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Il marxismo italiano e il socialismo reale

Renato Covino

C'è un dato preliminare da chiarire, ossia cosa sia stato il marxismo italiano dalla fine della seconda guerra mondiale all'ultimo scorcio del Novecento. In realtà esso ha in ampia parte coinciso con la vicenda politica del Partito comunista italiano. Nonostante le differenze tra la sua elaborazione teorica ed il marxismo nei paesi di socialismo reale, ma anche di quello "ufficiale" francese, almeno fino ai primi anni ottanta, dovuto alla peculiarità rappresentata dall'elaborazione gramsciana, il rapporto con l'esperienza sovietica rimane stretto e fondante, l'analisi strutturale delle società dell'est pressoché inesistente.
I motivi di tale conformismo sono evidentemente legati a ragioni d'opportunità politica. Ancora nel 1976 in un'intervista a "la Repubblica" Enrico Berlinguer sosteneva che i militanti e gli elettori non avrebbero sopportato una netta presa di distanza dall'URSS, che insomma il mito coltivato durante il ventennio fascista e nel secondo dopoguerra non poteva essere superato senza contraccolpi gravi per il partito. Aldilà, tuttavia, delle convenienze politiche esisteva un dato di fondo che ha attraversato l'intera elaborazione del PCI. Il partito è rimasto legato, infatti, quasi fino al suo scioglimento, all'idea che il capitalismo sia "naturalmente" tendente al monopolio e continuamente attraversato da pulsioni autoritarie e reazionarie. Da ciò la continua riproposizione della politica dei fronti popolari, come alleanza dell'insieme delle forze democratiche, anche d'origine non socialista, come garanzia contro la deriva reazionaria. Questa e non altro è la politica del "compromesso storico", non a caso elaborata dopo il colpo di stato cileno che sembrava confermare tali tesi. Allo stesso modo non è casuale la proposta reiterata a più riprese del "patto tra i produttori" nella convinzione che profitto e lavoro potessero efficacemente allearsi contro le posizioni di rendita, dimenticando come, in una società capitalista matura, finanza, rendita e profitto siano intimamente connessi tra loro. In questo quadro l'esistenza di un sistema economico diverso da quello capitalistico funzionava da deterrente nei confronti delle pulsioni autoritarie e diveniva elemento permissivo dello sviluppo di una democrazia sociale avanzata nei paesi di capitalismo maturo che avrebbe potuto gradualmente consentire l'affermazione del socialismo. D'altro canto la convinzione di Togliatti che il movimento comunista potesse funzionare in modo policentrico, contenuta nel Memoriale di Yalta[1], altro non era che una richiesta d'autonomia dal controllo sovietico. Ciò spiega perché l'invasione della Cecoslovacchia venne definita "un tragico errore", il motivo per cui gruppo de "Il manifesto", che affermava che le spinte aggressive e al controllo rigido del movimento comunista e nei paesi dell'Est fossero connaturate al regime sovietico, fosse allontanato, sulla base di una precisa richiesta sovietica, dal partito. Il ritardo non fu colmato neppure negli anni successivi con la dichiarazione, sempre di Berlinguer, che l'esperienza russa aveva esaurito la sua spinta propulsiva. Nessuna riflessione di un qualche spessore venne fatta sulle società di socialismo reale, sulla loro natura sociale e sul loro funzionamento.
La critica di parte marxista, o presunta tale, del socialismo reale, fu quindi patrimonio delle minoranze socialiste di sinistra, del movimento trosckista e di quello bordighista. A partire dai primi anni sessanta, sulla scia dello scontro cino-sovietico, gruppi che si richiamavano al maoismo ed all'esperienza della rivoluzione culturale cinese svilupparono la loro critica a partire dallo scontro tra Cina e Unione Sovietica. Si tratta in verità di analisi che non sempre hanno corpo teorico "pesante", che molto spesso si riducono a polemica politica e che, tranne nel caso del maoismo, ripropongono analisi e apporti teorici già elaborati negli anni venti e trenta del Novecento con l'affermarsi dello stalinismo. In realtà, l'insieme di queste posizioni non mette tanto in discussione i presupposti della rivoluzione russa, quanto i suoi esiti. I motivi di queste reticenze derivano da elementi che nulla hanno a che fare con l'analisi teorica, quanto piuttosto con l'agibilità politica delle diverse formazioni, che spesso ha bloccato ogni sviluppo d'indagine marxista sul fenomeno.

