoi membri, per ridurre l’ancora virulento potere dell’idea nazionalista - tale occasione sia stata già perduta da tempo e ci si stia avviando, al contrario, verso una nuova stagione di conflitti e di incomprensioni (Graglia 1996, p. 19).

In effetti, ripercorrere una parte della storia che ha condotto alla scrittura del Manifesto attraverso il pensiero politico di due dei suoi autori, ha il pregio di permettere un’ampia riflessione, in grado di fornire, in ultima istanza, alcune definizioni chiave di quei termini che sono stati sinora nominati, al fine di consentirne una genealogia. In particolare, nelle pagine che seguono, si cercherà di proporre un breve percorso attraverso il pensiero politico di Spinelli e Rossi, per comprendere quale fosse, prima e durante la scrittura del Manifesto, lo spirito con il quale i temi del federalismo e del potere sono stati ripensati e sono stati condotti al di fuori delle tradizioni politiche da cui gli stessi provenivano, creando un mèlange che con Giorgio Braccialarghe può essere presentato nei termini di un terreno d’intesa (Braccialarghe 2005, p. 42). Il tutto anche per estendere un campo di ricerca che in linea di massima ha sempre privilegiato i due temi “classici” legati al Manifesto, ovvero la questione dell’europeismo come “linea di divisione”, tra progressisti e conservatori e quella della concretezza del progetto ventoteniano.
È noto che l’attività politica e pubblicistica di Rossi e Spinelli non si è interrotta con il Manifesto, né con la fondazione del Movimento Federalista Europeo, in quanto entrambi hanno continuato ad essere protagonisti, sebbene spesso isolati e molto poco ascoltati, della vita politica italiana ed europea sino alla loro morte, ma è il caso di soffermare l’attenzione su una stagione particolarmente considerevole della loro vita e altresì del contributo italiano alla fondazione dell’Unione Europea, anche per comprenderne la complessa e stratificata specificità.
Ognuno dei tre “naufraghi”, Spinelli, Colorni e Rossi, proveniva da una diversa tradizione e militanza politica, e si potrebbe avanzare che proprio il confino li ha costretti a portare a termine il loro distacco da mondi che non li rappresentavano più, e che dal loro punto di vista non erano più in grado di ergersi in quanto novità rispetto alla storia italiana che aveva preceduto il fascismo. Il superamento della dittatura aveva bisogno, a loro giudizio, di una netta recisione rispetto al passato, solo con la quale sarebbe stato possibile, per l’Italia e per l’Europa, rivolgersi ad un futuro di pace, benessere, libertà e democrazia. La mescolanza dei linguaggi dei tre principali, ma non unici, protagonisti di quel mosaico plurale, ha permesso di fatto che il terreno d’intesa ricercato e sperimentato a Ventotene diventasse il trampolino di lancio per la successiva fondazione del Movimento Federalista Europeo, «momento cruciale per l’affermazione dell’indirizzo teorico “federalista europeo”» (Malandrino, Quirico 2020, p. 127).
In particolare, Colorni proponeva una rilettura del lascito leibniziano con il quale gli era stato possibile superare l’idea di Stato moderno di matrice hobbesiana per scuoterne le fondamenta a favore della struttura europea, la quale avrebbe dovuto rinascere non dalle ceneri del Leviatano, ma da una prospettiva completamente opposta, quale quella indicata proprio dal pensiero politico di Leibniz, interpretato in chiave socialista. Lo stesso Colorni (anche attraverso Leibniz) si era fatto interprete di un realismo politico che doveva essere il naturale coronamento della nuova idea di Stato, per evitare di incorrere nelle ristrettezze dei progetti federalisti ottocenteschi, caratterizzati da un’estrema matrice utopistica (Malandrino, Quirico 2020, p. 81) - realismo condiviso del resto con Spinelli e Rossi, i quali da diverse angolazioni hanno condotto a termine il disegno europeo attraverso le loro riflessioni. Spinelli, in particolare, aveva reinterpretato il tema dell’egemonia abbinandolo all’idea federalista di cui Rossi è stato uno tra i primi esegeti, come vedremo.


