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La città e il pensiero. Benjamin con Valéry: un sogno parigino intorno al millenovecentotrenta

DOMENICO SCALZO
Articolo pubblicato nella sezione Immaginazione e politica.
Perché Valéry?
Perché ha scritto Monsieur Teste.
Perché per tutta la vita si vide vivere.
Perché fu un semifolle di lucidità senza oggetto.
Perché ha scritto: qualsiasi cosa io pensi di me,
quello che penso non è me.
Perché tutto quello che aveva fatto gli sembrò niente.
Perché tutto quel che fece, lo fece senza credere.

Alberto Signorini

Calarsi nel vortice dell’origine, non giacere sotto le mura della fondazione: pensare la città è l’esperienza di un divenire, del trapassare di ciò che nasce, mai una morta rappresentazione. Parigi fu per Benjamin un tale fenomeno d’origine. La forma sotto la quale un’idea sempre di nuovo si confronta con il mondo storico. L’immagine dialettica della modernità. Ma anche il progetto di un libro mai scritto. Un libro capitale, bello e impossibile. L’allegoria di una catastrofe. I Passagenwerk sono il teatro di tutte le sue lotte intellettuali (Benjamin 2002). Non c’è esperienza o riflessione di Benjamin sulla città che non venga attratta dal suo centro vuoto, visitata dal fantasma dell’opera. Le strade a senso unico corrono in una direzione obbligatoria, finiscono in questo sterminato campo del sapere, come riemerse da uno scavo archeologico del capitalismo. Entrandoci non sai più bene se sei davanti a un reperto, una rovina, un materiale da costruzione, il tempo ritrovato delle possibilità, o tutto questo insieme, quasi che leggere significasse inoltrarsi in un intricato labirinto di desideri, speranze, illusioni e angosce, ognuna cristallizzata nella più visionaria architettura del XIX secolo, il tempo divenuto spazio – i passages. I passages di Parigi, accessi a una città infera, varchi davanti ai quali di giorno passiamo senza notarli, ma in cui di notte, nel sonno, torniamo a infilarci, dove tu ora ti trovi, un dedalo di ferro e vetro in cui il filo del discorso si sposta, imprendibile, sotto lo sguardo ozioso del flâneur che l’attraversa. Una città in miniatura, case che sembrano strade e strade che sembrano case, dove tu ora sei fermo a guardare, come su di una veranda, in un sogno che altri hanno sognato.
La città esige una filosofia del transitare. L’essere luogo di mescolanza e improvvisazione, di mutabilità e di situazione, di trasformazione continua e di una rete di eventi, richiede una corrispondente mobilità, un’immersione percettiva, emozionale, sensoriale, nei suoi percorsi, tale che essa possa divenire teatro di nuove costellazioni mai viste prima. La flânerie è l’allegoria di un incontro tra il pensiero e la città. Benjamin si imbatte nella conoscenza di un tale sapere, elabora i suoi dati morti come un che di esperito e vissuto. La sua dialettica in stato di arresto scruta la stella della redenzione. Chi cammina a lungo per le strade senza meta è colto da un’ebbrezza. Il flâneur cade in estasi. L’attività intenzionale lascia spazio a una fantasmagoria. Egli elabora una forma nuova di appercezione e un nuovo modo di girare la città. Egli non visita la città, l’aggira come uno spettro; la città non ha per lui più centro, né luoghi sacri cui accedere. Certo, si succedono dei nomi lungo le sue vie, durano monumenti nelle sue piazze, ma sono simboli che riposano in se stessi, simulacri, maschere che perdono la propria aura non appena il flâneur gli passa accanto e va oltre, o muove verso quell’altra piazza lontana nella nebbia, dietro la schiena di una donna che cammina avanti. Eppure quando le cose hanno perso la loro utilità e la loro funzione, solo questo rimane di loro, il nome. La traccia della lingua pura della creazione. Un simbolo muto. Agli occhi del flâneur la città è una e bina, il tumulto del traffico l’indice segreto della sua vita nervosa. Stracci e piume presi in qualche dormitorio. Come vesti preziose orneranno la vita di una passante. «La sua maestà di dolore. La dolcezza che incanta e il piacere che uccide» (Baudelaire 1996, p. 191). Sarà un amore all’ultimo sguardo. Ora tu hai in mano il libro, non puoi spezzare il suo incantesimo. È un attimo di cristallo. Tu fai esperienza della facoltà mimetica della verità, percepisci affinità tra le cose, doni a esse la possibilità di riguardarti, assumi la loro figura. Sei la cosa stessa e il suo pensiero. La vita di un’immagine.