1. Sono noti i presupposti delle principali varianti critiche. Quella trosckista parte dall'analisi di un teorico d'indubbio spessore com'è il dirigente della principale opposizione a Stalin e, descrivendo la fenomenologia della degenerazione "termidoriana" del potere sovietico, giunge a fine degli anni trenta all'individuazione del fenomeno della burocrazia come elemento caratterizzante la dittatura stalinista, fenomeno eminentemente politico, senza basi proprietarie e quindi rimovibile con una rivoluzione che Trotsky definisce appunto politica, volta non ad un mutamento delle radici economiche e sociali del sistema, quanto alle forme d'esercizio del potere. Da ciò la definizione dell'URSS come «stato operaio degenerato»[2]. Certo non sfugge al rivoluzionario russo che il permanere della burocrazia, alla fine, può portare alla restaurazione di forme sociali di carattere capitalista, trasformandosi da controllo dell'economia in proprietà dei mezzi di produzione e, tuttavia, resiste la fiducia che una ripresa a livello mondiale del processo rivoluzionario possa dare forza a processi di cambiamento nella stessa Unione Sovietica, sovvertendo l'escrescenza burocratica. Vero è che l'esplodere della seconda guerra mondiale accentuava la dicotomia tra ripresa del processo rivoluzionario e restaurazione del capitalismo, ma Trotsky mantenne fino all'ultimo la convinzione che lo stato, che lui definiva di transizione tra capitalismo e socialismo, potesse alfine evolvere verso una società di carattere socialista e democratico. Più radicale è l'elaborazione bordighista che definisce tout court l'esperienza sovietica come capitalismo di Stato. Quando, tuttavia, all'interno della grande crisi degli anni trenta e degli sviluppi che porteranno al secondo conflitto mondiale, intellettuali isolati e/o che si distaccano dai movimenti di minoranza antistalinisti, iniziano la loro riflessione sull'esperienza sovietica, emergono letture diverse e per molti aspetti passibili d'ulteriori sviluppi. È il caso di Bruno Rizzi che individua la natura dell'Urss in una formazione economico sociale di tipo nuovo che definisce collettivismo burocratico, che non ha nulla a che spartire con il socialismo, e dove la burocrazia diviene una nuova classe dominante[3]. Questa elaborazione viene ripresa da due dirigenti del Socialist Workers Party, James Burnham e Max Shachtman, il piccolo partito trosckista americano che nel 1939, dopo la spartizione della Polonia tra Germania nazista e Unione sovietica si avvicinavano alle posizioni di Rizzi, provocando una polemica interna al trosckismo statunitense e con lo stesso Trotsky che provocò la scissione del SWP. Burnham s'impegnerà successivamente nella definizione di quella che chiamerà la rivoluzione dei tecnici, ossia del ruolo crescente delle tecnostrutture e dei manager nel contesto delle istituzioni scaturite dalla crisi e dalla guerra[4]. È una posizione questa che verrà ripresa da un gruppo di giovani studiosi americani, alcuni d'origine trotsckista, che si concentrarono intorno ad Joseph Alois Schumpeter durante il suo soggiorno statunitense. Il grande scienziato sociale, nel suo ultimo lavoro uscito nel 1944, di fronte alle trasformazioni del capitalismo, allo sviluppo delle grandi corporation, ritenendo esaurita la funzione dell'imprenditore come motore dell'innovazione, aveva espresso la convinzione che fosse inevitabile e più democratica una soluzione socialista[5]. Per contro si sostenne che la funzione innovativa era stata assunta dal management, ossia dalle tecnostrutture che si erano imposte nella grande industria americana, in cui il ruolo di mediazione assunto dall'amministratore delegato, senza titoli di proprietà dell'azienda, diviene centrale[6]. In modo diverso tali ipotesi furono riprese in Europa dove la crisi aveva provocato un'ondata di pubblicizzazioni e di statalizzazioni d'interi settori economici e dove il ruolo del welfare e dell'economia mista in realtà viene presentata come un contraltare ed un argine al socialismo sovietico.

