1. Le operazioni coinvolte
L’inizio della crisi può essere rintracciato nella decisione del Presidente degli Stati Uniti e delle principali banche americane di spingere ai massimi livelli possibili la concessione di mutui per l’acquisto di case: il sogno americano doveva essere sostenuto e soprattutto le spese dei privati dovevano continuare ad alimentare un mercato che dava da tempo segni di cedimento. Inoltre molte famiglie, rimaste scottate dalla crisi del 2001-2003, quando era scoppiata la bolla Internet, erano alla ricerca di altre forme di investimento e l’acquisto di una casa era massimamente attraente.
Il mercato immobiliare in espansione sembrava lasciare intravedere che anche in caso di impossibilità di pagare tutte le rate, la casa poteva sempre essere rivenduta ad un prezzo maggiore; le agenzie immobiliari ritenevano inoltre di poter incassare un numero crescente di intermediazioni. Di fronte ad una domanda così attraente le banche hanno cominciato a concedere mutui anche a persone non in grado di far fronte agli oneri dei rimborsi e degli interessi. Si è quindi messo in moto un mercato chiamato “ninja”: no income, no job or assets, cioè mutui concessi a persone che non avevano un reddito, un lavoro o una attività da dare come garanzia. È questa la categoria di mutui subprime, cioè con una attendibilità al di sotto delle rate da pagare, che ingrossandosi ha reso fragile la base economica delle successive operazioni finanziarie.
Le banche, infatti, non volendo attendere il rientro dei mutui già concessi, avevano bisogno di disporre di altro denaro per concedere ulteriori mutui, di cui ovviamente c'era molta richiesta e all’inizio del 1990 avviarono una pratica chiamata cartolarizzazione (o titolarizzazione) che consiste nel “fondere” insieme un certo numero di crediti, in questo caso immobiliari, per trasformarli in titoli obbligazionari negoziabili.
Hanno quindi cominciato a vendere questi titoli, per un valore di poco inferiore a quello dei mutui sottostanti ma che permetteva alle banche di disporre nuovamente di cifre liquide consistenti, essenziali per concedere ulteriori mutui. È evidente che ogni serie di queste operazioni permetteva alle banche di aumentare i capitali nella loro disponibilità, ma anche di guadagnare in termini di interessi, spese amministrative, maggior valore dei mutui indirettamente acquistati, interessi su di essi e così via, oltre che di allargare la propria clientela e di aumentare i guadagni collaterali.
Anche le banche di secondo livello hanno effettuato operazioni simili, vendendo titoli che rappresentavano “pacchetti” di altri titoli, moltiplicando i livelli e coinvolgendo altre banche e offrendo anche all’estero la possibilità di partecipare a questa attività finanziaria. Quindi si è creato un sistema multilevel che permetteva il suo ampliamento continuo, anche fuori dei confini nazionali iniziali e consistenti guadagni per ogni operazione.
Il punto debole di questa logica si è dimostrato essere la troppo elevata quantità di mutui erogati a condizioni di scarsa sicurezza di rientro; appena un certo numero di destinatari di questi mutui si è trovata nella impossibilità di pagare le rate, dal basso verso l’alto della piramide costruita su di loro, si è diffuso un senso di pericolo che si è subito tramutato in denunce di rischi di fallimento e in immediati interventi pubblici volti a tamponare la situazione creatasi. In Inghilterra questo senso di pericolo si è addirittura tradotto in una corsa dei clienti di una delle banche più esposte a ritirare i loro depositi.
2. Gli altri strumenti finanziari finora utilizzati
Mentre la crisi procedeva, passando da allarmi limitati a interi settori bancari a rischio, fino poi ad esplodere in una catena di fallimenti o di salvataggi pubblici all’ultimo momento, sono lentamente emersi una serie di altri strumenti di natura finanziari (contratti, titoli, ecc.), la cui esistenza ha ampliato di molto il senso di rischio e le preoccupazioni degli organismi pubblici preposti alla sorveglianza del settore.
In altre parole, l’espansione della sfera finanziaria è stata alimentata dalla creazione di nuovi titoli o contratti, con clienti o altre banche, che hanno sempre più perfezionato il meccanismo base sopra descritto; più concretamente, i mutui subprime sono stati solo una delle formule adottate per ampliare i mezzi finanziari a disposizione di ciascun organismo finanziario e per ripartire il rischio su più partecipanti alle operazioni.
Proviamo ad elencare i principali prodotti della cosiddetta “finanza creativa”, anche se i dati sulla consistenza e quindi sulla loro importanza relativa sono disponibili solo per alcuni di essi o sono ancora delle stime di larga massima, calcolate da organismi non ufficiali; Rmls (residential mortgage backed security); Abs (assets backed securities); titoli emessi a fronte di una cartolarizzazione di crediti, presenti o futuri; devono avere un rating obbligatorio minimo (da AAA a BBB); Cdo (collateralised debt obbligations), titoli derivati da titoli che contengono mutui e prestiti a rischio; Cds, derivati-polizza contro le insolvenze dei bond; Convenant lite (alleggeriti); Complex investment vehicles (SIV veicoli di investimento strutturati); Securitization (cartolarizzazione); Leveraged buy out; Credit default swaps (particolari polizze per assicurare contro il rischio di fallimento); Ars (auction rate security); Polizze index linked.
Occorre tuttavia evitare di considerare questa finanza creativa come una serie di scatole cinesi di carta o virtuali, come se potessero essere cancellate senza conseguenze così come sono state create. In realtà la moltiplicazione dei mezzi economici disponibili è assolutamente reale, così come i guadagni realizzati da ciascun organismo coinvolto ad ogni passaggio nonché i danni arrecati eventualmente al primo che ha ricevuto il prestito o che ha acquistato i titoli creati su basi così fragili.
Le cifre relative allo “scarico” sul mercato dei nuovi titoli creati sono impressionanti: le prime 25 banche del mondo hanno messo in vendita 599 miliardi di dollari nel 2004; nell’anno successivo 959 miliardi; nel 2006 897 miliardi e nei primi nove mesi del 2007 619 miliardi (la fonte è l’Investment Banking Group della Thomson Financial).