Chi legge i saggi di Benjamin su Baudelaire e Parigi diviene egli stesso un flâneur, trascorre la propria esistenza nei passages, si immerge in quel mondo di sogno, dove ogni cosa appare vicinissima e lontana, viaggia in città, si abbandona sul posto, dialoga con le sue leggi come fossero i propri antenati, si rivede Socrate al Pireo, si reca al mercato, si cala nell’acquario metropolitano, scende in quel mondo di divinità ctonie, si unisce alla folla, diventa suo complice; ma, come un flâneur, anche egli nuota controcorrente, sabota il traffico, distaccandosi dalla folla nello stesso istante in cui ad essa si confonde, per fulminarla improvvisamente nel nulla con uno sguardo di disprezzo senza che un demone gli consigli cosa fare. Chi legge quei saggi va in cerca di un’illuminazione profana. Si butta in un cinema con una pietra al collo. Getta l’occhio nel sepolcro. Vede la storia della città. La sua storia originaria. Come la favola bella divenne il mondo vero. È un film sull’alienazione. Lungo un tale paesaggio originario del consumo, tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria, ogni cosa diviene merce, il valore d’uso evapora nell’indifferenza formicolante dello scambio. «Un nuovo territorio ha inizio come un passo nel vuoto» (Benjamin 2002, p. 94). Come se i titoli di coda potessero scorrere prima dell’ultima scena. La strada ha condotto il flâneur attraverso un tempo scomparso. La trasvalutazione di tutti i valori è un’attività onirica. Ha prodotto feticci ma li scambia per realtà. Dell’eterno ritorno appare soltanto una fantasmagoria della felicità. E tuttavia un luogo in cui sentirsi a casa, come in un intérieur segreto, residuale, dove poter alzare la propria barricata, esiste da qualche parte. Forse in basso o nel più ampio cerchio dell’essere sociale. Un risveglio dal sogno è ancora possibile. Rivoltare la morbida fodera del tempo un atto imminente. Il mondo possiede il sogno di una cosa, di cui solo deve possedere coscienza per possederla veramente. Quell’inferno si solleva alla coscienza. Chi ha portato la propria pelle alla conciatura chiede il conto. Strappa le sterpaglie del mito con l’ascia affilata della ragione. La classe non cade preda dell’orrore che adesca dal fondo della foresta. Il suo nerbo migliore resiste. «L’ideale urbanistico di Haussmann erano gli scorci prospettici attraverso lunghe fughe di viali» (ivi, p.15). Lo scopo del suo lavoro demolire interi quartieri per garantire la città dalla guerra civile. Ma sbagliò i calcoli. O fu per un’eterogenesi dei fini che l’alienazione si rovesciò nell’abolizione dello stato di cose esistenti. Mentre Parigi fioriva di speculazione finanziaria, i poveri, i vinti e altri ancora cominciano a prendere coscienza dell’inumanità della metropoli. L’ora della conoscibilità batte il tempo. La Comune è dietro l’angolo. I selciati delle strade si ricoprono di schegge messianiche. Mai la città sarà sentita come propria e di altri quanto in quell’ultima rivoluzione nel cuore di Europa. Fu un attimo e si portò via l’illusione che il compito del proletariato fosse quello di condurre a termine, in collaborazione con la borghesia, l’opera dell’89. Gli orologi riprenderanno a funzionare. Il nastro si riavvolge. Parigi si ripopola. «Il sole ha ripulito coi suoi polmoni ardenti i viali che una sera pullularono di Barbari» (Rimbaud 1988, p. 99). E tu non sarai più incline ai sogni, al tuo lato infantile. Rimarrai a chiederti come liberare le immense energie della storia ancora assopite in quel «c’era una volta».
