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Meglio le distopie delle utopie!
Riflessioni sui tentativi di rendere l’umanità felice e armoniosa.

FILIPPO LA PORTA
Articolo pubblicato nella sezione La distopia nel Terzo millennio

Premessa

Sappiamo che le utopie ci mostrano società desiderabili mentre le distopie rappresentano mondi indesiderabili. A ben vedere però i mondi delle seconde risultano più abitabili. Le utopie immaginate nella storia del pensiero occidentale ci appaiono infatti ben più minacciose e spaventevoli - nella loro geometrica, irenica perfezione - di qualsiasi distopia. L’isola di Moro, la Città del Sole di Campanella, la Nuova Atlantide di Bacone e fino al Falansterio di Fourier ci presentano governi teocratici o tecnocratici animati da intenzioni filantropiche, stati assoluti impegnati nello sforzo commendevole di rendere felice l’umanità, di creare società armoniose e comunità idilliache. Nei loro sistemi utopici il cittadino è però “costretto” a essere felice (adattandosi forzosamente a una idea di felicità pensata da altri), mettendo tutto in comune, convincendosi della bontà delle regole sociali, tenendo occupato tutto il proprio tempo (guai ai pigri), e sottoponendosi agli esperimenti di una scienza devota alle sorti progressive. Ora, le distopie della fantascienza, o quelle celebri di Huxley e Orwell, almeno descrivono realisticamente utopie andate a male, e in ciò rivelano la verità totalitaria intrinseca ad ogni utopia - anche la meglio intenzionata - , mettendoci in guardia. Inoltre, nella loro immaginazione letteraria il potere assoluto deve pur confrontarsi con difetti del sistema, zone di resistenza degli individui, comportamenti non conformi. Insomma salvano l’idea del conflitto (perfino Gramsci auspicava invece come meta finale una società “organica”, priva di conflitti e contraddizioni). Dimostrando che la imperfezione umana è più perfetta di qualsiasi “perfetta” utopia politica e tecnologica sognata dai nostri filosofi.
Ora, vorrei collaudare questo ragionamento esaminando due romanzi italiani diversamente distopici del presente, un libro collettivo che raccoglie alcuni saggi di autori vari (Utopie mascherate) e la serie TV “Black mirror”. Anzitutto un romanzo di fantapolitica italiano di un esordiente, uscito a settembre: La fuga degli insonni di Michele Della Rocca. Si immagina un futuro ravvicinato dove il morso delle mosche kisser addormenta le persone: metafora trasparente è quella di un potere totalitario che spegne il senso critico dei cittadini. Poi Un marito di Luigi Vaccari, che si svolge oggi, ma estremizza tendenze già all’opera, come vedremo tra un po’. Di Vaccari segnalo anche un romanzo notevole, uscito nel 2017, Il tuo nemico, sempre ambientato a Genova, che ha come protagonista un disadattato e genio dell’informatica che si autoesilia dal mondo (a metà tra un “neet” – i giovani che non studiano, non lavorano, non cercano soluzioni - e la sindrome patologica che in Giappone ha nome “hikikomori”). Poi fugge con la sua compagna, un’hacker che scatena incidenti a catena, in guerra con il mondo e con i genitori. Un romanzo anarchico, che riflette su democrazia e informatica, nel quale i trentenni ventenni di oggi rifiutano di giocare al “gioco” degli adulti (qui rappresentati come ideologici e corrotti, anaffettivi e ossessivi), anche se al loro rifiuto non intendono dare una veste politica organizzata. Diffidiamo delle utopie (tranne quelle estetiche)