2. Altiero Spinelli dalla militanza comunista al realismo federalista

Passato dal “vago” socialismo paterno (Spinelli 1984, pp. 48-54) alla simpatia per i comunisti in seguito alla reazione armata del maggio 1922 a Roma nel Quartiere operaio di San Lorenzo, in occasione del corteo fascista che accompagnava la salma di Enrico Toti, traslato nella sua città natale (ivi, p. 55), Spinelli ha iniziato, ancora adolescente, quel percorso politico che lo avrebbe condotto al carcere, e quindi al confino. La scissione di Livorno del ’21 aveva innescato nei comunisti un’aperta tendenza rivoluzionaria che non poteva esaurirsi nella semplice denuncia dell’ascesa fascista, e dei crimini compiuti dagli squadristi in un clima di completa illegalità. Il redattore-capo de “Il Comunista”, Palmiro Togliatti, tuonava dalle pagine del quotidiano romano, invocando l’azione, proprio sull’esempio degli operai di San Lorenzo. Il giovanissimo Spinelli non poteva che rimanerne attratto, considerando, sin dai suoi primi studi dedicati al pensiero politico socialista, più importante l’azione che la teoria, o forse meglio, ritenendo l’azione un necessario complemento della teoria.
È molto interessante riportare un brano, scritto da Spinelli medesimo molti anni dopo aver optato per la tesi comunista a scapito della socialista, che, seppure di carattere lievemente agiografico, aiuta a comprenderne il percorso politico:

anzitutto la mia adesione al partito comunista non era la risposta a una, sia pure iniziale, esperienza politica nazionale. La scena che fin dall’inizio si era imposta alla mia attenzione non era occupata dall’Italia con i suoi protagonisti e i suoi problemi, e non lasciava in un’ombra rapidamente crescente il resto del mondo. Era riempita dalla furiosa guerra, cui avevano partecipato popoli di tutta la terra, e dalle sue conseguenze che si chiamavano rivoluzione russa, repubblica tedesca, dissoluzione dell’impero austriaco e di quello turco, Società delle Nazioni, inflazioni, scioperi e sommosse proletarie, scissioni del socialismo, internazionale comunista, controrivoluzioni antibolsceviche. Per molti miei coetanei la guerra mondiale è stata la matrice di un nazionalismo forsennato. Io sono stato invece fra coloro che da essa hanno appreso una insormontabile antipatia per le parole stesse di nazione e patria e per la loro pretesa di accaparrare l’anima umana. Il comunismo di Lenin e di Trotzkij, con la sua severa condanna di tutti coloro che avevano tradito l’Internazionale, con il suo appello alla rivoluzione socialista mondiale, di cui quella russa non voleva essere che il preludio, era la grande esperienza sovranazionale che veniva incontro al mio spontaneo cosmopolitismo. Diventando comunista, non era tanto contro il fascismo italiano e per un’ideale Italia che mi schieravo, quanto contro il capitalismo e l’imperialismo mondiali e per un ordine nuovo mondiale (ivi, p. 66).