Noi non faremo una flânerie. Il flâneur vede ancora la città dall’interno, non si ritira nell’assenza di luogo. Né tocca i luoghi di bando della città. Noi ci rivolteremo alle luci della città, la luce glauca dei passages, infrangeremo le sue vetrine di gloria. Non inseguiremo le sue mode. Daremo un taglio netto ad ogni novità. Faremo ancora pratica di un’analisi spettrale, ma contempleremo i ritmi della città da un punto di vista più obiettivo. Busseremo alle porte dell’io puro, apriremo una finestra nella monade, ci affacceremo sui suoi pensieri, dove si offrono vedute pure come fenomeni d’origine. Ma non sporgeremo la testa all’esterno. Ci guarderemo dentro. Prolungheremo nella mente le prospettive che abbiamo davanti agli occhi in modo tale che le implicazioni di codesto spettacolo portino con sé le relative spiegazioni. Nessuno creda però che per una tale via l’ignoto della città diventerà noto. Attingeremo a una fonte di Benjamin. A un poeta filosofo per il quale la fonte è stata tema di pensiero, una sua idea fissa, il luogo dove l’acqua trova la sua sorgente, ma anche il punto in cui esso non può più ritornare, sempre che non si illuda di farlo, intorbidendo l’intelligenza che lo muove a bere quando ha sete d’assoluto. Ci sveglieremo a Parigi dopo aver sognato di trovarci in mare aperto. La città circonderà il nostro silenzio con tutto quel che accade al di là delle nostre mura, e sebbene saremo soli essa risuonerà in noi di pietra e di rumori, di fatti e di gesti. La sua presenza si farà strada nella vita del singolo come in quella delle generazioni quasi fosse un ingrossamento del nostro organo intellettuale, una massa critica, un’inesauribile energia. Non penseremo alla città, sarà essa a pensarci. Incontreremo Paul Valéry. Meglio ancora, faremo conoscenza della sua personificazione più esigente, della figura in luogo della maschera, della coscienza nuda del poeta, di Monsieur Teste (Valéry 1980).


2

Valéry fu per Benjamin una presenza discreta, un esergo, una nota a margine della sua opera. Egli è in testa a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Benjamin 2011, p. 3). L’idea che la tecnica influisca sui processi dell’invenzione e giunga a modificare il concetto stesso di arte corrisponde a una sua citazione. Ma è anche nel corpo del suo Baudelaire, ne recepisce gli chocs, passa al limite del poetato, coltiva il campo di lotta de I fiori del male, indica l’emancipazione dalle esperienze vissute, lo stato d’eccezione dell’opera, la sua ragion di stato, il vuoto che si colma di versi (Benjamin 1995, p. 96). Benjamin e Valéry, il critico delle sopravvivenze e il poeta che in vita pubblicò soltanto libri postumi. Il figlio della felicità che morirà da clandestino in una eterna terra di confine e il santo anacoreta del pensiero, cui non interessavano gli stati di gioia, che fu canonizzato ancora da vivo. Nell’occasione del sessantesimo compleanno dello scrittore, facendone uno straordinario ritratto, Benjamin pensò addirittura di regalare un ex libris a Valéry (Benjamin 1973, p. 42). Il produttore di emblemi accucciato come un omino gobbo sotto il fantoccio chiamato materialista storico suggeriva quale etichetta un potente compasso con una gamba piantata sul fondo del mare e l’altra tesa lontano sull’orizzonte. Un disegno perfetto per illustrare lo spirito esatto dell’uomo, l’apertura della sua mente, l’ampiezza della tensione. Una tensione suscitata persino dal suo aspetto fisico, dagli occhi infossati che alludono a una distanza dalle immagini terrene, a uno sguardo da lontano che permette all’uomo di determinare la rotta della sua vita interiore, come se quelle immagini fossero stelle. Un’esplorazione delle origini, nessuna morta rappresentazione, in quello sguardo che viene dalla notte in cui si irradiarono le immagini e la solitudine lottò con il pensiero, come Giacobbe con l’angelo. La notte bianca di Genova. La notte in cui Valéry smise di scrivere. Una notte bianca di lampi in testa come in cielo, che decompose tutti i suoi idoli e ruppe con un io che non sapeva di potere ciò che voleva, né di volere ciò che poteva. Una notte straziante, rivelativa, di un autunno giunto troppo presto, nella città che avrebbe preferito a ogni altra. Una notte in cui cominciò a illuminarsi quello che succedeva nella sua mente quando pensava.