È questa capacità di mettere in piedi la piramide anche inventando nuove formule e di continuare ad ampliarla accumulando successivi profitti che viene riconosciuta ai tanti dirigenti retribuiti con alti salari, stock options e poi sostituiti con liquidazioni altissime (e che in genere sono subito assunti da altre banche o assicurazioni o fondi che sono interessati a partecipare al grande gioco). Ciò significa anche che gli enti attivi nell’area finanziaria quando “falliscono” in realtà hanno già accumulato consistenti profitti, spostati su altre società, oppure che contavano sull’intervento pubblico sia per ripianare le perdite che per ricostituire il capitale sociale. Le banche “nazionalizzate”, a loro volta, riprendono a funzionare con capitali prelevati dalle riserve dello Stato costituite in ultima analisi dalle tasse pagate dai contribuenti, singoli, famiglie o imprese. La pubblicizzazione quindi avviene con fondi forniti involontariamente dal settore privato e a scapito di altre spese sociali.
3. Gli effetti della crisi
Nel primo trimestre del 2007 il 14 % dei detentori di mutui subprime (in gran parte quelli denominati toxic waste, cioè rifiuti tossici) non è in grado di pagare le rate; comincia ad indebolirsi la base economica della spirale dei titoli, poiché le banche del primo livello vedono ridursi le entrate derivanti dai rimborsi dei mutui e devono ridurre le loro aspettative di più lungo periodo (anche se il loro capitale iniziale è ancora garantito dalla eventuale vendita delle case dei mutuatari inadempienti, ma il cui realizzo richiede tempo).
Nel maggio 2007, due dissesti, all’inizio e alla fine della catena dei titoli costituiti da titoli, cominciano ad agitare il mercato. La prima è la Banca Bear Stearns che deve chiudere i suoi due fondi più “dinamici”, in quanto alimentati dalle vendite di titoli basati su “pacchetti” di altri titoli. Ma poi si mette sotto la protezione del capitolo 11 della legge sui fallimenti l’intermediario immobiliare American Home Mortgage Investment, il quale non sembrava avere interessi nei subprime e quindi le preoccupazioni cominciano a montare.
La crisi vera e propria (anche se non ancora riconosciuta ufficialmente come tale) comincia ad agosto 2007, in pratica quando emerge l’esistenza dei “veicoli di investimento strutturato” (SIV), cioè delle società autonome che le banche principali hanno creato per esternalizzare i crediti che hanno verso i richiedenti mutui, che ammontano a più di 350 miliardi di dollari o forse 400 per il complesso delle banche maggiori. Investivano in Abs (titoli emessi a fronte di una cartolarizzazione di crediti) in Francia anche i tre fondi della Bnp Paribas sospesi temporaneamente a fine agosto.
All’inizio di novembre si può affermare che la crisi ha dimensioni ben diverse da quelle indicate in precedenza dalle banche e dalle istituzioni finanziarie. Nei primi giorni di novembre le agenzie di rating Fitch e Standard & Poor's hanno declassato, o minacciato di farlo, grandi gruppi come la Citigroup e la Lehman Brothers; un’analista di quest’ultima banca dichiara inoltre che le perdite provocate dai subprime alle principali banche d’affari potrebbero superare i 250 miliardi di dollari nei successivi cinque anni (di cui almeno 50 miliardi nel 2008), mentre un governatore della Fed rende noto che la crisi sta minacciando anche istituti sponsorizzati dal governo come le due immobiliari Fannie Mae e Freddie Mac.
Inoltre anche la grande banca svizzera UBS denuncia perdite nel settore dei mutui e ai vertici è in corso un conflitto riguardante le responsabilità gestionali.
A metà novembre il segretario al Tesoro americano rende noto che sono iniziate le trattative con Citigroup, J.P. Morgan Stanley e Bank of America per la costituzione di un fondo speciale per l’acquisto di mutui detenuti dalle grandi banche fuori dei loro bilanci normali. Intorno al 20 novembre emerge il caso della Freddie Mac, il colosso pubblico USA che si occupa della cartolarizzazione dei crediti ipotecari accesi per l’acquisto di immobili; le sue perdite tra luglio e settembre superano i due miliardi di dollari, in netto rialzo rispetto ai 750 milioni di dollari dell’anno passato. Ma anche altri sono travolti dalla tempesta dei prestiti subprime: Mark Ernst, dirigente capo della H&R Block, ha rassegnato le dimissioni a seguito delle forti perdite registrate in questa categoria di operazioni; in Francia, Caisse d’Epargne e Banque Populaire, azioniste della banca d’affari Natixis, hanno dovuto ricapitalizzare per 1,5 miliardi di dollari la Cifg, controllata di Natixis che gestisce esclusivamente le assicurazioni contro l’insolvenza delle obbligazioni emesse dalle imprese o dagli enti locali. I titoli emessi da Cifg, come gli altri del settore, fluttuano in genere in senso contrario a quello dei bond sui quali essi costituiscono garanzia di indennizzo in caso di fallimento. Le conseguenze della crisi dei mutui rischiavano di incidere in modo irreparabile sull’equilibrio di tutta la società.
Verso la fine del mese di novembre emerge anche un altro aspetto degli effetti della crisi dei mutui, e cioè l’esistenza a rischio di 2500 miliardi di dollari di titoli emessi non solo dagli enti locali statunitensi, ma anche da organismi come i provveditorati scolastici. Questi titoli sono assicurati da quattro principali società, Ambac, Mbia, Financial Guarantee Insurance Company e Financial Security Assurance, che a loro volta sono certificate dalle ben note agenzie di rating, quasi sempre non molto imparziali.
Nel mese di dicembre la Morgan Stanley, da un lato denuncia una svalutazione del suo capitale di 9,4 miliardi, ben superiore a quella di 3,7 miliardi resa nota solo un mese prima, dall’altro comunica l’entrata nella società della China Investment Corporation, il fondo sovrano della Cina, con capitali statali. Ad esso è stato riservato un aumento di capitale fino al 9,9%, pari a circa 5 miliardi di dollari. Anche la Citigroup ha effettuato da poco una operazione analoga, inserendo il fondo sovrano di Abu Dhabi nel proprio capitale per un valore di 7,5 miliardi di dollari (4,9% del capitale), mentre la banca pubblica cinese Citic ha investito un miliardo di dollari in Bear Stearns.
