1. La convivenza democratica in Italia appare caratterizzata oggi da una debole pratica della tolleranza, che sembra non essere scelta come stile, come atteggiamento appropriato ad un vero confronto di posizioni, di idee, di prospettive politiche e sociali. Ne è un segnale la mancata accoglienza di Benedetto XVI da parte di alcuni docenti e studenti della Sapienza, ne sono una prova ulteriore l’asprezza di toni che, nelle fasi di maggiore tensione, raggiunge il dibattito politico in Parlamento, comportando l’indebolirsi del rispetto delle forme anche da parte di esponenti delle istituzioni.
Un ruolo particolare, peraltro, sembra essere giocato, in questa prospettiva, dalle modalità del linguaggio mediatico con cui vengono enfatizzate le differenti visioni esistenti nella società, nella politica, nella cultura italiana. La complessità delle questioni in campo è infatti inversamente proporzionale alla capacità –o volontà– del sistema mediatico (ma anche di coloro che volontariamente non si sottraggono ai suoi meccanismi, mirando anzi ad un loro uso strumentale) di rispecchiare effettivamente l’articolazione degli orientamenti dei diversi protagonisti dei dibattiti attuali.
Si dimostra così difficile la gestione del confronto politico e sociale, soprattutto sulle questioni che riguardano la concezione dell’uomo, della vita, del futuro, della convivenza nel mondo. Ciò vale in senso più ampio a proposito di pluralismo e ancor più di multiculturalismo: il confronto cioè fra posizioni etiche e religiose diverse all’interno della cultura occidentale, il confronto con culture diverse da quella occidentale. Quale spazio e quali articolazioni della diversità nell’orizzonte della democrazia?
2. Una preliminare annotazione possibile è che la tolleranza, intesa come condiscendenza benevola o addirittura accettazione forzata di una posizione che, nella sua diversità, è riconosciuta come erronea, non è sufficiente nella gestione del confronto fra differenze, poiché queste diversità sono chiamate alla convivenza e alla costruzione di una realtà in cui poter essere compresenti. La tolleranza deve maturare verso un’accettazione piena delle differenze –non può farne a meno– e nella individuazione di un metodo che consenta la convivenza, se non la costruzione di una realtà comune. «La fase di sviluppo delle società democratiche all’esordio del terzo millennio è segnata in modo particolare dal fenomeno del “multiculturalismo”. Certamente tale fenomeno pone, nell’ottica della tolleranza, questioni rilevanti, anche in considerazione della forte eterogeneità delle tradizioni, delle mentalità, degli atteggiamenti, delle visioni del mondo, che si trovano a confronto». Viene però oggi a porsi la questione, in sede giuridica e politica, dell’«individuazione degli strumenti maggiormente idonei a rispondere alle nuove domande dei soggetti che chiedono ospitalità in molti paesi dell’Occidente. Il punto è che una coerente “politica del riconoscimento” (Ch. Taylor) rivolta a questi soggetti richiede inevitabilmente di procedere oltre la tolleranza, nella misura in cui le richieste da essi rivolte sollevano problemi che coinvolgono non solo il rispetto della differenza, ma, a partire da qui, la riformulazione di alcuni contenuti essenziali dei diritti della cittadinanza democratica», nella prospettiva di «renderla capace di incamerare effettivamente al suo interno le differenze culturali. È chiaro quindi che il fenomeno, pur generando anche problemi di tolleranza, porta a oltrepassarli, configurandosi come sollecitazione a riflettere sulle forme possibili della “cittadinanza multiculturale”(W. Kymlicka)»[1].
3. Diventa necessario, dunque, andare oltre il mero rispetto della differenza, che non consente nessuna interazione con la diversità, per passare a considerare la propria posizione come una com-possibilità, come una parte di un quadro complesso che non può fare a meno della propria posizione come della posizione degli altri. È in atto non solo nella politica ma più profondamente nella cultura italiana un processo di “bipolarizzazione forzata” che finisce per coinvolgere anche le aree tematiche che dovrebbero invece appartenere al campo del terreno comune, del patrimonio condiviso su cui costruire la convivenza civile: il rispetto e la promozione della vita, la valorizzazione di tutte le posizioni, di tutti i contributi che possono concorrere alla individuazione dei fini condivisi e dei possibili percorsi comuni per la loro realizzazione. Tale “bipolarizzazione forzata” sembra d’altra parte essere connessa alla realtà di un Paese in cui gli elementi di divisione sembrano acquisire sempre più spazio. Cresce non solo la distanza tra laici e credenti, ma anche quella tra Nord e Sud del Paese, tra ricchezza e povertà, tra cultura dell’accoglienza e diffidenza nei confronti dell’estraneo, dell’immigrato.