Ma Benjamin fu anche afferrato dalla incarnazione di Valéry, trovò sorprendente la sua figura, cercò di capire perché il suo autore fosse ritornato dalla sua prima alla sua ultima opera sulla propria creatura raccogliendo un insieme di scritti brevi intorno a quel primo abbozzo di testa, Monsieur Teste, l’opera di tutta una vita, il suo capolavoro. Giudicò il signor Teste una personificazione dell’intelletto, un essere che ricorda il Dio della teologia negativa, un Dio della cui esistenza si può sapere soltanto per via di negazione (ivi, p. 44). Comprese come nulla di umano entrasse nel suo raggio d’azione, come soltanto una quota di inumanità fosse là investita, il premio di un enigma, tale che il pensiero rappresenta l’unica sostanza con cui si può formare ciò che è perfetto. Ovvero che la costruzione del personaggio si compie sulla soglia in cui un’idea si confronta con la storia prima di scomparire dove nessuno può raggiungerla. Benjamin si congeda da Valéry voltandosi per una volta ancora verso il promontorio del pensiero. Vede un uomo teso a guardare fin dove può, fino ai limiti delle cose o della sua capacità visiva. Uno sguardo da marinaio esperto in meteorologia che sente avvicinarsi la tempesta, e che conosce troppo bene le mutate condizioni dell’accadere della storia, per non sapere come persino il realismo effettuale di un Machiavelli o di un Richelieu oggi abbia solo l’attendibilità di una previsione sull’andamento della borsa (ivi, p. 46). Ma dall’estremo possibile non disse una sola parola circa la funzione e la presenza di Parigi per un tale sguardo da lontano (Valéry 1994). Aveva raggiunto quell'altezza in modo fulmineo ma il tuono non continuò a lungo a risuonare nel suo testo. Benjamin si rifiutò di credere che la città fosse al capo della costruzione dell’io impersonale, assisa nelle vette, ovvero spinta dalle correnti ascensionali della politica del pensiero nella ragione pura in cui la verità muore all’intenzione per ritornare alle cose stesse. Eppure chi se non lui, lui cui era evidente l’analogia tra l’automatismo del lavoro industriale e il colpo di dadi del gioco d’azzardo, avrebbe dovuto spendere una parola circa l’intuizione che ogni città è un’immensa casa da gioco, un ambiente carico di occasioni e di prede che scatena la fantasia verso tutte le promesse dell’incerto (ivi, p. 122). Ma anche il luogo dove lo spirito e il capitale lanciano la loro sfida per l’egemonia. La sfida di un mondo invertito lanciata su quel medesimo tavolo che viene portato al mercato. La scommessa che cori di giubilo si eleveranno quando esso si trasformerà in una «cosa sensibilmente sovrasensibile, diventerà una merce, e non starà soltanto con i piedi per terra, ma si metterà a testa in giù, sgomitolando dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili come se cominciasse a ballare» (Marx 1989, p. 103). Chi se non lui avrebbe dovuto sobbalzare dalla sedia, nel suo posto di lavoro, in biblioteca, davanti alla considerazione che Parigi è la capitale della qualità e della critica, il regno di una mobilitazione totale della mente, tale che pensarla si confonde con il pensare l’intelletto stesso (Valéry 1994).
Chi aveva avvistato l’invisibile costellazione tra pensiero e città, chi aveva osservato come la topografia fosse la proiezione dello spazio mitico della tradizione, da poter addirittura diventarne la chiave, e che essa andasse ricostruita a partire dai passages e dalle porte, dai cimiteri, dai bordelli e dalle stazioni, allo stesso modo in cui un tempo essa si caratterizzava attraverso le chiese e i mercati, avrebbe dovuto corrispondere all’immagine di Parigi di Valéry, restituirne la storia se non proprio effettuando un montaggio letterario almeno trascrivendone il pensiero. Il suo metodo di lavoro esigeva di rendere giustizia alla citazione nell’unico modo possibile per un’opera, usandola, ma una tale gala del pensiero non verrà mai appuntata da Benjamin al vestito de I «passages»: «Mi raffiguro la pianta topografica dell’enorme città, e nulla mi pare rappresenti meglio il campo delle nostre idee, il luogo misterioso dell’avventura istantanea del pensiero, di questo labirinto di strade, alcune tracciate come a caso, altre nette e rettilinee… E mi dico che in noi vi sono viali, incroci e vicoli ciechi, né mancano angoli sinistri e punti che bisogna temere. Ve ne sono anche di affascinanti e di sacri. L’anima contiene tombe; così come racchiude i monumenti delle nostre vittorie e gli edifici svettanti del nostro orgoglio. E noi sappiamo che nella nostra città interiore, dove ogni istante è un passo che vi compie la nostra vita, un’attività incessante partorisce il bene e il male, il falso e il vero, il bello e l’orribile, tutti i contrari che sono nell’uomo e lo fanno uomo, così come in una capitale essi necessariamente si uniscono e fortemente si contrastano» (Valéry 1994, p.127).