All’inizio del 2008 appare chiaro che in Inghilterra i tentativi di salvare la Northern Rock, (cercando di attrarre capitali dal Golfo tramite la Goldman Sachs oppure accogliendo le proposte di Branson della Virgin o della cordata Olivant) non sono andati a buon fine e si parla ufficialmente di nazionalizzazione. Qualche giorno dopo, a metà gennaio, emerge ancora la crisi della Bear Stearns: vengono declassati dall’agenzia di rating Moody’s 163 obbligazioni di 15 cartolarizzazioni legate ai mutui emesse da questa banca, che già tre mesi prima aveva iscritto a bilancio perdite per 1,5 miliardi di dollari. Però, siccome sono state prese in considerazione non solo i mutui subprime, ma anche quelli a garanzie intermedie e quelli garantiti normalmente, le perdite potrebbero ammontare complessivamente a 6 miliardi di dollari. Negli stessi giorni la Citigroup rende nota una perdita di 9,8 miliardi di dollari e le drastiche misure adottate: svalutazioni per 18 miliardi di dollari, riduzione dei dividendi del 40%, oltre 20.000 posti di lavoro tagliati e ricorso a finanziamenti esteri per altri 14,5 miliardi di dollari (di cui 12,5 miliardi ottenuti da sette entità, comprendenti i fondi sovrani di Kuwait e Singapore). La Standard & Poor’s ha ridotto il rating sul debito a lungo termine dell’Istituto. La Bank of America ha licenziato 650 persone nella sua unità di investment banking. In Germania è in difficoltà la Hypo Real Estate. E poi una notizia di notevole interesse: Alan Greenspan, ex presidente della Federal Riserve per 18 anni, ha deciso di diventare consulente esclusivo dell’hedge fund Paulson & Co., guidato da John Paulson (che più avanti sarà chiamato a dirigere il Ministero del Tesoro USA!); questo fondo negli ultimi due anni si è mosso controcorrente cavalcando in pratica la crisi finanziaria e guadagnando in tal modo 4 miliardi di dollari.
Sempre negli Usa si registra una perdita in Borsa di quasi il 65% della Ambac Financial Group, il secondo colosso americano delle assicurazioni sulle obbligazioni emesse (cioè una protezione contro i rischi di fallimento), che ha anche annunciato una svalutazione di 5,4 miliardi di dollari.
Visto dall’esterno, si è quindi venuta a creare una situazione quasi paradossale. Il governo di Singapore, attraverso i suoi due fondi sovrani, ha acquisito un ventaglio di quote rilevanti o dirittura di maggioranza relativa: 3,7% di Citigroup con 6,8 miliardi di dollari; 9,4% di Merrill Lynch con 4,4 (o forse 5) miliardi; a dicembre 2007 ha assunto il 10% di UBS con 9,7 miliardi e il 2,1% di Barclays con 2 miliardi a luglio sempre del 2007. Si ha notizia che anche il Fondo del New Jersey, con i suoi 80 miliardi di dollari di capitale, si aggiungerà ai fondi sovrani arabi per sostenere Merrill Linch e Citigroup (anche perché queste due banche danno lavoro a oltre diecimila persone nello Stato del New Jersey).
Sono state comunicate ai giornali le cifre dei super premi del 2007 per banchieri e amministratori delegati; circa 66 milioni di dollari ai dirigenti di Goldman Sachs, Morgan Stanley, Merrill Lynch, Lehman Brothers e Bear Stearns, malgrado questi nello stesso anno avessero distrutto 50 miliardi dollari di valore di borsa di tali banche.
All’inizio della terza decade di gennaio 2008 in Germania la WestLb denuncia la perdita di oltre un miliardo di dollari. In Inghilterra il governo dichiara di essere pronto a nazionalizzare la Northern Rock se fallisse il tentativo di salvataggio da parte dei privati. La Bank of China dichiara una perdita di 4 miliardi di dollari per il suo coinvolgimento in operazioni basate sui mutui subprime (ma le voci parlano addirittura di una perdita doppia).
Il 22 gennaio la Federal Riserve taglia dello 0,75 il costo del denaro: misura superiore a quella adottata dopo l’attentato alle Due Torri e che non si verificava da 22 anni. È un segnale evidente che l’economia reale comincia a risentire delle conseguenze della crisi finanziaria e che il ristagno o la recessione sono alle porte.
In Francia la Societè Generale, seconda banca del paese e con 120.000 dipendenti, comunica di aver scoperto una frode eccezionale operata da un suo giovane trader. Le operazioni in atto dovrebbero ammontare intorno ai 40 miliardi di euro e il danno supera i 4,9 miliardi di euro. La banca ha anche annunciato 2,05 miliardi di svalutazioni legate ai mutui subprime negli Stati Uniti e un susseguente aumento di capitale per 5,5 miliardi (che sarà garantito da Morgan Stanley e J.p.Morgan). L’utile per il 2007 sarà tra 600 e 800 milioni di euro, invece dei previsti 5,5 miliardi lordi. Molti esperti sono increduli sulla possibilità che la banca non si è accorta della massa di operazioni messa in piedi dal trader e alcuni ipotizzano perfino che il “buco” sia stato denunciato per coprire un altro “buco”.
All’inizio di febbraio la banca svizzera UBS, che aveva annunciato una svalutazione del suo capitale per 18,4 miliardi a causa dei titoli basati sui mutui subprime, nonché una perdita di oltre 4 miliardi di dollari nell’anno 2007, è indagata, insieme ad altri 13 istituti bancari, per accertare se abbia gonfiato o manipolato i prezzi di tali titoli.
Negli stessi giorni di marzo salta una filiale del gruppo Carlyle, il super fondo di private equity con 81 miliardi di capitale, cioè la CCC (Carlyle Capital Corporation), specializzata proprio nell’acquisto di titoli derivanti dalle cartolarizzazioni di agenzie semi pubbliche americane. Anche la Thornburg Mortgage ha denunciato un buco di 320 milioni di dollari.