2. La conclusione della seconda guerra mondiale interrompe questo dibattito, o meglio lo blocca sugli esiti raggiunti prima del conflitto. Quando viene ripreso ciò avviene in modo criptato, come nel caso del dibattito sulla transizione dal feudalesimo al capitalismo, rispetto al quale Paul Sweezy sostiene che si tratta di una formazione intermedia che ha bisogno di strumenti specifici d'analisi, contrastato da Maurice Dobb che nega l'autonomia del fenomeno[7]. Ciò per molti aspetti era inevitabile. Il ruolo assunto dall'Unione sovietica e dallo stesso Stalin nella vittoria sulla Germania, il tributo di morti pagato dai russi, lo sviluppo tecnico raggiunto dall'URSS, l'espansione della sua area d'influenza geopolitica e poi, la vittoria del maoismo in Cina e l'espansione dell'influenza nei paesi di recente indipendenza, sembravano aver messo nel cassetto la doppia ipotesi di Trotscky o espansione della rivoluzione socialista o restaurazione del capitalismo. Il modello del socialismo sovietico aveva conosciuto un successo inaspettato, anche se non grazie allo sviluppo della rivoluzione, ma attraverso le guerre di liberazione (Jugoslavia) o l'intervento diretto dell'esercito sovietico e gli accordi internazionali di Yalta e di Potsdam. A nessuno a sinistra, soprattutto in Italia e Francia, era concessa una critica al sistema sovietico, pena il salto di fronte politico o l'irrilevanza operativa.
Solo con il 1956, sulla scia dei fatti d'Ungheria, la questione della natura del sistema sovietico riprende forza, sviluppandosi con una certa rilevanza durante gli anni sessanta. È il caso della critica cinese, che s'ipostatizza nella definizione del socialimperialismo, ossia di una formazione economico-sociale ad impianto socialista che si caratterizza nei rapporti interstatuali come imperialista, muovendosi come forza di conservazione dello status quo, dato questo che bloccherebbe lo sviluppo delle forze rivoluzionarie mondiali. Appare evidente, in questo caso, come si sia di fronte ad un uso a scopo politico della teoria. Ma indipendentemente da ciò anche analisi meno "rozze" continuano ad essere piegate ad esigenze politiche e, soprattutto, non offrono molti elementi di novità. Lo stesso celebrato volume di Cornelius Castoriadis sulla società burocratica non fa altro che aggiornare e riprendere tesi già elaborate[8]. Più fondato empiricamente è invece il contributo di Kuron e Modzelewski che ritenevano la burocrazia una vera e propria classe il cui fine non era tanto la realizzazione del profitto quanto l'allargamento della produzione, come base della sua potenza materiale, della sua sfera di dominio sulla produzione e del suo prestigio internazionale. Ciò sarebbe dipeso dall'entità del capitale nazionale, da ciò la tendenza all'estensione dell'apparato di produzione e d'accumulazione. Ciò a parere dei due autori avrebbe spiegato la tendenza a spostare quote crescenti del reddito nazionale in direzione dei beni strumentali, comprimendo il consumo della classe operaia[9].
Il nodo del dibattito rimane, comunque, quello della natura sociale del socialismo reale: se sia un momento della transizione verso il socialismo oppure una formazione economico-sociale autonoma o una forma di capitalismo, nonostante l'intervento decisivo e centrale dello Stato. Su ciò si orientano i pochi autori che si occupano del problema da Immanuel Wallerstein a Henri Lefebvre, da Victor Zaslawsky a Mario Mineo. Zaslawsky, che non può essere certamente accusato di marxismo, analizzando la realtà sovietica afferma che essa non è assimilabile ad un sistema capitalista, che è sicuramente qualcosa d'originale e d'indefinibile con categorie tradizionali e che va indagata con strumenti d'indagine specifici[10]. Per contro Wallerstein insiste sul carattere pervasivo dell'imperialismo e osserva come, anche nel momento in cui interviene una rottura rivoluzionaria del modo di produzione capitalista, pure il nuovo aggregato economico-sociale che ne deriva resta all'interno del quadro della divisione internazionale del lavoro che ne condiziona gli esiti[11]. Lefebvre, sostiene l'esistenza di un modo di produzione statuale che convolerebbe sia pure in modo diverso Oriente e Occidente[12]. Mineo, infine, assume come concetto base il modo di produzione statuale, pur ritenendo che esso potesse essere utilizzato solo per i sistemi di socialismo reale. E, tuttavia, l'analisi di quest'ultimo affronta uno dei nodi eluso spesso da coloro che avevano concentrato la loro attenzione sostanzialmente sulla natura sociale dell'Urss[13].