3

Certo Benjamin non poteva sapere nulla della scrittura dei Cahiers; che per cinquant’anni, quasi ogni giorno, fra le quattro e le sette del mattino, prima che in casa qualcuno facesse rumore, Valéry era un altro, forse proprio il signor Teste, che, non ancora indossata la sua veste quotidiana di illustre poeta e saggista, tutto si trasferiva in sé, entrando nella stanza che solo era sua; esercitato dalla propria testa per una serie di manovre interiori di cui sentiva fisiologicamente il bisogno, come una maschera nuda che calca il teatro del proprio io; che in quelle ore egli diventava una pura attività mentale che scrive se stessa, uno strumento d’osservazione di questa medesima scena dell’intelletto, un congegno di cui egli si imponeva di aumentare la precisione (Valéry 1986). Se avesse potuto leggere quei Quaderni Benjamin avrebbe riconosciuto, oltre al movimento, il vero stato d’arresto del pensiero, la relazione dialettica tra l’attimo del risveglio e l’adesso della conoscibilità, la soglia mobile tra la coscienza onirica e la coscienza della veglia, una verità carica di tempo fino a frantumarsi, un sapere non ancora cosciente di ciò che è stato, ma anche la restituzione delle cose alla loro integrità, il ricordo che troviamo del sogno, il carattere distruttivo cui basta quel poco che ha – delle sentenze smozzicate, la costrizione al silenzio, la lingua pura –dopo aver messo un linguaggio in stato d’accusa, per custodire il meccanismo con cui vengono istituite e organizzate le relazioni tra il noto e l’ignoto. Egli avrebbe riconosciuto una tale costellazione di pensiero in atto nella propria potenza di essere. Avrebbe visto con i suoi stessi occhi un altro se stesso che aveva ricevuto in dote un dono avvelenato, la disciplina dello spirito libero, la volontà inesausta di fare piazza pulita nella propria mente, l’ordine di rimuovere le incrostazioni romantiche del desiderio, le cose vaghe e impure, il velo di maia delle illusioni ma anche le tossiche allucinazioni della realtà, affinché apparisse il solido nulla nella sua forma più esatta e rigorosa, cioè la mancanza di oggetto al fondo di un esercizio spirituale indifferente all’applicazione delle forze. Ma non ebbe il tempo di farlo.
Benjamin fu all’oscuro di cosa avvenne, per anni, in una casa di Parigi, all’ora del risveglio; di un uomo in gioco nel punto di rottura del tempo, di un altro «adesso della conoscibilità» in cui le cose assumevano la loro vera espressione. E tuttavia ci sarebbe stato Monsieur Teste in qualche libreria d’antiquariato che avrebbe potuto indicargli una strada laterale alla sua, il civico di un pensiero assorbito interamente dall’oggetto in cui sprofonda. Ecco il libro necessario per trovare la chiave della neutralità totale rispetto ai concetti di oggetto e di soggetto, gli avrebbe detto l’omino gobbo, dove un uomo di vetro abita un intérieur come fosse un guscio vuoto, uno schematismo puro, in cui la vita non alligna più e nessuna traccia di avvenimenti o di incontri fortuiti è lasciata dalla cattiva infinità dell’intelletto e dall’immaginazione che sta al suo servizio. Ma egli non si recò in quel passage. Né ascolto le voci di dentro. Per una volta ebbe paura che due specchi potessero guardarsi l’uno nell’altro. Pensò che la vertigine dell’infinito fosse un trucco satanico (Benjamin 2002). Se mai ebbe in mano quel libro ne giudicò l’intelligenza privata, soppesò la virtù del processo metodico che gli apparve consistere nel tentativo di portare il ricercatore al di là di se stesso, si fermò davanti al malinconico segreto del Signor Teste, non lesse avanti. Galeotta non fu per lui la lettera di Madame Émile. Restò in quell’appartamento borghese come in un luogo chiuso di implicazioni. Ma la città stava fuori da quella porta. La vecchia città con le sue viuzze tortuose e tutte ciottoli, e quell’antico giardino ove vanno la sera gli innamorati, tutti quelli che hanno dei pensieri, delle preoccupazioni, o che parlano con se stessi, quel luogo di rovine botaniche, degno dei morti, che attende Teste e la sua signora al crepuscolo del giorno, non sviluppò l’arte di citare senza virgolette né recò un particolare pathos della forma alla sua opera (Valéry 1980, p. 57). La città e il pensiero. Là essi scenderanno, come l’acqua va verso il fiume, insieme a tutti i possibili assenti, e di ogni specie, a cercare le loro scambievoli lontananze, piacendo a loro vedersi senza conoscersi e ai loro malumori separati incontrarsi nell’ora in cui la solitudine si concede un riposo da se stessa (ivi, p. 58). Benjamin sfogliò l’indice del libro, si ricapitolò nel suo incantesimo, ma cercò di svelare i trucchi di quel regno di ombre. Non capì che Teste era fatto della medesima materia dei suoi sogni. Né aprì le pagine sulla grande città di cui l’amico scrive in un’altra lettera. Eppure era la stessa città di cui egli andava raccogliendo appunti e materiali in centinaia e centinaia di fogli.