Occorre diffidare di ogni utopia politica, che diventa fatalmente burocratica, normativa, autoritaria, ultradisciplinata, minuziosa, articolata in tutti i dettagli con pedanteria spietata, severa fino alla tetraggine, e a vocazione punitiva. Ah quanti filosofi al governo hanno voluto raddrizzare quel legno storto che è l’umanità, con le buone o con le cattive. Contro di loro varrà sempre l’appello di Orwell alla irriformabile lunaticità degli esseri umani. L’unica forma accettabile di utopia è quella estetica, quella prefigurata dalle opere d’arte, senza volerlo. Nel ’69 la musica di Jimi Hendrix, che in un pomeriggio di maggio ascoltai 15enne al teatro Palladium di Roma, era assai più “utopica” di tutte le occupazioni di facoltà, collettivi politici, assemblee, cortei per il Vietnam etc. In particolare Herbert Marcuse mi ispirava una irresistibile simpatia. Di tutti i francofortesi era senza dubbio quello meno rigoroso, forse meno profondo e a tratti perfino un po’ pasticcione. Sempre alla ricerca di nuovi soggetti rivoluzionari (gli studenti dei campus in rivolta, il Terzo Mondo), devoto a una stucchevole retorica del futuro... Però di tutti mi appare anche quello più vicino all’esperienza concreta, contraddittoria dei suoi contemporanei, alla irriducibile varietà della sterminata cultura pop, alla ribellione degli individui, quello più disposto a farsene influenzare e modificare: una Francoforte spostata in California. Con la sua idea - di origine schilleriana (poi da noi ripresa anche da Franco Fortini) - dell’arte come utopia, come promessa di felicità e liberazione (dove promessa non significa ovviamente garanzia) entro la società delle merci e delle prestazioni. L’estetica è legata alla trasformazione politica poiché educa la sensibilità e dunque permette una esperienza immediata del mondo e ci stimola a modificarci di continuo. Si pensi soprattutto ad Eros e civiltà, alla dimensione estetica in cui si conciliano piacere e ragione e in cui l’autorealizzazione è basata non sull’economia, ma su un felice spreco di risorse. Il bello - leggiamo - «è unito inseparabilmente con l’ordine, un ordine, però, unicamente di senso non repressivo», inteso come pacificazione e acquietamento. Possono esservi opere d’arte cariche di infelicità e disperazione però il negativo «è risolto nella forma dell’opera stessa, in forza dello stile, della struttura». Anche il perturbante, il ritorno del rimosso, sempre operante nell’arte autentica, si compone in un ordine estetico che prefigura quello morale. Al contrario di Adorno, che condannava il jazz con sussiego, e conoscendone solo la prima fase. Anche se - occorre aggiungere - questa è la unica pecca di Adorno. Minima moralia resta infatti per la mia generazione forse il libro più importante, a volte ostico, scritto in un gergo hegeliano (ma di Hegel trattiene la dialettica, l’ostinato dire di no del contadino tedesco, non lo spirito sistematico), tuttavia capace di svelarci il disumano nel gesto più banale o consueto, la complicità con l’orrore in una battuta innocente che ci scambiamo con il nostro vicino in treno. Di Marcuse mi piaceva che fosse attratto dal mondo culturale americano, e che lo preferisse all’arte algida di tanta avanguardia che si fa un vanto di non avere pubblico e che finge di rischiare quando ormai non c’è più nulla da rischiare. In una intervista ha parole di elogio per Bob Dylan (che paragona a Brecht) e per la black music, oltre che per Ferlinghetti e Ginsberg, che riesce benissimo a far convivere con la sua passione per Beckett.


I compromessi contro la distopia

Proviamo ora a vedere più da vicino lo stimolante libretto collettivo su utopie e distopie, e sui nuovi paradigmi scientifico-tecnologici (revival della fantascienza), cui prima accennavo. Dei molti contributi mi limito a due o tre segnalazioni. Claudia Atzori ci invita a riflettere con Rawls sull’ideale (disatteso) della democrazia, dell’uguale rispetto dovuto alle persone in quanto agenti morali razionali. Rispetterò il criminale, o anche solo chi giudico in modo negativo? Per l’autrice rispettiamo in modo uguale le persone quando «le trattiamo come se fossero opache», quando le vediamo dietro un «velo di ignoranza» (Ilardi – Loche - Marras 2018, p. 82). Conclusione paradossale: se per rispettare qualcuno è meglio che non lo conosca troppo allora rispetterò tutti tranne me stesso (impossibile non conoscersi). Manuela Ceretta ci mostra la straordinaria attualità di Huxley (riletto da Houellebecq), molto più che del 1984 orwelliano: nel suo New Brave World la gente è felice di essere oppressa, adora la tecnologia che libera dalla fatica del pensare e ha l’unico imperativo di divertirsi. Antonio Tursi si sofferma sulla Arendt (ivi, p. 207): nei campi di concentramento, come nel parco tematico della serie Westworld - da un romanzo di Michael Crichton, allora divenuto film (mediocre) con Yul Brinner - “tutto è concesso” a chi ha il potere o a chi può pagare (Pasolini in “Salò/Sade” ci ha mostrato come soprattutto il potere sia trasgressivo e possa fregarsene di ogni regola). Ilardi analizza con acume alcune saghe recenti (Divergent; ivi, p. 241) in cui si prevede un mondo futuro incline ad abolire l’adolescenza, età pericolosa (emotività incostante e fluida, irresponsabilità), attraverso l’anticipazione dell’ingresso nel mondo del lavoro. Soluzione inquietante, anche se per non avere un mondo che somigli a Westworld occorrerà pure trovare dei compromessi tra libertà e sicurezza. “Black Mirror”: pensiero critico attraverso la narrazione