In questa lunga citazione, assolutamente necessaria e funzionale alla analisi del pensiero politico spinelliano, si ritrovano molti dei caratteri che avrebbero costellato le analisi dello Spinelli più maturo, ma ancor di più si coglie un aspetto piuttosto centrale del dibattito in corso in Italia nel decennio compreso tra la metà degli anni Venti e la metà degli anni Trenta, ovvero la rimeditazione sui temi trattati esemplificativamente da Luigi Einaudi e Benedetto Croce - ma i protagonisti di quel confronto sono stati molti altri come hanno fatto vedere Malandrino e Quirico (2020) — a proposito degli Stati Uniti d’Europa, questione che aveva già appassionato i grandi protagonisti del nostro Risorgimento, Mazzini, Cattaneo e Garibaldi. Einaudi, prima in un articolo su “La Stampa” dell’agosto 1897 e poi a partire dalla fine della guerra, sul “Corriere della Sera”, aveva proposto una serie di analisi su temi internazionalistici e più precisamente europeistici all’alba della fondazione della Società delle Nazioni, mentre Croce, nell’epilogo della sua Storia d’Europa nel secolo decimonono del ‘32, aveva parlato proprio di un «processo di unione europea» che avrebbe liberato i popoli restaurando negli animi l’ideale liberale (Croce 1965, p. 315).
In realtà, come ha spiegato Corrado Malandrino nel recente e già citato volume L’idea d’Europa, scritto insieme a Stefano Quirico, la visione internazionalista, cosmopolitica ed europeista era già negli anni Trenta del Novecento ben nutrita di studi che avevano una storia molto lunga e ricca, e che erano giunti, nel periodo della prima “conversione” spinelliana, ad uno stato di rielaborazione piuttosto avanzato non solamente in Italia, ma anche in altri Paesi europei: basti pensare alle figure del conte Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, e agli esempi di Lord Lothian in Gran Bretagna e Aristide Briand in Francia. In Italia in particolare sono da citare non solamente Einaudi e Croce, ma altresì le figure di Gaetano Salvemini e di Carlo Rosselli, i quali hanno avuto un’influenza molto solida nella formazione del giovane Ernesto Rossi, come vedremo nelle prossime pagine.
Sicché la soprariportata nota apposta da Spinelli, a una trentina d’anni di distanza dall’adesione al comunismo, pare significativa non solamente con riferimento alla sua esperienza esistenziale, ma si inseriva nello spirito dell’epoca, e getta ad oggi una luce molto intensa sul travaglio intellettuale di molti giovani antifascisti, cresciuti nel mito del Risorgimento e pronti ad accogliere, attraverso la militanza politica, una nuova via per l’azione, per la costruzione di una realtà istituzionale che evidentemente non era mai stata quella desiderata da Mazzini o Cattaneo, modelli indiscussi per un’intera generazione. Si potrebbe quasi insinuare che nella prima fase della lotta tra fascisti e antifascisti, nei primi anni Venti, si celasse l’insoddisfazione della nuova generazione, passata attraverso l’esperienza terrificante della guerra, per l’ordinamento politico-istituzionale di marca cavouriana e per i poco entusiasmanti periodi della Destra e della Sinistra Storiche, e l’età del giolittismo. In un certo qual modo, come ha osservato Giuseppe Rensi - autore molto stimato da Rossi, peraltro - la guerra stessa aveva evidenziato la fine di un’epoca, quella che grazie all’Illuminismo aveva portato all’apoteosi dello Stato moderno (Rensi 2014, p. 29). Semplificando di molto si potrebbe avanzare, parafrasando le parole del Manifesto, che se da un lato il fascismo ha portato alle estreme conseguenze quel retaggio hobbesiano, è stato merito di alcuni autori antifascisti, e in particolare gli Einaudi, i Salvemini, i Rosselli, l’aver posto come ineludibile la questione del ripensamento dello stesso concetto di Stato di marca moderna.
Ancora non del tutto edotto sulla questione, il giovane Spinelli, dopo l’adesione al comunismo, ne aveva abbracciato pure l’impegno attivo. Non è da trascurare infatti un ulteriore indizio che lo stesso propone nella medesima memoria riportata poc’anzi in relazione al secondo motivo che lo aveva portato a quella scelta, «agitato dalla passione politica dell’azione e del comando e sedotto da un’organizzazione che si presenta come un clero, depositario delle segrete leggi che regolano la morte delle vecchie e la nascita delle nuove società umane, deciso a prendere il potere assoluto necessario per creare la nuova e perfetta società»; in quel contesto, Spinelli, per sua ammissione, era diventato comunista «come si diventa prete, con la consapevolezza di assumere un dovere e un diritto totali, di accettare la dura scuola dell’obbedienza e dell’abnegazione per ben apprendere l’arte ancor più dura del comando» (Spinelli 1984, p. 67).
Tale approccio al tema del potere, che è rimasta una delle questioni centrali del suo pensiero per tutto il corso della vita, aveva ricevuto sin dall’inizio un’inclinazione che, passata attraverso l’infatuazione per la disciplina rivoluzionaria ed egemonica di stampo leninista, si è tradotta, come vedremo, nel realismo politico di cui è intriso il Manifesto ventoteniano e i successivi articoli spinelliani che ne giustificano l’impianto politico teoretico.
L’adesione alla “religione” dell’azione imponeva al giovane Spinelli, tuttavia, una scelta drastica, sfociata nella decisione della clandestinità. Sono gli anni dell’Università, dei primi amori, e dell’impegno politico attivo, che lo vede Segretario interregionale del Partito Comunista per l’Italia centrale, ruolo che gli aveva permesso di stringere rapporti con i più alti e influenti funzionari del Partito dell’epoca, facendosi conoscere come giovane intraprendente, intelligente e diligente.
A partire dall’arresto avvenuto il 3 giugno del 1927, si è aperta una pagina del tutto nuova per Ulisse (lo pseudonimo con il quale era entrato in clandestinità). A nemmeno vent’anni Spinelli entrava in carcere per una delle più lunghe detenzioni di antifascisti di tutta la storia del Ventennio. Infatti, passando attraverso i trasferimenti da Lucca a Viterbo e infine Civitavecchia, Ulisse ha potuto abbandonare il carcere solamente dieci anni dopo, nel marzo del 1937 per essere mandato al confino a Ponza e poi a Ventotene, ed essere infine liberato anche dal confino appena nel ’43 (il 17 agosto). Quindici anni di reclusioni e confinamenti che sono risultati essenziali a Spinelli per lo studio e l’elaborazione del suo pensiero politico, per pervenire alla scelta di abbandonare il comunismo e abbracciare la nuova “fede” federalista.
Nel suo primo libro autobiografico, il più volte citato Come ho tentato di diventare saggio, Spinelli dedica un paragrafo, verso il finale del capitolo incentrato sul periodo del confino a Ponza al passaggio dal comunismo al mare aperto precedente alla scoperta del federalismo, intitolato “Alle porte della città democratica”. In esso si legge dell’incertezza con la quale il carcerato e confinato di lungo corso si allontanava dal partito comunista per iniziare un nuovo viaggio, una nuova conversione, che portava, come si legge al principio del capitolo immediatamente successivo dedicato al confino ventoteniano, ad una “seconda nascita”. In una narrazione sospesa, proposta con un linguaggio simbolico che avvicina la militanza politica alla vita in una città (la città democratica), Spinelli confessava la sua crisi di coscienza:

