Il mio giudizio sulla situazione della filosofia in Italia non è affatto negativo. Come è noto, nel nostro Paese la tradizione storicista ha sempre collegato lo studio e sopratutto l'insegnamento della filosofia alla conoscenza e allo studio della storia. Tale legame, che meriterebbe una disamina approfondita soprattutto per quanto riguarda il nesso filosofia-corpo insegnante, si è stabilito ad un doppio livello: sia nel senso del rapporto tra filosofia e storia, sia nel senso della risoluzione della stessa filosofia alla sua storia. Come è a tutti noto, nel nostro Paese studiare/insegnare filosofia ha significato e ancora oggi significa, essenzialmente e talvolta purtroppo esclusivamente, studiare/insegnare la storia della filosofia. Questa impostazione ha avuto i suoi grandi meriti. Da una parte si è infatti evitato di rendere una disciplina per sua natura astratta ancora più astratta e rarefatta, combattendo così l'impressione che finisce per interpretarla come l'insieme delle «elocubrazioni» di alcuni soggetti particolari e strani che vivono «fuori dal mondo»: tutti i problemi che la filosofia affronta e le riflessioni ch'essa si sforza di articolare intorno ad essi sono infatti il frutto delle sollecitazioni che provengono dalle determinate situazioni in cui gli uomini concretamente vivono. Di conseguenza per comprendere adeguatamente il pensiero di un filosofo è necessario conoscere e comprendere la situazione storica (culturale, politica, economica, sociale, religiosa, psicologica, ecc.) in cui egli si trova a vivere e con la quale non può fare a meno di interloquire. D'altra parte si è evitato, soprattutto in relazione all'insegnamento, che la lezione di filosofia si trasformasse nello sfogo di «pareri» di un insegnante libero di dire qualsiasi cosa gli passasse dalla mente: un professore può e in alcuni casi deve esprimere il proprio pensiero su un determinato problema filosofico, ma ciò deve avvenire, soprattutto durante una lezione ma non solo, sempre all'interno del chiarimento della storia nella quale quel problema è emerso e si è sviluppato: nessuna interpretazione nasce dal nulla o cade dal cielo. Pertanto, anche se un insegnante è del tutto libero di concepirsi, magari un po' presuntuosamente, come un autentico filosofo, egli, tuttavia, è tenuto, proprio in quanto insegnate, a conoscere e a chiarire agli studenti, prima del proprio pensiero, il pensiero dei diversi filosofi che nel corso della storia hanno affrontato quella determinata questione.
Una tale impostazione ha prodotto evidenti effetti positivi ma anche altrettanto evidenti effetti negativi. Tra i primi vale la pena sottolineare il valore dei testi scritti dai filosofi o aspiranti tali italiani. Mi limito ad un accenno a quelle pubblicazioni che sono l'esito di un dottorato: si tratta, nella maggior parte dei casi, di lavori ampi e seri, ricchi di bibliografia e di citazioni, che rivelano una comprensione approfondita della filosofia e/o del filosofo studiato e del contesto storico in cui essi si sono mossi. I nostri giovani studiosi sono tutti in grado di leggere e studiare opere scritte almeno in due lingue straniere, e questo non è affatto da sottovalutare se si tiene presente che spesso molta letteratura filosofica straniera, eccessivamente esaltata dal nostro irriducibile provincialismo, si limita ad utilizzare solo testi scritti in inglese. A mio modesto avviso le monografie scritte da studiosi italiani sono, per completezza delle fonti citate e per capacità di analisi dei contesti storici in oggetto, tra le migliori pubblicazioni in campo internazionale. E questo, evidentemente da chi è in grado di leggere un testo di filosofia in italiano, è ampiamente riconosciuto.
Tra gli effetti negativi bisogna invece riconoscere la tendenza a risolvere l'insegnamento della filosofia in una sorta di carrellata di ritratti di pensatori all'interno della quale l'ultimo pensatore studiato sembra essere inevitabilmente il migliore. Il professore, obbedendo agli obblighi imposti del programma, illustra una dopo l'altra le diverse interpretazioni dei filosofi rischiando di trascurare le questioni all'origine di tali interpretazioni. Così facendo lo studente non viene sollecitato a pensare con «la propria testa» ma solo a conoscere e a ripetere il pensiero dei molti filosofi che si sono succeduti lungo una storia millenaria che tuttavia rischia di essere percepita come un'arida ed ultimamente inutile rassegna di «fotografie» di filosofi. L'eccessiva attenzione alla storia si è così trasformata, purtroppo non raramente, in una sorta di inibitore della specifica riflessione filosofica; l'accusa è nota: conoscere la storia della filosofia è importante, addirittura essenziale, ma tale conoscenza non potrà mai sostituire quell'esercizio del pensiero che è sempre un atto personale e drammatico. In altre parole, ecco l'obiezione: l'insistenza sulla «storia della filosofia» spesso ha finito per attirare l'attenzione dello studente più sulla «storia» che non sulla «filosofia».