Una lettera rubata al sogno. Il racconto del ritorno a Parigi dopo una lunga assenza, un viaggio in treno che parte sotto il forsennato rumore della velocità, dei suoi gemiti meccanici, della rottura dei ritmi del tempo, di un uomo ubriaco di fantasmi che girano su se stessi, di visioni finite nel nulla, di luci lacerate; di un viaggio che sconfina nella metafisica donde l’essere dell’intelligenza opera per proprio conto il suo cambiamento di presenza diversamente dalla coscienza ancora preda della fantasmagoria (Ivi, pp. 70-71). Benjamin non sentì di arrivare a Parigi salendo su quel rapido. Perse quel treno oppure non lo prese. Il demone dell’analogia non afferrò l’angelo della malinconia. Lo sferragliare delle rotaie non annunciò la possente vita verbale della città, né avanzò verso una nuvola di parole. Quell’insensata agitazione del linguaggio, frequenze e risonanze della lingua che il duro mormorio del treno accompagnava come un brusio di alveare, tacque nella sala di lettura della Biblioteca Nazionale dove egli meditava la sua Parigi. Che vi potessero essere delle scritte che gridavano, delle parole che erano uomini e degli uomini che erano dei nomi, lo ignoravano anche le tante fiabe che egli aveva letto nella sua vita. Restava un solo modo di saperlo dinanzi alla superficie trasparente del suo posto di lavoro, in quell’inviolato cerchio magico dalle figure che andava evocando: guardarsi nella nera pupilla di Teste, calarsi nella propria città interiore, come in un sottosuolo che conduce alle madri, attento a non farsi schiacciare da tutti i passi che si compiono in un solo giorno nella città, da tutte le sillabe che vi si pronunciano, da tutte le notizie che arrivano, dagli splendori e dalle miserie delle cortigiane, dal tumulto dello spirito in cui ogni pensiero fa professione dei suoi contrari. Se avesse riconosciuto l’occhio della Medusa che il suo sguardo possedeva, l’uomo di vetro si sarebbe compreso dall’altra estremità del mondo fino alla sua parola silenziosa, ma egli avrebbe ascoltato anche la fusione di rumori dell’ampia strada, le molteplici sfumature del passo delle carrozze e l’interminabile fila degli uomini che anima vagamente le profondità, i mutamenti svariati del mondo, gli indifferenti, la calca generale della folla. Sarebbe stato un fremito di specchi ma avrebbe imparato a tacere, ansioso di non essere un frammento di folla. Uno choc, e quel velo fluttuante attraverso il quale Baudelaire aveva visto Parigi, la folla, avrebbe arrecato un’immagine ancora più densa, un respiro che non l’avrebbe oppresso, «una fiammata d’aria e di uomini che continuamente si rinnova da se stessa, anima, rende vana, previene e talvolta costituisce precisamente il pensiero» (ivi, p. 83).