Non avevo che da lasciar fermentare la realtà che contemplavo dalla mia isola e le idee che si agitavano nella mia testa, aspettando pazientemente che qualcosa venisse fuori. Non solo ero ormai in mare aperto, ma anche in un mare sconosciuto e non sapevo né quanto a lungo ci sarei rimasto né dove avrei approdato (ivi, p. 258).

È proprio quell’incertezza, quell’insoddisfazione per le risposte che la città democratica non riusciva a fornire e il comunismo non percepiva, che ha portato Spinelli a incontrare «due anime non solo inquiete per quel che accadeva, ma anche insoddisfatte per le risposte inadeguate che gli antifascisti davano a questa gigantesca sfida che non era più la vittoria del fascismo in questo o in quel paese, ma il crollo dell’Europa. Eugenio Colorni e Ernesto Rossi non erano fra coloro che avevano trovato, come il resto dei confinati politici, ma fra coloro che cercavano. Perciò incontrandoci sull’isola, ci riconoscemmo e diventammo amici» (Spinelli 1984, p. 281).
Come tutti sanno è da quel sodalizio che sono nate le idee fondamentali che hanno portato alla scrittura del Manifesto di Ventotene, e alla discussione delle basi teoriche intorno alle quali si sarebbe poi costituito il Movimento Federalista Europeo.
Meno conosciuta è la storia relativa alla prima ricezione di quelle idee da parte degli altri antifascisti confinati, nonché la riflessione di Spinelli nei mesi successivi alla redazione del Manifesto, e grossomodo fino alla sua liberazione dal confino. In particolare, gli scritti più significativi in questo senso sono Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche e Politica marxista e politica federalista, pubblicati subito dopo il testo del Manifesto nell’edizione “definitiva” del 1944, nonché i testi che si trovano ora raccolti nel volume Machiavelli nel secolo XX, curato da Piero Graglia (Spinelli 1993).
In questi studi si trovano molti degli argomenti “tipici” del federalismo spinelliano, come ad esempio la tesi per cui solamente un’Europa federale sarebbe stata in grado di demolire l’idea dello stato-potenza e di conseguenza l’anarchia internazionale. Ma insieme alle questioni più “tradizionali” e tipiche della storia dell’europeismo, che evidentemente Spinelli e Rossi avevano ereditato dalla lunga riflessione internazionalista, di fatto sviluppatasi almeno a partire dal Seicento (Chabod 2020), nel Manifesto, così come (e anzi, in misura ben maggiore) in altri scritti spinelliani degli anni Quaranta è possibile scorgere un’interessante teoria realista della politica che tra l’altro costituisce un ulteriore terreno d’intesa tra la memoria leninista di Spinelli e il “giacobinismo” di Rossi (Braga 2007).
Nella sua introduzione a Machiavelli nel secolo XX, Piero Graglia mette in luce, intanto l’affinità e la “notevole somiglianza” tra la nozione gramsciana di “egemonia” e la conformazione spinelliana del potere politico. E in secondo luogo chiarisce che tale versione dell’egemonia non aveva alcuna finalità antidemocratica, semmai risentiva di alcune letture nietzscheane affrontate tra il ’42 e il ’43, grazie alle quali evidentemente Spinelli aveva iniziato a impersonare la figura del “legislatore del futuro” allo scopo di individuare «nuove strade per rispondere al fondamentale problema della conquista, mantenimento, gestione del potere, situandosi in posizione apertamente polemica con le correnti politiche tradizionali» (Spinelli 1993, p. 64).
L’aspetto interessante di tale questione risiede nel fatto che la scelta europeista, prima ancora di essere un’opzione politica necessaria onde edificare nuove ripartizioni tassonomiche tra progressisti e conservatori, si poneva in quanto teoria e prassi di una lotta rivoluzionaria che richiedeva un nuovo lessico della politica e altresì strategie di gestione del potere del tutto nuove, in voluto contrasto con tutta la tradizione novecentesca, colpevole di aver permesso l’evoluzione dello Stato moderno nella direzione del totalitarismo.
Già nel Manifesto veniva presa in considerazione la nozione di egemonia risultante dalla dottrina politica marxista, conferendole tuttavia un’inclinazione più delicata. Si legge in tal senso che allo scopo di conquistare le masse proletarie, i “politici pratici” debbono