In effetti, la crisi dei mutui reali che è all’origine della crisi, continua a manifestarsi con virulenza: oltre 900.000 case sono in via di pignoramento e di vendita forzata (il 71% in più rispetto al 2006), mentre sono 381.000 le case che hanno iniziato tale procedura negli ultimi tre mesi del 2007; di queste, il 42% sono dei mutui subprime. Intanto a New York è stata avviata la prima azione collettiva contro la Societé Generale, presentata da americani che la accusano di aver rilasciato dichiarazioni false e fuorvianti e di aver tenuti nascosti i dati relativi alle attività del trader che ha causato la perdita di 4,9 miliardi di dollari alla società francese. L’azione è stata intrapresa in rappresentanza di tutti i possessori di Adr (certificati rappresentativi di titoli azionari) e di azioni della SG acquistate tra il primo agosto 2005 e il 23 febbraio 2008.
A metà del mese di marzo si diffonde la notizia che la quarta banca di investimento americana è sull’orlo del fallimento. Il fallimento della Bear Stearns viene evitato con un prestito ponte concesso da JP Morgan, la maggiore banca USA, con l’assenso della Riserva Federale. Questa crisi era prevedibile fin dal mese di agosto 2007, quando erano falliti due hedge funds controllati dalla banca e dopo che nei giorni scorsi la agenzia di rating Moody’s aveva declassato 163 obbligazioni e 15 operazioni di cartolarizzazione. Successivamente la Bear Stearns viene assorbita dalla J.P. Morgan Chase
Ad aprile il FMI segnala che le perdite delle banche europee potrebbero essere di 43 miliardi di dollari, da aggiungere agli 80 miliardi segnalati alla fine del 2007.
Ai primi di maggio il Fondo Monetario stima in complessivi 180 miliardi di dollari l’esposizione delle banche europee legate alla crisi dei mutui, mentre la Merrill Lynch porta a 8 miliardi di dollari la svalutazione del suo capitale e una cifra analoga viene segnalata dalla banca svizzera UBS per il primo trimestre 2008. Solo qualche giorno dopo, il 25 maggio, il Fondo Monetario aumenta la sua stima fino a 200 miliardi di dollari di perdite per le banche europee.
Dopo la dichiarazione di fallimento della Bear Stearns, due suoi dirigenti vengono arrestati per compravendite vietate di titoli della banca e per frodi a danno dei clienti, mentre l’FBI comunica di avere in corso indagini su 1400 casi di possibili truffe e su 19 banche, e di aver effettuato 283 arresti su oltre 400 indagati, operazione denominata “Malicious Mortgage” e avviata nel marzo 2008.
Emerge un primo dato complessivo sulle probabili perdite legate alla crisi dei mutui: il sottosegretario Filip formula una stima di 400 miliardi di dollari, mentre il finanziere Paulson pochi giorni dopo parla addirittura di 1300 miliardi di dollari tra perdite e svalutazioni dei capitali, cifra corrispondente ai mutui subprime emessi nel 2005 e nel 2006.
Il mese di giugno si chiude con l’arrivo alla ribalta di due contratti, altrettanto aleatori dei titoli costruiti sui mutui ad alto rischio, indicati ormai da molti esperti come le probabili cause delle prossime crisi finanziarie. Il primo è in pratica una scommessa sul fallimento di aziende e prende la forma di “credit-default swap”, cioè di una specie di contratto di assicurazione. Il compratore paga un premio al venditore per assicurarsi contro il rischio di default (fallimento) di una terza entità, in genere una azienda o un gruppo. I CDS sono scambiati privatamente cioè “over the counter”, senza prezzi ufficiali e senza cassa di compensazione. Questi contratti, quindi, sfuggono alle rilevazioni statistiche e alla sorveglianza delle banche centrali. Il loro valore complessivo a metà 2008 era stimato in circa 62.000 miliardi di dollari, mentre l’insieme delle Borse mondiali non superava i 55.000, la Borsa di New York i 14.600, l’economia USA (PIL) i 13.800 e il debito pubblico statunitense i 9500 miliardi di dollari.
Questo tipo di derivati è nato a metà degli anni ’90 per opera di un gruppo di geni della matematica finanziaria della J.P. Morgan e secondo il finanziere Soros «si tratta di un mercato completamente non regolato e i suoi rischi sono incalcolabili».
Il fallimento a stento evitato della Bear Stearns comprendeva anche 750.000 contratti di questo tipo. La preoccupazione degli organi di controllo è stata chiaramente espressa nel corso dell’incontro tenutosi il 9 giugno 2008 presso la Fed di New York, che aveva convocato 17 dealer: hedge funds come il Citadel Investment Group e il Blue Mountains Capital Management, e banche come Morgan Stanley e JP Morgan Chase; quest’ultima è il maggior trader (con contratti per 7900 miliardi di dollari), mentre Goldman Sachs e Morgan Stanley sono le maggiori controparti dei contratti.
Negli ultimi 5 anni i CDS sono cresciuti in misura esponenziale: nel gennaio 2002 il loro mercato era stimato in 1500 miliardi di dollari e un paio di anni prima solo l’8% riguardava titoli spazzatura, mentre oggi questa componente ha superato il 40%. Inoltre i CDS non sono solo di un tipo: ce ne sono di molto complessi, basati su indici o su pacchetti di debiti o di titoli compresi i CDO, cioè i collateralised debt obbligations basati su mutui regolari o subprime. Il più grande assicuratore del mondo, l’Aig, pochi giorni fa ha azzerato 9,1 miliardi di dollari di CDS basati proprio su dei CDO.
L’altra zona grigia della finanza internazionale è costituita dalle società di assicurazione “monoline”, che garantiscono il pagamento del capitale e degli interessi legati ai titoli obbligazionari. Questi grandi assicuratori garantiscono in tutto il mondo circa 2400 miliardi dollari. Negli ultimi mesi queste società, Mbia, Ambac, Fgic, XI Capital, Cifg, sono state colpite da giudizi negativi formulati dalle agenzie di rating, che hanno rifiutato loro la tripla A, cioè la valutazione massimamente positiva di affidabilità. Molte grandi banche, americane ed europee, potrebbero svalutare titoli assicurati da queste società per svariati miliardi di dollari, mettendo in crisi il loro equilibrio.