Valéry era stato il pensatore di Parigi (Valéry 1994). Aveva pensato l’identità culturale della città, e quella identità con lo spirito stesso, la coscienza di una sua missione permanente, ma aveva dovuto arrendersi all’idea assurda che più ci pensi e più ti senti, al contrario, pensato da Parigi. Onde per cui l’abitante della città è contenuto dal suo habitat prima che egli non lo comprenda. Ogni città aveva ai suoi occhi una propria fisionomia, tu potevi distinguerne il volto, la testa, la fronte, una luce particolare. E poi ascoltare il battito, percepirne la sensibilità, godere della sua intelligenza. Parigi, il teatro di una mezza dozzina di rivoluzioni politiche, era una capitale esemplare della libertà e della socievolezza umana. Essa coltivava in sé il fiore e la feccia dell’umanità. Raccoglieva l’élite di qualsiasi specie e custodiva gelosamente in luogo la varietà. «Ogni francese che si rispetti è votato a questo campo di concentramento. Parigi lo evoca, lo attrae, lo esige e, qualche volta, lo consuma» (ivi, p. 130). Tu leggi e mediti una tale idea di città come campo di concentramento, pensi a quale singolare premonizione intorno al millenovecentotrenta: com’è possibile creare una specie d’angoscia senza risolverla. Valéry aveva creato già un suo personalissimo Tableaux parisien nel Monsieur Teste. Riapri il libro. Ecco la città ripopolata ogni mattino di un numero infinito di persone, un’altra genia di perdigiorno il cui principale strumento di lavoro era l’opinione che essi avevano di se stessi e la cui materia prima l’opinione che gli altri avevano di loro. Una razza di eterni candidati alla grandezza cui faceva da contrasto un certo delirio di persecuzione. Meteore politiche e letterarie che attraversavano il cielo illuminandolo di mille sciocchezze prima di cadere in frantumi ai confini di quel mondo. Erano gli intellettuali. Lo choc di una parola nella testa. «Uomini quasi immobili che causavano grandi moti nel mondo» (Valéry 1980, p. 79). Uomini che scrivono e parlano senza tremare. La massa del falso in piena velocità che salta fuori dalla linea del vero. Valéry credette di essere investito dalla loro chiacchiera lungo una curva del suo pensiero in cui la propria intelligenza si tingeva della specie più tenebrosa. Puntò l’indice verso il cielo grigio fumo delle loro idee. Cercava le leggi segrete di quel mondo. Il modo per non battere quell’inferno.
Ma Benjamin avvistò ben altra costellazione di pericolo. A cadere in frantumi fu la medesima verità che muore all’intenzione. Lo spirito eroico della coscienza europea che aveva conquistato il mondo, all’epoca delle scoperte, sulla rotta del tempo omogeneo e vuoto del progresso, era saltato per aria ma non per opera delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione. La caduta aveva provocato un contraccolpo della riflessione che si era ripercosso anche sul pensiero a esso collegato. L’epoca recava una crisi della borghesia europea. L’incubo degli ultimi uomini. Mi spiego. Incapace di guardare in faccia le condizioni materiali del proprio impoverimento, la borghesia estraeva dalla sua miseria una fantasmagoria della felicità diventando uno spettacolo di massa per se stessa (Benjamin 2002). Un gregge al pascolo su di una terra avvelenata che strizza l’occhio al pastore mentre è guidato lungo un deserto che cresce. Un’autoestraniazione che le permetterà di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine (Benjamin 2011, p. 38). Agli occhi di Benjamin il corteo trionfale in cui dominatori di domani passano sopra quelli che oggi giacciono a terra era partito grazie propriamente all’immedesimazione di quella stessa massa con il destino di un capo. Nel giro di qualche anno neppure i morti sarebbero stati più al sicuro (Benjamin 1995, p. 78). Il nemico avrebbe vinto. Valéry si era perso in una nebulosa astratta. Era volato via dietro al suo indice come per assenza di gravità delle forze in campo. Si aggirava in qualche sua orbita pura. Non c’è più immagine che possa giungere a leggibilità nella storia, né adesso della conoscibilità che ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, da quel promontorio ormai deserto di pensiero. Il dubbio cartesiano sul sapere approfondisce soltanto la questione della cosa, si volge contro la nostra capacità di domandare, porta la ricerca al di là di se stessa, davanti al dominio del disumano dove Teste può sentirsi a casa propria come in un habitat naturale (Benjamin 1973).