esercitare con l’azione e con la persuasione tutta un’opera, grazie alla quale la suscettibilità delle masse ad essere guidate in un certo senso si cambi nella loro effettiva e volenterosa marcia in quel senso. Per ottenere ciò occorre in primo luogo esercitare una suggestione in modo da persuaderle che il fine da raggiungere non è loro imposto dal di fuori, ma sorge dalle loro più profonde esigenze (Spinelli, Rossi 2017, p. 102).

In una prospettiva squisitamente federalista - che deve fare affidamento su una classe dirigente «che abbia le capacità rivoluzionarie dei comunisti, senza averne le tare» (ivi, p. 125) - tale opera di direzione non è svolta da capi politici, ma da consiglieri che abbiano compiuto una formazione spirituale, che siano in grado di farsi ascoltare anche dalle generazioni successive o da soggetti diversi da quelli a cui era indirizzata la loro vis persuasiva (ivi, p. 116).
In seguito, nei due scritti Saggio di storia della politica ovvero Machiavelli nel secolo XX (del 1943) completato dagli Appunti su politica, potere e disciplina e Definizione dei concetti di libertà e autorità (entrambi del 1944), si trovano delle riflessioni molto importanti sui capi politici, che devono essere in grado di «adoperare altri uomini come strumenti, così come si adoperano le forze naturali» (Spinelli 1993, p. 184).
La funzione di guida dev’essere diretta dall’azione di “capi” che «effettivamente stabiliscono una scala di valori e determinano i limiti entro cui possono essere perseguiti i fini degli altri», i cui compiti fondamentali, di tipo politico e culturale, possono essere riassunti in questi termini: «da una parte governare la società in modo da mantenere in vigore la scala di valori che permette la libera esplicazione dei fini voluti come supremi, e dall’altra far realmente fruttificare quei fini» (ivi, p. 175). Rispetto alla funzione di guida evidentemente ricavata da Rousseau, Spinelli si spinge ad osservare che «comandare significa conoscere interessi e passioni degli uomini, ciò mediante cui si può far presa su di essi, e manovrare queste forze che li dominano per farli muovere nel senso voluto» (ivi, p. 184).