Nei primi dieci giorni di giugno risulta evidente che la Lehman Brothers è nuovamente sull’orlo del fallimento. Anche la AIG , che all’inizio dell’anno aveva perso oltre 50 miliardi di dollari di capitalizzazione, attraversa gravi difficoltà interne, perché deve fronteggiare una rivolta di alcuni azionisti contro le strategie seguite. La Lehman subisce gli attacchi di alcuni hedge funds, sicuri che la banca sia eccessivamente esposta e stia occultando una situazione molto più grave di quella riconosciuta pubblicamente
L’11 luglio la IndyMac Bank di Pasadena, California, specializzata in mutui immobiliari, ha licenziato metà dei dipendenti e chiuso la sede; il giorno dopo la Federal Deposit Insurance Corporation, FDIC, ne ha assunto la amministrazione controllata per 90 giorni per poi venderla, con una perdita pari a 8 miliardi di dollari. Il dissesto è il maggiore della storia bancaria degli Stati Uniti dopo quello della Continental Illinois National Bank nel 1984.
Il 14 luglio si riaccende il dibattito su la Freddie Mac e la Fannie Mae, due agenzie immobiliari semigovernative che da sole devono garantire circa la metà dei mutui erogati negli Stati Uniti, per una cifra pari a oltre 5300 miliardi di dollari. La Fed sta cercando compratori, cioè le principali banche, per almeno 3 miliardi di dollari, altrimenti dovrà lei stessa acquistare questi titoli fortemente deprezzati. In complesso il salvataggio integrale delle due agenzie potrebbe costare alla Fed almeno 25 miliardi di dollari.
Il FMI alza ancora la sua stima del possibile “buco” rappresentato dal complesso dei mutui subprime, che può ormai raggiungere i 945 miliardi di dollari. La Presidenza decide di intervenire e garantisce una disponibilità fino a 300 miliardi di dollari. Sembrano inoltre essere in pericolo due altre banche, la Washington Mutual e la National City, su un totale di almeno 90 banche (altre fonti dicono addirittura 150) in difficoltà.
Anche in Spagna ha sospeso i pagamenti ai creditori una banca immobiliare, la Martinsa-Fadesa, e per salvarla si sono mobilitati la Caixa catalana, la Caixa di Madrid e il Banco Popular, accantonando in totale circa 550 milioni di euro per questo scopo.
Il 22 luglio nuove notizie non positive riguardanti la Wachovia, quinta banca USA. Nel secondo trimestre il deficit sarebbe salito fino a 9 miliardi di dollari, mentre qualche settimana fa ne prevedeva solo 3 miliardi. Come prima conseguenza delle perdite la banca ha annunciato il taglio di 6350 posti di lavoro, mentre già da mesi stava cercando di rivendere le attività della Golden West Financial Corp. acquistata nell’ottobre del 2006 per oltre 24 miliardi di dollari.
Alla fine di luglio si poteva affermare che le banche di investimento americane e le prime dieci banche europee hanno aumentato il ricorso al debito in media dal 30 al 50% tra il 2003 e il 2007; la banca europea più “finanziaria” è la Deutsche Bank, con solo il 10 % dei propri attivi formato da prestiti e con mezzi propri pari ad un cinquantaduesimo di tali attivi, mentre solo tre anni prima gli attivi erano pari a 28,5 volte il suo patrimonio e quindi il loro profilo di rischio è diventato altissimo.
Sempre secondo lo studio della McKinsey, emergeranno 1000 miliardi di dollari di perdite entro il 2010, di cui circa metà sarà sopportata dalle stesse banche; il fabbisogno di nuovi capitali sarà compreso tra i 650 e i 700 miliardi di dollari.
Vengono anche resi noti dati interessanti relativi alle due agenzie semigovernative immobiliari. Intanto si può notare che solo la convinzione che i due istituti fossero ampiamente appoggiati e garantiti dal settore pubblico ha permesso di continuare a funzionare con attività pari a 65 volte il loro capitale (situazione candidamente riconosciuta dallo stesso Greenspan). Inoltre i privilegi concessi a Fanny e Freddie valgono una somma compresa tra i 112 e i 182 miliardi di dollari, cifre analoghe a quelle acquisite dai loro soci. Inoltre i massimi dirigenti della sola Fanny Mae si sono attribuiti compensi per 199 milioni di dollari tra il 1999 e il 2003. Quando hanno cominciato ad acquistare mutui stipulati da altre banche, le attività sono passate in dieci anni da 43 a 395 miliardi di dollari, sempre tante considerate l’esiguità del capitale proprio. L’intervento di Paulson nel 2008 ha garantito l’arrivo di aiuti per un ammontare imprecisato, senza peraltro richiedere in cambio né azioni, né il cambio della dirigenza né delle modifiche al modello operativo. D’altro canto, trattandosi di aziende a capitale privato, il governo non deve iscrivere nel debito pubblico i debiti delle due aziende. Si tratta solo di esborsi di cifre versate dai contribuenti.
4. A un anno dall’inizio della crisi
Ai primi di agosto si registra il primo anniversario della crisi iniziata con il fallimento di due hedge funds facenti parte della banca Bear Stearns, seguiti dalla crisi di due banche in Lussemburgo e in Olanda, e subito dopo dalla denuncia della perdita di 2,2 miliardi di dollari da parte della BNP Paribas in Francia. Sembravano all’inizio delle onde anomale ed invece era solo l’inizio di un maremoto che ha già inghiottito quasi 350 miliardi di perdite dichiarate dalle principali banche del mondo, mentre il Fondo Monetario Internazionale prevede una distruzione di ricchezza che supererà i mille miliardi di dollari. Per la sola Citibank le perdite ad oggi ammontano a 37 miliardi di dollari, mentre la Merrill Lynch ha superato i 32 miliardi di dollari. Il valore delle case è diminuito di oltre un quinto. Eppure sembra che la crisi non abbia ancora raggiunto il suo punto massimo.
A metà del mese, l’UBS comunica di essere tra le banche più colpite dalla tempesta finanziaria, di aver deciso svalutazioni del capitale per 3,4 miliardi di euro, di aver avuto ritiri di fondi per oltre 26 miliardi di euro e di aver quindi deciso di procedere ad una riorganizzazione dell’intero gruppo, separando la gestione dei patrimoni dal risparmio gestito e dal private banking, escludendo invece di voler procedere a delle dismissioni.