Credo che “Black mirror”, la serie TV inglese sia oggi l’equivalente dei racconti e romanzi di Robert Scheckley negli anni ’50 e ’60. Scheckley, morto nel 2005, inventò la cosiddetta fantascienza sociologica, in cui poteva parlare anche di avventure spaziali e colonizzazione di pianeti, ma non faceva che enfatizzare tendenze (psicologiche, comportamentali, tecnologiche) presenti nella società. In quegli anni Scheckley piaceva alle Pantere Nere e ai ribelli del movement, la sua narrativa esemplificava le teorie radicali di Marcuse e Paul Goodman. Oggi le narrazioni distopiche di “Black Mirror” potrebbero essere l’appendice empirica della teoria critica contemporanea. La loro immaginazione sociologica accompagna e divulga posizioni di critici della modernità come Ivan Illich e Byung-Chul Han. Preleviamo solo tre puntate dalle quattro stagioni andate in onda negli scorsi anni. Due dalla terza stagione: “Zitto e balla” e “Caduta libera”; e una dalla quarta, “Hang the DJ”. In quest’ultima un potente algoritmo fa incontrare persone tra loro compatibili per una relazione amorosa, ma prima di arrivare al risultato finale compie innumerevoli simulazioni (dove lo spettatore non distingue tra simulazioni e situazioni reali). In “Zitto e balla” un adolescente viene ricattato da un hacker che si impadronisce del suo pc, lo filma mentre si masturba su dei bambini e minaccia di mandare il video a tutti i suoi contatti se non segue tutte le istruzioni. In “Caduta libera” tutti votano la tua popolarità (e simpatia) attraverso un sistema di chip messo in lenti a contatto, da zero a cinque, e chi ha più punti evita le file, gode di mutui agevolati, trova prima lavoro... Da una parte sentiamo riecheggiare la critica di Byung-Chul Han: oggi la trasparenza diventa sorveglianza (nei social), e poi la dittatura non viene dall’alto ma è orizzontale (oltre che consensuale), la esercitiamo tutti noi su di noi. Dall’altra vengono in mente gli strali di Illich contro l’idea di un controllo totale sulla realtà, sui corpi, sulla vita, etc., promesso dalla tecnologia, con l’illusione di un azzeramento del rischio. Contro questa società del controllo biopolitico l’unica è nascondersi, disallinearsi: Illich e Han, sia pure in modi diversi, suggeriscono una strategia basata sulla opacità, sul segreto, sulla silenziosa secessione. Soltanto l’individuo che riesce a sottrarsi (agli esperti, ai professionisti, ai burocrati, all’obbligo del consenso da parte degli altri) sfugge al controllo performativo della Rete, allo sciame digitale. Non il narciso contemporaneo, che finge di amarsi, ma non si ama per niente, e anzi consapevole del proprio vuoto cerca nei selfie e nei “life” conferme alla sua esistenza (le analisi di Chistopher Lasch sulla “cultura del narcisismo” e sull’ “io minimo”), piuttosto un individuo che dice di no, come il Bartleby di Melville: impolitico (“idiota”, secondo l’etimologia del termine: impolitico)