Più difficile da trattare è l'annosa questione relativa al ruolo politico-sociale degli «intellettuali», nel nostro caso specifico dei filosofi. Senza entrare ora nel merito dell'idea stessa di «intellettuale» (chi è l'intellettuale? Chi decide che qualcuno è un intellettuale? Che lavoro fa o si presume faccia l'intellettuale? Ecc.), mi sembra che valga la pena ribadire, anche per quanto riguarda la situazione italiana, quello che hanno sottolineato due autori francesi. Nel corso di un'intervista Derrida ha affermato: «Se ci si vuole interessare agli "intellettuali", non bisogna limitarsi a chiedere loro dei rapporti inutili, ma è necessario anche leggerli, tenendone conto. Inoltre - sto sognando - qualche volta bisognerebbe pure partecipare ai loro seminari, ascoltando ciò di cui in essi si tratta!» (Derrida 2004, p. 34). Ritorna la questione del testo e della sua lettura. Bisognerebbe leggere i testi degli «intellettuali» e forse bisognerebbe anche tentare di comprenderli; infatti un testo è sempre l'ultimo effetto, se così si può dire, di una lavoro molto più ampio che lo precede e lo condiziona; da questo punto di vista esso non è mai riducibile ad un mero insieme di tesi, ad una sorta di «ricettario colto» come vorrebbero alcuni giornalisti che, divorati dall'immediatezza mediatica, non cercano altro che un piatto «bello-e-fatto». Si accusano i filosofi italiani di non partecipare al dibattito culturale e politico del Paese ma non si leggono i loro testi, e soprattutto non ci si confronta con il più ampio lavoro di cui questi testi sono sempre e solo un momento. In tal senso spesso l'accusa di «assenza» rivolta ai filosofi italiani, e più in generale agli intellettuali, non è altro che il sintomo di quell'impazienza che finisce per rifiutare, accusandolo come al solito di «astrattezza», un pensiero che ha il grande difetto, pensate un po', di non concedersi subito al primo avvenuto. Per fortuna non è affatto obbligatorio, ma se ci si vuole davvero confrontare con il lavoro degli «intellettuali», se ad esempio si crede che sia utile coinvolgere i filosofi nel dibattito culturale, allora non resta altro da fare che leggere le loro opere, che confrontarsi con le loro ipotesi, dando loro qualche volta la parola, e non solo una (bisogna ad ogni costo evitare la trappola del «in una battuta mi risponda: sì-o-no? questo-o-quello? lei è d'accordo-o-no», ecc.) ma più di una, e tutto questo richiede tempo e pazienza, per l'appunto, non lo si può realizzare «in una battuta».
L'altro autore francese che vale la pena ricordare a proposito del ruolo politico-sociale dell'«intellettuale» è R. Barthes: « [...] il potere è presente anche nei più delicati meccanismi dello scambio sociale; non solo nello Stato, nelle classi, nei gruppi, ma anche nelle mode, nelle opinioni comuni, negli spettacoli, nei giochi, negli sport, nelle informazioni, nei rapporti familiari e privati, persino nelle spinte liberatrici che cercano di contestarlo [...] Certuni si aspettano che noi intellettuali ci si mobiliti ad ogni occasione contro il Potere; ma la nostra vera battaglia è altrove; essa si svolge contro i poteri, e non si tratta di una battaglia facile [...] il potere è il parassita d'un organismo trans-sociale, legato all'intera storia dell'uomo, e non solamente alla sua storia politica, storica» (Barthes 1981, p. 7). Anche in questo caso - a meno che non si sia così ingenui da risolvere la presenza dell'«intellettuale» a qualche comparsata televisiva nei talk show o alla firma sotto le infinite petizioni contro questo e a favore di quest'altro - quella che si può definire la «dimensione politica» dell'opera dei filosofi emerge essenzialmente dai loro testi, dal loro modo di insegnare, se insegnano, dalle conferenze che tengono e in genere da tutta l'attività pubblica ch'essi svolgono. In altre parole, non si può ridurre la rilevanza politica di un pensiero filosofico alle eventuali prese di posizione sui cosiddetti «temi d'attualità»; come è ormai noto da tempo, l'«attualità» è un concetto assai vago che non raramente è il frutto di costruzioni mediatiche alimentate da evidenti interessi economico-politici. Non a caso la filosofia, fin dalla sua nascita, si è interrogata sulla doxa dimostrandosi sospettosa nei confronti di tutti gli effetti prodotti da quelli che possono essere definiti «eccessi di evidenza». A tale riguardo vale la pena ripetere alcune ovvietà: «pubblico» non coincide con «pubblicitario», così come la «semplicità» - è l'eterna accusa rivolta ai filosofi, soprattutto dai pigri: siete troppo difficili - non si identifica con quella «semplificazione» che garantisce una certa visibilità mediata al prezzo di una sicura banalizzazione.