3. La questione dei regimi di transizione nasceva soprattutto dagli stessi presupposti della rivoluzione d'ottobre. Lenin ed i bolscevichi prendono il potere sulla base della previsione che la rottura ad Oriente avrebbe provocato un'accelerazione della rivoluzione in Occidente. Tale previsione, per molteplici motivi, non si realizzò. Già nel 1921-1922 l'ondata rivoluzionaria si era andata esaurendo. L'Internazionale comunista cercò di promuovere movimenti rivoluzionari in Asia e nei paesi coloniali, per rompere l'accerchiamento in cui si trovava, in realtà si trattò di una strategia senza successo. A metà anni venti era evidente come l'idea della rivoluzione mondiale o almeno in alcuni paesi occidentali economicamente evoluti, fosse destinata, perlomeno, ad essere rinviata. Ciò significava affrontare un processo di modernizzazione accelerata in un paese arretrato, senza strutture politiche e statuali che potessero consentire un andamento controllato e regolato dei processi d'industrializzazione forzata. La cosa era aggravata dal fatto che i bolscevichi avevano costruito la presa del potere sulla base di un'ipotesi statuale basata sui Soviet, ossia su forme di democrazia diretta destinate a deperire rapidamente durante la guerra civile. Il potere, l'intero potere, così si concentrò nelle mani del partito, lo scontro e il confronto politico si svilupparono al suo interno e l'eccezionalità della situazione determinò un regime interno dove la regola divenne l'eliminazione dei dissidenti. I due fenomeni concomitanti provocarono il blocco della transizione e la costruzione di un sistema né socialista né capitalista, privo di qualunque possibilità di controllo e d'ogni bilanciamento di poteri. La questione che si poneva, insomma, non era solo quella della democrazia e della contesa elettorale, del pluripartitismo e della rappresentanza, ma la costruzione di un sistema di contrappesi capaci di frenare, se non eliminare, la crescita e il potere della burocrazia. In ciò il marxismo, in tutte le sue varianti, risultava disarmato, privo com'era di una teoria dello Stato. Era quanto aveva osservato, con ragione, Norberto Bobbio a metà anni settanta. Di fronte a questa obiezione i suoi interlocutori comunisti, ossia del PCI, si limitarono a qualche balbettio, sostenendo, come Giuseppe Vacca, che il marxismo in quanto filosofia critica non aveva bisogno di una teoria positiva dello Stato, o difendendo, come Massimo Boffa, l'esperienza "originale" di sovranità del partito dirigente[14]. In contrapposizione a queste banalità Mineo propone come ipotesi la ripresa della tematica del controllo operaio sulle condizioni tecnico-scientifiche della produzione e una divisione di poteri che imponga limiti al ruolo del partito, ossia una sorta di Stato socialista di diritto. L'idea ha una sua coerenza in quanto l'autore ritiene che lo Stato non sia una sovrastruttura, ma rappresenti un elemento della struttura del sistema economico-sociale, contrastando l'ipotesi dell'autonomia della politica e delle istituzioni.