3. Ernesto Rossi e la dottrina del federalismo

Grazie agli studi di Mimmo Franzinelli e Antonella Braga, e alla pubblicazione della corrispondenza, ad oggi anche la figura di Ernesto Rossi gode di una maggiore notorietà nell’ambito della letteratura federalista ed europeista. Se tuttavia la figura di Rossi polemista, critico del capitalismo italiano, dei partiti e dei sindacati, commentatore polemico dello stesso processo di integrazione europea, è nota ad un più vasto pubblico in virtù della sua attività di pubblicista e anche grazie alla sua capacità inventiva di espressioni poi entrate a pieno titolo nel discorso pubblico (come ad esempio “aria fritta”, “padroni del vapore” e altre ancora), molto meno note e studiate sono le sue posizioni nell’ambito del dibattito federalista. In questo contesto occorre sottolineare che, alla luce della corrispondenza e di alcuni testi (in particolare il suo contributo nella stesura del Manifesto e ne L’Europa di domani del ’44) è emersa negli ultimi anni l’assoluta centralità del suo pensiero politico, tanto da permettere di considerare essenziale il suo ruolo nel dibattito sul progetto federalista europeo.
Sin dalla più tenera gioventù molto attento ai bisogni degli altri uomini, la prima “simpatia” di Rossi è stata per una forma di socialismo umanitario intriso di ideali risorgimentali (Braga 2007, p. 51) e internazionalista (Rossi 2019, p. 206). In questo senso l’interventismo che lo condusse a raggiungere il fronte come volontario nel 1916, non era dettato da un’esasperazione nazionalista, ma da giustificazioni molto più varie (Braga 2007, p. 55). La guerra aveva lasciato un’impronta molto profonda nel vissuto di Rossi, non solamente per la grave ferita ricavata dalle schegge di una granata, ma proprio per l’esperienza militare ed esistenziale. In quell’occasione Rossi aveva maturato una forte diffidenza nei confronti del militarismo fine a se stesso e, allo stesso tempo, si era avvicinato con altri occhi a I doveri dell’uomo di Mazzini, lettura che era destinata ad accompagnarlo nelle varie fasi della sua vita.
Ma è stato l’incontro con Salvemini a imprimere una svolta nella vita del giovane reduce di guerra.
Infatti, dopo la cessazione delle ostilità, Rossi, laureato in giurisprudenza con una tesi su Vilfredo Pareto, aveva iniziato a collaborare con “Il Popolo d’Italia”, e a sentire alcune affinità con i Fasci di combattimento. Già nei suoi primi articoli, tuttavia, venivano sottolineati certi temi che poi sono rimasti, evidentemente rimaneggiati, quali punti fermi della sua riflessione anche più matura: l’interesse per l’economia, per le questioni agrarie, per la povertà in cui versava il sud Italia, e infine per i rapporti tra il centro e le autonomie. È in un articolo del 1921, infatti, che Rossi ipotizzava la costituzione di una Camera delle Regioni e di una riforma delle istituzioni in senso federale, memore delle letture proudhoniane e anarchiche in generale, e altresì del magistero salveminiano e della sua ripresa di temi risorgimentali e in particolare di Cattaneo.
Gli anni che hanno preceduto la marcia su Roma e la definitiva scelta di Rossi di non aderire al fascismo (nonostante il tentativo di Arnaldo Mussolini di riavvicinarlo) sono stati estremamente utili per approfondire il suo interesse nei confronti dei temi di politica agraria e dei problemi legati all’arretratezza del Mezzogiorno. In quegli stessi anni, tramite Salvemini, maestro e amico, Rossi si interessava anche alle tematiche federaliste a cui erano dedicati i già citati articoli di Einaudi sul “Corriere della Sera”.
L’effetto del delitto Matteotti fu un’intensificazione dell’attività antifascista clandestina e un avvicinamento agli ambienti di Giustizia e Libertà: infatti insieme a Salvemini, Nello Tranquandi, Dino Vannucci, Carlo e Nello Rosselli, Rossi fondò “Non Mollare”, giornale dichiaratamente democratico e avverso al fascismo; in seguito alla chiusura da parte di Mussolini e ad una fuga a Parigi per evitare l’arresto, avvalendosi di un’amnistia, Rossi vinse una cattedra e si trasferì a Bergamo per insegnare diritto ed economia presso un Istituto tecnico, al quale peraltro sono stati donati tutti i suoi libri. La vicinanza tra Bergamo e Milano ha fatto sì che per tutto il periodo dell’insegnamento e prima dell’arresto (quindi dal 1925 al 1930), Rossi andasse spesso a studiare presso la biblioteca della Bocconi, dove conobbe personalmente Luigi Einaudi, con cui sviluppò un duraturo rapporto di amicizia.