L’utopia libertaria

L’autore di La fuga degli insonni, l’esordiente Michele Della Rocca, si immagina l’Italia nel 2043, abitata da milioni di Larve, di esseri umani in stato vegetativo, perché punti dalle aggressive mosche Kisser. Vi si parla della battaglia di Istanbul del 2029 e di una strage alla finale di Coppa Italia del 2036, ma non si dice quali squadre giochino. Un manipolo di quasi vegliardi - Fifì, Nik, Willy, Aurelio... - fugge da una clinica per andarsi a imbarcare a Civitavecchia e di lì raggiungere la incontaminata Sardegna inseguiti dall’esercito, che vorrebbe ibernarli al Centro di accoglienza del Gran Sasso. Attraversano un paesaggio urbano desolato: «devastazione e degrado allo stato puro» (Della Rocca 2018, p. 50; il paesaggio postatomico del ciclo di MadMax: rovine, detriti, spazzatura, carcasse d’auto). Attraversano una Roma che potrebbe essere rappresentata da Zerocalcare. Quando la macchia dello sciame si muove anche il lettore prova un qualche brivido, come in uno dei migliori romanzi di Crichton o anche di Stephen King (e anche qui troviamo una qualità della documentazione scientifica). Ogni capitolo finisce che ti viene voglia di andare al successivo, come in una serie TV. La domanda è: oltre al ritmo, alla suspense, alla storia ben congegnata, ad una lingua iperbolica («Fifì sembrava un cerbiatto sul punto di essere investito da un Tir»; ivi, p. 120), al gusto di contaminare la narrazione con film, fiction TV, fumetto (un tipo ha la faccia da “topo cattivo”), etc., c’è qualcos’altro nel romanzo? Credo di sì. Basterebbe la pagina dedicata alla “nuova inaugurazione del MAXXI” nell’estate del 1932, dove la domenica pomeriggio è dedicata al cinghia-rave: «una moltitudine di pischelli di dodici-tredici anni con la passione per il neonazismo e per l’antimondialismo ballavano prendendosi a cinghiate sui denti» (ivi, p. 89) (su musica elettronica), davanti a genitori impietriti, che dopo un po’ cominciano risse ancor più sanguinose. Ora, i cinghia-rave già esistono. Della Rocca li ha immaginati come eventi istituzionalizzati, solo calcando un po’ la mano. Il MAXXI metafora dell’Occidente, come il video di Abu Ghraib: violenza e spettacolo (qui manca il sesso). O anche la descrizione dello stato di “Larve”. Sembra una metafora dell’attuale rimbambimento di massa (e ottundimento del senso critico) ad opera non di un potere verticistico, ma di un fenomeno diffuso, senza cause precise. O anche quella pagina in cui l’unico antidoto alla depressione è proprio l’agire, l’epica travolgente dell’avventura: «Ci sono momenti nella vita in cui, seduto sul divano, ti ritrovi a pensare che il vuoto che stai fissando è lo stesso che hai dentro l’anima... momenti in cui il tempo non passa mai... momenti in cui ti domandi qual è stato il tuo contributo verso gli altri, o verso il mondo in generale...» (ivi, p.178). Ma in quel momento per Nik che sta fuggendo su una motoslitta cingolata la depressione è lontana... A un certo punto i nostri eroi si imbarcano sul Tevere con una lancia, quasi Cuore di tenebra conradiano. La narrazione - un romanzo civile che costeggia vari generi senza cadervi dentro (fantascienza, avventura...) - è anche pieno di invenzioni felici, come lo ShitAdvisor, dove si recensiscono cessi pubblici e poi perfino privati. Alla fine l’autore contrappone al potere una utopia libertaria fatta di amore, danza, gentilezza, malinconia, rivolta gioiosa, e anche di un pizzico di insonnia.