Ciò costituisce un problema dal momento che la costruzione della convivenza civile necessita piuttosto che di una radicalizzazione dello scontro tra posizioni ideali e interessi differenti, visti e trattati come contrapposti, della ricerca dell’adeguato punto di coniugazione tra verità e dialogo, che non scada né in forme integristiche né in un dialogismo fine a se stesso[2]. Il dialogo autentico infatti non impone di sacrificare la ricerca della verità. Si è chiamati, al contrario, «alla responsabilità […] nei confronti della verità, responsabilità che si esercita già con il dovere di procurarci conoscenze vere e di maturare convinzioni fondate (la convinzione come “tener-per-vero” ha necessariamente a che fare con la verità, e non con l’opinione soggettiva), e di saperle argomentare erga omnes in maniera appropriata e pertinente»[3]. Nello stesso tempo la responsabilità verso la verità non è mai un’esperienza solipsistica ma tale da esaltare la relazionalità dell’uomo.
L’autonomia e la libertà degli interlocutori si lega, senza contraddirsi, ad una condizione di forte dipendenza dagli altri: non possiamo infatti non riconoscere che l’identità di ciascuno si definisce e matura proprio nella relazione con gli altri. «La libertà non si inscrive né unicamente né soprattutto entro la sfera della rivendicazione, ma nell’ambito della logica dei legami, dei limiti e dei vincoli che ognuno di noi incontra quando si confronta con gli altri e convive insieme ad essi; e questi legami, limiti e vincoli non sono semplicemente elementi scelti, voluti, imposti, ma si originano dalla essenza interrelazionale della persona. Entro questa condizione di dipendenza dall’altro (che è l’altro presente qui ed ora, ma anche l’altro che non è più e l’altro che sarà, in quanto entrambi ci chiamano alla nostra responsabilità verso il passato e verso il futuro) ognuno di noi definisce progressivamente e in forme sempre mutevoli la propria identità e si abitua a comprendere il valore relazionale, nello spazio e nel tempo, della libertà, quindi l’impossibilità di definirla esclusivamente entro il perimetro di un’individualità totalmente staccata da ogni rapporto»[4].
Si tratta in fondo di quella dialettica tra identità personale e orizzonte di senso, ben evidenziata da Charles Taylor nella sua riflessione sull’autenticità[5].
4. Quale orientamento dare alla scelta inevitabile di entrare in relazione con una identità diversa dalla mia? Una frase di Jacques Maritain è molto chiara in proposito: «Non c’è tolleranza reale e autentica se non quando un uomo è fermamente convinto di una verità, o di quella che ritiene una verità, e quando, nel medesimo tempo, riconosce a quelli che negano questa verità il diritto di esistere e di contraddirlo e quindi di esprimere il loro pensiero non perché siano liberi nei confronti della verità, ma perché cercano la verità a modo loro e perché rispetta in essi la natura e la dignità umana e quelle risorse vive dell’intelligenza e della coscienza»[6].
Rispettare la natura e la dignità umana, rispettare le risorse vive dell’intelligenza e della coscienza: la chiave di volta della relazione fra le diversità appare dunque l’essenza stessa dell’uomo, la sua dignità, che accomuna tutti e che si offre come la base per un confronto fecondo. «Non per niente proprio l’etica della dignità intrinseca dell’essere umano è stata assunta come l’unico credibile fondamento transculturale per il diritto internazionale e per la prassi politica nel corso della storia dal dopoguerra ad oggi. Ma la nostra dignità, se da un lato è già data, dall’altro è anche una promessa, tende a una pienezza non ancora realizzata»[7].
5. La realizzazione di una convivenza piena tra diversi è «il futuro che ci sta davanti. Ma non è scontato, nel senso che non accade spontaneamente. Tale futuro richiede una vera e propria arte, ossia impegno, tenacia, intelligenza, pazienza, conoscenza dell’altro, stima reciproca, e così oltre. C’è insomma un galateo che dovremmo al più presto apprendere e soprattutto praticare, sia i credenti che i laici, alla cui base vi è un’attitudine fondamentale: la coscienza del limite che tutti abbiamo. In tal modo allontaniamo la tentazione egemonica che porta a eliminare l’altro e non a comprenderlo»[8].
Per andare in questa direzione è necessario dotare la nostra convivenza civile di strumenti adeguati mostrandosi di fondamentale importanza far maturare il diritto verso acquisizioni capaci di regolare la convivenza fra i diversi. Sono necessari inoltre nuovi strumenti per la gestione del dibattito pubblico. Prima di arrivare alla formulazione legislativa, è fondamentale passare per un confronto aperto che superi la tolleranza verso la valorizzazione del multiculturalismo e del pluralismo. In particolare è necessario apprendere quello che Habermas, nel parlare del pluralismo, definisce come «apprendimento complementare»: «le parti possono dunque prendere sul serio i reciproci contributi su temi controversi nell’opinione pubblica politica anche per motivi cognitivi, se intendono insieme la secolarizzazione della società come un processo di apprendimento complementare […]. I cittadini secolarizzati non possono, finché compaiono nel loro ruolo di cittadini dello Stato, disconoscere un potenziale di verità in linea di principio alle concezioni del mondo religiose, né contestare ai propri concittadini credenti il diritto di contribuire alle discussioni pubbliche in lingua religiosa. Una cultura politica liberale può persino richiedere ai cittadini secolarizzati di partecipare allo sforzo di traduzione di materiali significativi dalla lingua religiosa a una lingua accessibile a tutti»[9], non può non promuovere un senso della «laicità tale da permettere la libera ricerca delle verità ultime»[10].