Arrestato nel 1930, rimase in carcere fino al 1939, quando fu mandato al confino a Ventotene, ove permase fino al 1943. Anche per Rossi, così come per molti antifascisti carcerati, la prigionia fu l’occasione per studiare e approfondire molti argomenti, pur con tutte le restrizioni previste dal sistema penitenziario per i prigionieri politici, tra le quali una delle più pesanti era il divieto di scrivere. Poiché tale proibizione era osservata con grande scrupolo dal personale carcerario, l’unica opportunità per fermare le idee sulla carta, sotto forma di appunti di lettura, era la corrispondenza. Di qui il valore delle lettere scritte dal carcere, principalmente alla madre e alla moglie Ada, e che sono state pubblicate solo negli ultimi anni, permettendo una conoscenza più ampia del suo pensiero.
Quelli del carcere sono stati anni di studio intenso (Braga 2007, pp. 102 ss. prova a ricostruirne l’itinerario), condiviso con alcuni dei maggiori protagonisti della lotta antifascista di matrice non comunista, come Manlio Rossi Doria, Riccardo Bauer, Roberto Fancello, Vittorio Foa, Vindice Cavallera, alcuni dei quali rimasero accanto a Rossi sino al confino ventoteniano, partecipando altresì alle discussioni preparatorie del Manifesto.
Una delle lettere più interessanti e utili al fine di approfondire la teoria federalista risale al 30 aprile 1937, ed è stata scritta alla madre da Regina Coeli. Le questioni in essa toccate sono talmente importanti per comprendere lo sviluppo del pensiero politico di Rossi, che durante il confino a Ventotene fu lo stesso Rossi a chiedere alla madre di rimandargliela, al fine di meditare su ciò che aveva scritto.
In essa Rossi si raccomandava di chiedere a Nello Rosselli, che di lì a poco sarebbe morto insieme al fratello Carlo, alcuni consigli bibliografici sul tema degli Stati Uniti d’Europa e proponeva alcuni appunti al fine di far comprendere a Rosselli stesso quali fossero i temi che più voleva investigare. Sicché, quella che inizialmente si poneva come una richiesta di approfondimento rivolta indirettamente ad un amico che insieme al fratello aveva già battuto i terreni del federalismo, assumeva altresì i contorni di una sorta di piattaforma di questioni e priorità.
Gli otto punti di cui è composto lo “schema” riguardavano, molto riassuntivamente: la storia della sovranità assoluta e il principio dell’indipendenza nazionale in Mazzini e in altri Autori del Risorgimento; le condizioni dell’Europa contemporanea, soprattutto con riferimento alle spese sostenute dagli Stati per ragioni militari e quelle dirette alle necessità della popolazione (istruzione, lavori pubblici e assistenza sociale); quali risultati avrebbero potuto essere raggiunti attraverso la realizzazione anche parziale degli Stati Uniti d’Europa; quali fossero gli ostacoli all’anzidetta realizzazione, anche dal punto di vista economico; le tendenze del sistema internazionale nel (primo) Dopoguerra; una riflessione sulla possibilità e la convenienza di dar vita al progetto di unificazione a tappe; il rapporto tra il processo di unificazione italiana e quella europea; infine l’ambigua ipotesi di conferire a tutte quelle riforme economiche tese a consolidare «un’eventuale ordinamento democratico» un’importanza secondaria, qualora si fossero presentate le reali possibilità di unificazione (Rossi 2001, pp. 572-4). Al di là di questo ultimo punto, che è stato spesso molto criticato da molti antifascisti secondo i quali Rossi e Spinelli anteponevano la battaglia federalista addirittura a quella contro il fascismo, le questioni che si trovano nella citata lettera sono talmente ricche di spunti, da poter essere considerate davvero una prima bozza in forma di appunti di lavoro per una ricerca “militante” sulla realizzazione degli Stati Uniti d’Europa. Ne è una dimostrazione il fatto che nell’opuscolo dedicato a L’Europa di domani, pubblicato nel 1944 a Lugano con lo pseudonimo di Storeno, si trovano molte delle argomentazioni del ’37, a conferma della continuità e coerenza delle ricerche rossiane, passate attraverso il carcere, il confino, la redazione del Manifesto, la fondazione del Movimento Federalista Europeo e la fuga in Svizzera.