4. Naturalmente questo dibattito avviato, anche con notevoli contributi, tra la seconda metà degli anni settanta e gli anni ottanta del Novecento[15], era destinato ad arenarsi grazie a due eventi temporalmente sfasati di pochi anni. Il primo è rappresentato dalle politiche neoliberiste di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, che prendevano di mira non solo l'esperienza sovietica, ma anche le risposte occidentali rappresentate dal compromesso socialdemocratico e dal welfare state. Da allora liberalismo e liberismo nelle versioni di destra e di sinistra sono diventati una sorta di pensiero unico che ha uniformato, nelle diverse varianti, l'insieme delle formazioni politiche presenti nell'ultimo ventennio in Occidente. Tale deriva si è andata accentuando grazie al secondo evento rappresentato dal crollo dei regimi di socialismo reale, con la logica conseguenza che l'unico modello rimasto in campo fu quello capitalistico che diveniva l'alfa e l'omega dell'universo politico e teorico. Il dibattito avviatosi a livello internazionale, con esigue propaggini in Italia, era così destinato ad interrompersi bruscamente. Specificamente nel nostro paese per un verso la parte maggioritaria del vecchio PCI preferì, pour cause, glissare sul tema e sposare la vulgata liberaliberista, la parte minoritaria dello stesso scelse di non affrontare esplicitamente la questione o attestandosi sulla diversità del PCI e sulla sua non assimilabilità al comunismo sovietico, o valorizzando le esperienze delle minoranze di sinistra, o rilanciando una sorta di neostalinismo, viatico di una pretesa alterità al capitalismo. Il risultato è che oggi, di fronte ad un'eclisse evidente del liberismo e dello stesso sistema capitalista, così come emerge da una crisi economica di portata analoga, se non superiore, a quella della fine degli anni venti, quella che si definisce come sinistra si trova sostanzialmente disarmata e dal punto di vista della proposta di un sistema economico e sociale diverso dal capitalismo e da quello di una sua possibile organizzazione. D'altro canto mentre Marx acquisisce nuova credibilità scientifico-teorica anche in ambienti lontani dalla tradizione della sinistra, i marxisti o quelli che si pretendono tali o coloro che ritengono il suo contributo fondamentale, non sono in grado di utilizzarne la lezione e di proporre nessuna ipotesi fondata e credibile. Il non aver voluto continuare, per opportunismo, a riflettere sul fallimento di un'esperienza dalla quale, sempre per opportunismo, non si erano prese per tempo le distanze o che era stata frettolosamente liquidata è alla radice di questa impotenza teorica che si risolve o nell'assunzione di un punto di vista contrapposto a quello di partenza o diviene empirismo politico privo di sostanza. Con ogni probabilità siamo nella situazione americana del secondo dopoguerra quando Paul Swezy e Leo Huberman sostenevano che il marxismo teorico statunitense poteva essere ospitato in un taxi (nel caso italiano non si va oltre il pulmino) o più semplicemente vale l'adagio di Schumpeter secondo il quale il marxismo era una cosa troppo importante per lasciarla in mano ai marxisti.

[1] P. TOGLIATTI, Promemoria sulle questioni del movimento operaio internazionale e della sua unità, in P. TOGLIATTI, Opere scelte, a cura di G. Santomassimo, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 1170-1181.
[2] L. TROTSKY, La rivoluzione tradita, Schwarz, Milano 1956.
[3] B. RIZZI, Il collettivismo burocratico, Editrice razionalista, Bussolengo 1976.
[4] J. BURNHAM, La rivoluzione dei tecnici, Mondadori, Milano 1947.
[5] J. A. SCHUMPETER, Capitalismo, socialismo, democrazia, Edizioni di Comunità, Milano 1964.
[6] Cfr. per tutti A.D.CHANDLER jr., La mano visibile, Angeli, Milano 1977; ID., Dimensione e diversificazione. Le dinamiche del capitalismo industriale, Fondazione Assi, Il Mulino, Bologna 1994.
[7] Il dibattito è raccolto in La transizione dal feudalesimo al capitalismo, a cura di G. Bolaffi, Savelli, Roma 1973.
[8] C. CASTORIADIS, La société burocratique, ed. Socialisme ou barbarie, Paris 1973.
[9] J. KURON e K. MODZELEWSKI, Il marxismo polacco all'opposizione, Samonà&Savelli, Roma 1967.
[10] V. ZASLAWSKY, Il consenso organizzato. La società sovietica negli anni di Breznev, il Mulino, Bologna 1981.
[11] I. WALLERSTEIN, Il capitalismo storico, Einaudi, Torino 1986.
[12] H. LEFEBVRE, Lo Stato, Dedalo, Bari 1977/1979; H. LEFEBVRE e C. REGOULIER, La rivoluzione non è più quella, Dedalo, Bari 1989.
[13] M. MINEO, Lo Stato e la transizione. Un saggio sulla teoria marxista dello Stato, Unicopli, Milano 1986.
[14] Cfr. per gli interventi citati Il marxismo e lo stato, Quaderno n. 4 di "Mondoperaio", 1976.
[15] Si vedano in particolare anche: J. HIRSCH, Elementi di una teoria materialistica dello Stato, Surkamp, Verlag 1973 e in particolare il saggio con lo stesso titolo del volume; N. POULANTZAS, Classi sociali e potere politico, Editori Riuniti, Roma 1975, ID., Classi sociali e capitalismo oggi, Editori Riuniti, Roma 1975; C. OFFE e R. LENHART, Teoria dello Stato e politica sociale, Feltrinelli, Milano 1979.

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