Detto questo non si può evitare di sottolineare alcuni limiti significativi che affliggono la filosofia in Italia. Ne segnalo solo due. È nota a tutti la difficoltà a farsi riconoscere ed apprezzare dal pubblico internazionale. Non si tratta solo di un problema linguistico (si continua a ripetere che l'italiano non è conosciuto, che è una lingua difficile da tradurre, che bisogna scrivere in inglese, ecc.), ma è come se la filosofia italiana fosse una delle tante vittime di quell'immagine stereotipata del nostro Paese che rinchiude quest'ultimo all'interno della riserva delimitata dalla gastronomia, dalla moda e dal design. Mentre un cuoco italiano, per il solo fatto di essere italiano, è apprezzato o almeno preso in considerazione, un filosofo italiano, proprio perché è italiano, viene trascurato e spesso sottovalutato. Il confronto con la Francia - un Paese non a caso dalla secolare e consolidata storia coloniale - è da questo punto di vista significativo. Molti dei nuovi libri di filosofia pubblicati in Francia divengono subito oggetto di presentazioni nei Centri Culturali presso le ambasciate francesi nel mondo: l'autore, anche se non ancora famoso, viene invitato a presentare il proprio lavoro e a chiarire il senso della propria riflessione. All'opposto, il nostro sistema di Centri Culturali nel mondo si dimostra del tutto pigro e ripiegato su se stesso; nei migliori dei casi esso si limita a consolidare lo stereotipo di cui parlavo poc'anzi: moda, design, gastronomia, enologia, automobilismo, un po' di cinema e null'altro.
In secondo luogo emerge una sorta di timidezza da parte di molti filosofi italiani. Quest'ultimi, soprattutto i più giovani, è come se avessero rinunciato ad affrontare i grandi temi dell'esperienza umana, è come se non riuscissero più ad elaborare una visione d'insieme delle grandi questioni che da sempre hanno impegnato il lavoro filosofico. Si tratta di una specie di «rinuncia preventiva» frutto di un autentico terrore per ciò che non si esita un istante a considerare come una «tentazione metafisica e totalitaria»: ci si vuole così mostrare modesti e moderni, o post-moderni, ma il più delle volte si è solo timidi e rinunciatari. Questa tendenza è senza alcun dubbio alimentata e favorita dal sistema concorsuale universitario: si pubblica - in verità questo non accade solo in Italia - in vista del concorso, solo per il concorso, e di conseguenza si sceglie di non affrontare temi troppo ampi o scomodi che potrebbero contrariare la sensibilità dei futuri, e soprattutto ignoti, commissari. Avviene così per i filosofi quello che Simmel riconosce in certi filologi: «Certi filologi restano impigliati per tutta la vita nell'indagine delle più futili sciocchezze senza che il vero fine di questo sforzo mediatore, la conoscenza dello spirito di un'epoca o di un individuo, raggiunga mai la loro coscienza. Nell'attività di innumerevoli persone il perfezionamento della tecnica è diventato così fine a se stesso da far loro dimenticare del tutto le mete superiori cui ogni tecnica deve servire» (Simmel 2005, pp. 48-49).
Forse, invece di preoccuparsi del proprio ruolo di «intellettuale», invece di inseguire i faits divers, le soap operas ed i cartoons per dimostrare di essere internazionali ed «attuali», bisognerebbe avere un po' più di coraggio e di umiltà per tentare di essere così «inattuali» da guardare in alto e/o al di là. A me sembra che la filosofia italiana e i filosofi italiani abbiano tutte le qualità per non ridursi ad essere un supermercato di pillole di saggezze al servizio di un sistema mediatico in affannosa ricerca di una patina di nobiltà.
Riferimenti bibliografici
Barthes R. (1981), Leçon. Leçon inaugurale de la chaire de Sémiologie littéraire du Collège de France prononcée le 7 janvier 1977, Seuil, Paris 1978, trad. it. di R. Guidieri, Lezione, Einaudi, Torino.
Derrida J. (2004), «Si je peux faire plus qu'une phrase...», intervista di Sylvain Bourmeau, Jean-Max Colard e Jade Lindguard, Les Inrockuptibles, (n. 435).
Simmel G. (2005), Psycologie des Gelds, ora in Aufsätze 1887-1890, Suhrkam, Frankfurt a.M. 1989, trad. it. di P. Gheri, Il denaro nella cultura moderna, a cura di N. Squicciarino, Armando Editore, Roma.