4. Il terreno d’intesa

Conclusivamente si deve notare che l’affinità tra Rossi e Spinelli, nell’ambito della redazione del Manifesto e delle discussioni sorte tra i confinati, si sviluppava principalmente intorno a due punti - al di là del più ampio “completarsi a vicenda” cui faceva riferimento Rossi nella prima lettera a Salvemini dopo la fuga in Svizzera, precisamente il 24 marzo 1944 (Rossi, Salvemini 2004, p. 13).
Questi sono il federalismo, quale prima finalità della lotta politica, e una visione realistica della stessa lotta e del potere.
In relazione al primo punto, è piuttosto verosimile che sia stato Rossi a fornire a Spinelli alcuni elementi e suggerimenti di lettura al fine di poter sviluppare in modo autonomo e altresì concreto il suo proprio federalismo. È evidente in questo senso il movimento dei due, identico anche se speculare, che li allontanava dalle tradizioni di partenza per cercare un terreno di intesa in grado di soddisfare la loro comune necessità di trovare risposte adeguate alla conclamata crisi definitiva dello Stato di matrice hobbesiana negli anni più bui della storia dell’Italia e dell’Europa. Rossi aveva già avuto modo di entrare nel vivo del dibattito federalista grazie al magistero di Salvemini, Einaudi, Rosselli proponendo, già nel 1937, come si è visto, una piattaforma avanzata di argomenti concreti relativi alla federazione europea, mentre invece Spinelli aveva avuto come suo proprio faro sin dagli anni della prima giovinezza il cosmopolitismo e l’internazionalismo, che dovevano solamente essere sviluppati e portati alle estreme conseguenze grazie alla lotta europeista.
Per quanto riguarda il secondo punto, occorre ricordare, come fa Antonella Braga, la posizione assunta da Rossi nella polemica tra confinati dopo la diffusione del Manifesto: la difesa a oltranza di un metodo di lotta e quindi di una concezione del potere che apparentemente potrebbe essere ascritta al solo “rozzo” leninismo da cui Spinelli non riuscì mai a liberarsi del tutto (Spinelli 1984, p. 312), deve essere invece portata a testimonianza dell’influsso rossiano nella predisposizione dell’ultima parte del Manifesto. Il Rossi giacobino, che aveva meditato sul pensiero politico di Pareto già a partire dalla sua tesi di laurea, evidentemente non aveva solamente avallato il realismo leninista di Spinelli, ma vi aveva corrisposto con un importante contributo - e non si può nemmeno dimenticare lo stile di denuncia con il quale nel ‘44 lo stesso Rossi, in termini machiavelliani, criticava le “anime candide”, i “moralisti” che avrebbero voluto «costruire l’edificio dell’ordine internazionale sulle fondamenta di quel che dovrebbe essere, invece che sulle fondamenta di quel che realmente è» (Rossi 2014, p. 51). D’altronde è lo stesso Spinelli a riconoscere la genuinità dell’antropologia rossiana in una pagina particolarmente intensa delle sue memorie autobiografiche, tanto da decidere di farne tesoro (Spinelli 1984, p. 303). Di fronte ad una “approvazione intellettuale”, da parte di Rossi, «di dosi di violenza e di potere dittatoriale non solo per distruggere l’ordine nemico, ma anche per impiantare il nostro ordine democratico», Spinelli si scuoteva da uno “stato quasi sognante” per «decidere qui e ora, alla evidente vigilia del ritorno alla vita attiva, quali fossero i nostri ideali di civiltà» e ancora, «tutto quel che di leninista era rimasto in fondo al mio animo assentiva a questo invito» (Spinelli 1984, pp. 303-4).
A dare un’importante impronta a tale intesa fu Eugenio Colorni, il cui fondamentale ruolo, per lo meno nelle fasi preparatorie del Manifesto e poi nella lotta clandestina del Movimento Federalista Europeo, sino alla morte, è stato sempre riconosciuto dai protagonisti di questa vicenda umana e politica: il ritorno ai padri fondatori in un periodo storico denso di difficoltà come quello attuale è davvero necessario e richiede molta attenzione al fine di far emergere tutti gli aspetti di una fase della nostra storia che richiede da tempo un maggior rilievo.


Bibliografia di riferimento

Braccialarghe G. (2005), Nelle spire di Urlavento. Il confino di Ventotene negli anni dell’agonia del fascismo (1970), Fratelli Frilli Editori, Genova.
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