Negli stessi giorni negli Stati Uniti assume dimensioni maggiori lo scandalo delle grandi banche che hanno truffato i loro clienti con le vendite di titoli Ars (auction rate security), cioè quel particolare tipo di obbligazioni a lungo termine il cui rendimento viene stabilito ogni sette, ventotto o trentacinque giorni mediante aste al ribasso. Dal febbraio 2008 queste aste non si sono più tenute e le persone che detenevano questi titoli ormai invendibili hanno intrapreso azioni giudiziarie collettive contro le banche fino a farle condannare e multare. Secondo gli accordi poi raggiunti, Citigroup pagherà una multa di 100 milioni di dollari e ricomprerà circa 7,3 miliardi di titoli Ars venduti ai suoi clienti; UBS dovrà pagare 150 milioni di multa e ricomprare oltre 18 miliardi di dollari di titoli; Merrill Lynch dovrà riacquistare 12 miliardi di dollari di titoli. In questi giorni sono entrate nel mirino del procuratore anche Morgan Stanley, Jp Morgan e Wrachovia, sempre con l’accusa di aver spacciato per sicuri e tranquilli titoli altamente rischiosi. Sono esclusi dai rimborsi, ovviamente, i cosiddetti investitori istituzionali, fondi e banche, i quali avevano gli strumenti per trattare titoli finanziari ad altissimo rischio.
La Lehman Brothers sta cercando di vendere 10,4 miliardi di dollari di attività nel settore immobiliare e 29, 4 miliardi in titoli finanziari; in totale 40 miliardi di dollari, quasi quattro volte il valore di Borsa delle stessa banca. I potenziali acquirenti sono numerosi e vanno da Blackrock a Blackstone, da Colony Capital a J.E. Robert Companies. Anche la Neuberg Berman, comprata cinque anni fa e con 130 miliardi di dollari di titoli in portafoglio, potrebbe essere oggetto di vendita da parte della banca.
Negli Stati Uniti riemergono le voci di un probabile fallimento di Fannie Mae e Freddie Mac e crescono le preoccupazioni per Lehman Brothers, Goldman Sachs e JP Morgan. In Germania è costata ai contribuenti quasi 9 miliardi di dollari la IKB, la banca tedesca più colpita dalla crisi dei mutui e rilevata dalla banca pubblica KFW. Oggi è stata acquisita per alcune centinaia di milioni dalla Lone Star, un fondo texano di private equity; nel 2005 lo stesso fondo statunitense aveva rilevato la Allgemeine Hypothekenbank Rheiboden, un istituto di credito ipotecario in crisi ribattezzato Corealcredit che ora potrebbe essere fuso con la IKB.
Verso la fine di agosto il Fondo Monetario Internazionale aggiorna la sua stima sulle perdite complessive della crisi dei mutui: siamo ora a 1200 miliardi di dollari. Con l’ultimo Stability Report uscito in aprile, la cifra si situava intorno ai 950 miliardi; ciò significa un aumento di 250 miliardi di dollari in soli quattro mesi. A fine luglio Merrill Lynch ha ceduto titoli dal valore nominale di 30 miliardi di dollari con uno sconto dell’82%.
5. La crisi emerge in tutta la sua gravità
Il 7 settembre 2008 negli Stati Uniti i nodi vengono al pettine e le due aziende giganti dei mutui (privatizzate nel 1968) vengono nazionalizzate poiché il rischio di un crollo era inaccettabile. All’inizio nessuno conosce i costi reali del salvataggio di Fannie Mae e di Freddie Mac, le cifre fornite variano dai 25 miliardi di dollari ai 200 ripartiti su due anni, a fronte di 5300 miliardi di dollari di mutui controllati o garantiti dalle due società. Oltre alle conseguenze interne verso gli americani che hanno ottenuto i mutui, era anche necessario difendere la credibilità internazionale della finanza USA, poiché molti fondi sovrani (Cina, Stati arabi del Golfo, ecc.) sembra abbiano acquistato centinaia di miliardi di dollari di titoli basati sui mutui.
Pochi giorni dopo si ha notizia di consultazioni continue tra Tesoro, Fed e grandi banche sulle misure da adottare con la Lehman Brothers, senza trascurare peraltro la situazione dell’Aig, il colosso delle assicurazioni e della Washington Mutual.
Tre giorni dopo viene comunicato che sia il Tesoro, sia Barclays Bank (di origine inglese) e Bank of America hanno rinunciato ad intervenire con acquisti diretti, e il lunedì 14 settembre la crisi da tempo prevista è su tutti i giornali nelle sue reali dimensioni.
Il fallimento della Lehman Brothers per oltre 600 miliardi di dollari è di gran lunga maggiore dei fallimenti Worldcom e Enron; sui 25.000 dipendenti complessivi, solo per l’Europa si parla di 6000 licenziamenti (140 nelle sedi di Milano e di Roma). Subito dopo la Merrill Lynch è venduta alla Bank of America per 50 miliardi.
Anche preoccupante il fatto che la Aig, American International Group, la grande società di assicurazioni ha chiesto alla Fed una linea di credito di emergenza di 40 miliardi di dollari; sembra inoltre che il governo abbia chiesto a Goldman Sachs e a JP Morgan di guidare un finanziamento di 70-75 miliardi di dollari per salvare il gigante delle assicurazioni. Inoltre la Fed ha ulteriormente ampliato e resi più accessibili i suoi programmi di credito a breve per le banche, mentre la BCE ha deciso un fondo di 30 miliardi di euro a favore delle banche europee.
Mentre ha lasciato fallire la banca privata Lehman Brothers e ha visto positivamente l’integrazione di Bank of America e Merrill Lynch, la Fed interviene con decisione per salvare il gigante delle assicurazioni, mettendo a disposizione un prestito di 85 miliardi di dollari il 16 settembre, che si aggiunge a quello di 20 miliardi concesso due giorni prima dallo Stato di New York.