Benjamin non si accorse della città che gli passava sotto gli occhi: lo spirito del capitalismo, il mercato, la borsa, gli scambi dei fantasmi in baracconi belanti di soli adulti, i bordelli e le graziose, le lotte astratte che prendevano forma di diavolerie, la moda e l’eternità che si tendevano dei lacci, il retrogrado e il precursore che si litigavano il posto da cui si cade oppure il tesoro che il silenzio aveva accumulato, che veniva venduto ad alta voce (Valéry 1980, p. 76). Forse era ancora avvolto da quel manto sognante che il cielo estivo dipinto sul soffitto, un cielo azzurro senza nubi che da alcune arcate guardava giù nella sala di lettura della Biblioteca Nazionale, aveva gettato sul primo frutto delle sue intuizioni (Benjamin 2002, p. 972). Non fu svegliato dal lampo di una luce apocalittica, lui, che, anche nella fresca brezza della solerzia come nel respiro affannoso della ricerca, restava in attesa vigile del Messia. La sua nuda vita non fu messa spalle al muro dal fermento di un insieme di demoni. Lotte, azioni, trionfi solenni, esecrazioni, sommosse, esecuzioni, tragedie attorno al potere non evocarono la lotta per il passato oppresso, l’odio e la vendetta dell’angelo sterminatore. Certo «in questa Repubblica c’eran solo voci di scandali, di fortune rapidamente costituite e di fortune rapidamente distrutte, di complotti e d’attentati. Vi erano plebisciti di camere, incoronazioni insignificanti, molti assassini mediante le parole» (Valéry 1980, p. 80). Non di meno su quella farsa in forma di tragedia mai scese la sera del primo giorno di battaglia, né avvenne che in molti luoghi di Parigi, indipendentemente e nello stesso tempo, si sparasse contro gli orologi delle torri. Tutto questo popolo intellettuale era una folla solitaria, non avrebbe potuto abbracciare il compito del materialista storico. Tra di loro erano puritani, speculatori, esseri prostituiti, credenti che assomigliavano ad atei e atei che avevano l’apparenza di credenti, nessuno che avesse riconosciuto nella storia il segno di un arresto messianico dell’accadere o, detto altrimenti, la chance rivoluzionaria della classe in lotta. Eppure schegge di tempo messianico erano sparse attorno al tempo appreso da quei falsi profeti, spuntavano dal lastricato dei loro cattivi pensieri, come quel che resta del tempo. Ecco. Il tempo che resta corrisponde al vero stato d’emergenza dell’io dichiarato da Monsieur Teste contro lo stato d’eccezione formale dell’intelletto, alla decisione dell’uomo di vetro di far saltare il continuum della storia in nome della durata del tempo, ovvero all’esecuzione di una precisa operazione del pensiero che mai si risolve nell’opera che produce. Il tempo che resta ubbidisce al principio di anarchia che lotta a vita contro gli idola fori della sovranità. Ma di questo ti dirò un’altra volta, quando ritornerai bambino, avrai paura, e ti piacerà che qualcuno racconti delle storie.


E poi occorre essere giusti con Benjamin. Un giorno venne a capo di quel libro. Un angelo, che per un’eternità non smise di conoscere e di non comprendere, glielo diede. Cercò di formarsi dentro di sé una domanda che precedeva tutte le altre e che domandasse a ciascuna di esse quale fosse la loro urgenza. Rivolse quella domanda a Teste, al narratore un po’ ventriloquo del personaggio, all’autore di quella creatura. Lo fece in terza persona. Non io o tu, egli lo riguardava. Comprese la trasferibilità dei pensieri altrui, il loro metodo, le domande che corrispondono al concetto della costruzione di un’opera con la stessa evidenza con cui contrastano all’idea fissa della sua ispirazione (Benjamin, 1973, p. 46). Capì l’anarchia pura e applicata. Il gioco delle voci. Lo potevi ascoltare mentre leggeva quel libro nei passages. Tutto. Sì, è impossibile ricevere la verità da sé medesimi. Non è la poesia soltanto a spossessare l’io dell’atto di parola. Anche il pensiero può venire d’altrove. «Io non so quello che è mio: nemmeno questo sorriso, né il suo seguito appena pensato» (ivi, p. 83). Si disse che evocasse qualche verso. Entre des mots sans fin, sans moi, balbutiés cambiava il senso delle cose. Qualcuno gli sentì dire il faut tenter de vivre. Respirava l’aria della città. Era un paesaggio fatto di pura vita.


Riferimenti bibliografici

Baudelaire C. (1996), Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, Mondadori, Milano.
Benjamin W. (2011), L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di F. Valagussa, Einaudi, Torino.
Id. (2002), I «passages di Parigi», a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino.
Id. (1995), Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino.
Id. (1973), Avanguardia e rivoluzione, tr. it. di A. Marietti, Einaudi, Torino.
Marx K. (1989), Il capitale, I, a cura di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma.
Rimbaud A. (1988), Opere, a cura di I. Margoni, Feltrinelli, Milano.
Valéry P. (1994), Sguardi sul mondo attuale, a cura di C. Papparo, Adelphi, Milano.
Id. (1986), Quaderni, I, a cura di J. Robinson-Valéry, Adelphi, Milano.
Id. (1980), Monsieur Teste, tr. it. di L. Solaroli, Il Saggiatore, Milano.



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