Spostamento di prospettiva

In Un marito di Luigi Vaccari Patrizia e Ferdinando gestiscono a Marassi, periferia genovese, una rosticceria che sembra il “ristorante di Alice”: «un’enclave nell’impero della velocità mangereccia». L’incipit somiglia a un poema cosmogonico in prosa: Sole sa che per esistere «ogni giorno deve scegliere dove e quando vivere», seguito da Luce, «diaframma del suo abbacinante vibrare» (Vaccari 2018, p. 17). La prosa vibra anch’essa, intensamente metaforica («le tapparelle inventano un’alba a righe»), con alcuni effetti sgraziati («ingozzando come oche aspettative...») da esuberanza espressiva, e con una vocazione lirico-saggistica un po’ à-la Tiziano Scarpa. La coppia è conservatrice e abbarbicata al suo quartiere (unico del pianeta dove «lo stadio e il carcere si trovano sulla stessa via»; ivi, p.37). Gelosa della propria impresa di «antiquariato gastronomico», teme le novità. Si concedono una vacanza-premio a Milano, dove li raggiunge la Storia, però come catastrofe: una bomba scoppia di fronte al Duomo uccidendo lei. Di qui una lunga terapia di Ferdinando per elaborare il lutto. Capisce che per amare qualsiasi cosa occorre accettare che quella cosa cambi. E, in modo non dissimile da quello che abbiamo visto nei precedenti romanzi, alla fine sente che l’unica “eternità” è, laicamente, quella di un presente capace di accogliere passato e futuro. Qui l’affabulazione non è parassitaria, ma al servizio di una idea del mondo che si traduce in uno stile personalissimo. Così come Della Rocca, neanche Vaccari vuole solo intrattenerci: sa su questo terreno la letteratura ha concorrenti troppo temibili. Però interrogano caparbiamente le nostre esistenze e sollecitano la nostra empatia. Non ci offre soluzioni. Ci indica un rischioso spostamento di prospettiva necessario al “saper vivere”, una “morte” anche traumatica ma indispensabile per poter fare di nuovo esperienza delle cose. Senza volerlo rivendica un saldo primato della parola scritta sulle i della comunicazione e sulle inesauribili suggestioni visive dei media. Nicola H.Cosentino ha giustamente sottolineato la purezza e autenticità dei personaggi (sul sito Minima & Moralia), che nel libro si contrappone non ideologicamente al potere e a al terrore. Ecco, in questa trasparente purezza, che può assumere una veste umile e dimessa, da sempre si raccoglie l’unica possibile utopia degli esseri umani: impolitica, socialmente inutile, dissipatoria. È come se Vaccari esemplificasse, senza saperlo, la frase di una lettera di Benjamin, che potrebbe valere da viatico per l’esistenza di ciascuno di noi: «Strappare alla sventura le possibilità che sempre essa implica».
Dunque, diffidate delle utopie, specie di quelle politiche - quasi sempre una cattiva secolarizzazione di ideali religiosi e una forma di alienazione rivolta a un futuro irreale - , imparate dalle distopie - specie quelle fatte in modo immaginativamente preciso, scrupoloso -, e coltivate pure le vostre utopie meravigliosamente impolitiche, anarcoidi, disordinate, carnevalesche, e che soprattutto non pretendono di essere realizzate (si accontentano di restare “idee regolative”, nel senso kantiano, e cioè idee ispiratrici). Assai più simili all’universo gioioso e sensuale (anche un po’ furfantesco) del Decameron o a quello immaginato dal Gargantua di Rabelais (la “Abbazia” di Thélème, priva di leggi) che alla vita monastica e virtuosa nei falansteri di Fourier o nella società totalitaria perfetta di Pol Pot, già studente brillante alla Sorbona.



Bibliografia

Byung-Chul Han (2014), La società della trasparenza, Nottetempo, Roma.
M. Della Rocca (2018), La fuga degli insonni, Enrico Damiani Editore, Brescia.
E.Ilardi, A.Loche, M.Marras (a cura di, 2018), Utopie mascherate. Da Rousseau a Hunger games, Meltemi, Milano.
I. Illich (2013), Genere. Per una critica storica dell'uguaglianza, Neri Pozza, Milano.
Ch. Lasch (1981), La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano.
H. Marcuse (2011), Eros e civiltà, Einaudi, Torino.
M. Vaccari (2018), Un marito, Rizzoli, Milano.
- (2017), Il tuo nemico, Frassinelli, Milano.



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