Il 17 settembre, malgrado il campo si sia abbastanza chiarito, entra in crisi la Morgan Stanley, (che già nel dicembre 2007 aveva ceduto il 10% del suo capitale al fondo sovrano cinese), che fa registrare la più bassa riduzione del valore delle sue azioni a Wall Street (-44%, poi stabilizzatosi a -37%). Cominciano a circolare voci sulla ricerca di una aggregazione di questa banca con la Wachovia. Ma anche altri istituti di credito risentono delle variazioni di borsa, come la Bank of New York Mellon e Goldman Sachs. Inoltre il moltiplicarsi di interventi pubblici di salvataggio e garanzia (oltre a quelli citati anche una decina di casi di banche minori), ha fatto scendere sotto i livelli di garanzia perfino la dotazione del FDCI, cioè del Federal Deposit Insurance Corp, l’organismo federale che serve come garante di ultima istanza dei depositi bancari, il quale starebbe per chiedere un prestito al Tesoro per far fronte agli impegni rapidamente crescenti.
Viene anche reso noto che la banca inglese Barclays, dopo aver acquistato per 1,75 miliardi di dollari le attività di investment bank della Lehman Brothers, è pronta ad acquistare altre attività in Europa e in Asia; evidentemente tutte le banche che si sono tenute al margine delle operazioni finanziarie oggi in crisi aperta, sono interessate a comprare parti sostanziali dalle banche in difficoltà a condizioni particolarmente favorevoli.
Sempre in Inghilterra entra in crisi un’altra banca, la Halifax Bank of Scotland, il maggiore erogatore di mutui del paese. La soluzione viene ricercata a livello privato, con il tentativo in corso di unirsi con Lloyd’s, quarta banca inglese, in modo da dare vita ad un organismo di ragguardevoli dimensioni. L’operazione viene realizzata in pochi giorni e ne nascerà il primo gruppo bancario del paese.
Tre giorni dopo si scopre che il dissesto di Lehman Brothers provocherà una perdita molto pesante per i circa 75.000 clienti che hanno sottoscritto una polizza vita “index linked” garantita dalla banca di affari americana. Il 18 settembre una operazione coordinata tra Fed e BCE in collaborazione con numerose banche (l’inglese BOE, e le banche centrali di Svizzera, Giappone, Canada e Australia) decide la creazione di un fondo speciale di oltre 200 miliardi di dollari (180 USA e 40 BCE) per aumentare la liquidità negli istituti di credito e riaprire i flussi di prestiti verso l’economia a base materiale.
Il 19 settembre, il governo americano annuncia l’attuazione di un programma di interventi di grandi dimensioni («che potrebbe costare centinaia di miliardi di dollari») e alcuni analisti non escludono che potrebbe arrivare ai mille miliardi di dollari. Sono state adottate anche altre misure: il divieto delle vendite di titoli allo scoperto (diretto a quasi 800 agenzie finanziarie); la garanzia fino a 50 milioni di dollari sulle perdite dei fondi monetari ad alta liquidità; l’attivazione dello Exchange Stabilization Fund, creato durante la grande depressione, per garantire i pagamenti sui mercati dei cambi internazionali; le due agenzie Fannie Mae e Freddie Mac, appena nazionalizzate, aumenteranno l’acquisto di titoli garantiti da ipoteche per sostenere il mercato immobiliare.
Le prime informazioni sul progetto presentato dal Segretario al Tesoro Paulson segnalano l’autorizzazione di interventi per 700 miliardi di dollari, mentre ferve il dibattito politico sui destinatari di questi aiuti: la contrapposizione è tra chi pensa solo a banche e assicurazioni e chi ritiene che anche le famiglie in condizioni abitative disagiate debbano ricevere un sostegno.
Intanto è fallito il dodicesimo istituto bancario americano; Ameribank ha chiuso i battenti e i suoi depositi sono stati ceduti alla Pioneer Community Bank e alla The Citizens Savings Bank.
Per salvarla la FDIC spenderà 42 miliardi di dollari; questo ente per salvare altri istituti ha finora speso circa 15 miliardi di dollari, di cui 8,9 solo per la Inymac.
In Inghilterra un’altra banca viene travolta dalla crisi finanziaria, la Bradford & Bingley. Da un valore di 10 miliardi di euro all’inizio del 2007 l’istituto è precipitato a meno di 500 milioni e i tentativi di ricapitalizzazione sono andati a vuoto. Ora si tratta di salvare 2,5 milioni di correntisti e 337 filiali in tutto il paese. L’idea di comprare circa 80 miliardi di euro di quei titoli che ormai sono carta straccia non è molto popolare in Inghilterra, ma si dovrà scegliere tra nazionalizzare la banca, e venderla all’estero o a una cordata inglese.
Tra domenica e lunedì precedenti il 23 settembre la Federal Reserve ha convertito la Goldman Sachs e la Morgan Stanley, le ultime due banche d’affari rimaste, in banche ordinarie che saranno tutte assoggettate alle stesse regole e controlli delle banche commerciali, cioè potranno anche raccogliere depositi ma dovranno rispettare i livelli di riserve imposti dalla banca centrale. Capitali giapponesi sono entrati nella Morgan Stanley (Mitsubishi 20%) e nella Lehman (Nomura ha rilevato le sue attività asiatiche). Ma le Borse continuano fortemente ad oscillare, mentre imprese come la Nike e la Microsoft hanno iniziato a riacquistare titoli propri sul mercato (la prima per 5 miliardi e la seconda 40 miliardi di dollari). In Danimarca la banca centrale e altre banche locali hanno salvato, concedendo di prestiti, la EBH Bank, un istituto di credito regionale al tracollo sempre a causa delle crisi dei mutui.
Il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale alza nuovamente le stime sui danni complessivi della crisi, ormai pervenute a 1300 miliardi di dollari (200 miliardi in più di quelle formulate dallo stesso FMI pochi mesi fa). Intanto l’FBI continua le sue inchieste per frode su 26 banche americane, comprese quelle fallite di recente.
Le banche europee sono nuovamente nella bufera: il gruppo belga-olandese Fortis ha fatto registrare un forte calo in Borsa, anche se i suoi dirigenti hanno dato immediate rassicurazioni sulla sua solidità
Negli USA continua il dibattito al Congresso sul piano Paulson, che incontra la ostilità di molti repubblicani mentre il presidente Bush assicura che il piano sarà approvato. Il 26 settembre viene annunciato il fallimento della Washington Mutual, i cui attivi, le 2200 filiali e i 43.000 dipendenti sono stati ceduti alla JP Morgan Chase per 1,9 miliardi di dollari. Ma la banca acquirente ora necessita di almeno 10 miliardi di dollari di capitale fresco che ancora non è chiaro da chi sarà messo a disposizione, mentre la svalutazione della Mutual dovrebbe raggiungere i 20 miliardi di dollari (coperti dalla Morgan).
Anche la Wachovia, la quarta banca statunitense, ha perso il 20% del suo valore di borsa, ma fino a pochi giorni fa sembrava essere l’istituto di credito più in salute. Le voci su una sua fusione con la Citigroup continuano a circolare.
In Europa, la Fortis, tra i venti istituti più importanti del mondo, ha reso noto che sta cercando di vendere sue proprietà per un valore di 10 miliardi di dollari, mentre l’inglese HSCH, la maggiore banca del continente, ha annunciato 1100 licenziamenti allo scopo di “razionalizzare i costi”.
In realtà la banca del Benelux è in crisi grave e alla fine del mese viene in pratica nazionalizzata. Il Belgio versa 4,7 miliardi di euro, l’Olanda 4 miliardi, il Lussemburgo 2,5 miliardi, ottenendo in cambio il 49% del capitale nei rispettivi paesi e le dimissioni del presidente, e salvando i circa 85.000 dipendenti. In Germania sarebbe sull’orlo del fallimento la Hypo Real Estate.
6. La caduta e l’ascesa del piano Paulson
La bocciatura al Congresso americano del piano Paulson, sostenuto dal Tesoro e dalla Fed oltre che dal presidente USA, costituisce una conferma di tutte le critiche e le riserve che sono state formulate da più parti nel mese scorso. È da sottolineare che la proposta di piano era contenuto in tre pagine, mentre queste erano diventate 110 per includere tutte le proposte e le modifiche delle opposizioni (i democratici e anche una buona parte dei liberisti repubblicani più accesi). Due giorni dopo, peraltro, il piano viene approvato dal Senato con due sole modifiche rispetto al testo precedente, innovazioni che non incidono peraltro sulla impostazione seguita dalle istituzioni finanziarie. In particolare, è stato inserito: il FDIC, agenzia federale che assicura i depositi bancari, alzerà il limite dei suoi interventi da 100.000 dollari a 250.000 di valore dei depositi; inoltre gli verrà garantita una linea di credito illimitato direttamente dal Tesoro. Intanto le richieste di mutui nell’ultima settimana sono diminuite del 23% e i rifinanziamenti del 34%.
In Europa, nelle Borse continuano i movimenti speculativi, e si arriva alla decisione finale di nazionalizzare la Bradford & Bingley, la banca inglese di credito ipotecario con attività per 63 miliardi di euro. L’operazione comprende la cessione alla britannica Abbey, che fa parte del gruppo spagnolo Santander, di tutte le attività ordinarie (“retail”), compresi 21 miliardi di depositi distribuiti su 200 agenzie, in cambio di 600 milioni di sterline. A carico dello Stato rimangono 42 miliardi di sterline in crediti, in gran parte mutui, di dubbio valore.
Un’altra nazionalizzazione è realizzata in Islanda per la Glitnir, terza banca del paese; con 600 milioni di euro il governo ha acquistato il 75% del capitale.
Un salvataggio pubblico è previsto anche per la Dexia in Belgio e la Hypo Real Estate in Germania; quest’ultima otterrà una linea di credito di 35 miliardi di euro da un consorzio di banche pubbliche che hanno ottenuto la liquidità necessaria grazie ad un intervento del governo.
Negli Stati Uniti è di fatto saltata la Wachovia, che per evitare rischi al sistema, è stata rilevata da Citigroup, seconda banca USA, che però per finanziare l’operazione ha dovuto lanciare un aumento di capitale da 10 miliardi di dollari. Il governo inoltre ha garantito alla banca acquirente che il FDIC, il fondo pubblico di garanzia delle banche, si accollerà tutte le perdite che risulteranno superiori a quanto stimato al momento dell’incorporazione.
Di fronte a questa situazione, la BCE ha immesso liquidità nelle banche per 140 miliardi di euro, mentre la Fed, dopo aver rafforzato gli accordi swap tra le varie banche centrali, si è impegnata a concedere prestiti fino a 660 miliardi di dollari.
7. Considerazioni finali
Nei tre mesi successivi (ottobre-dicembre 2008), il succedersi di crisi di singoli istituti e di interventi pubblici non accenna a rallentare e quindi si può prevedere che la fase più drammatica non sia ancora terminata, mentre si moltiplicano le preoccupazioni di una crisi generalizzata in tutta l’economia delle produzioni e dei servizi, specie nel settore auto, il primo a subire le conseguenze della diminuzione dei consumi privati.
La cronologia sopra riportata evidenzia in primo luogo la politica adottata: è evidente che il governo persegue una logica precisa, lasciar fallire le banche private e cercare di salvare gli organismi semi-pubblici, il cui fallimento costerebbe moltissimo e avrebbe conseguenze insostenibili in campo sociale (la sua esposizione per i soli mutui subprime sarebbe di oltre 300 miliardi di dollari mentre 440 miliardi di dollari è il valore dei suoi cds, cioè delle assicurazioni accese sui titoli basati sui mutui).
Le banche centrali, inoltre, hanno preso iniziative dirette a sostenere le banche di minori dimensioni o con esposizioni che non mettono a rischio la sopravvivenza.
In secondo luogo, la rapidità con la quale il governo americano ha deciso gli interventi, in netto e radicale contrasto con i principi del liberismo affermati da oltre 30 anni e imposti a livello internazionale, lascia presumere che le dimensioni delle perdite siano molto maggiori di quanto finora emerso e che il cambio di filosofia e di strategia politica sia stato imposto dalla esigenza assoluta di non far crollare una struttura portante del sistema economico dominante.
Terzo, si può ritenere che i rapporti di forza tra istituti di credito saranno alla fine sostanzialmente mutati, il peso dei fondi sovrani sarà aumentato, mentre la stampa di consistenti somme in dollari contribuirà a diminuire l’incidenza internazionale di questa moneta, sempre che non inneschi spirali inflazionistiche difficili da controllare.
Nei prossimi mesi dovranno essere analizzati a fondo i cambiamenti causati dagli eventi finanziari, perché forse i rapporti economici mondiali saranno molto diversi.
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