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Carcerografie riflessive: l’antropologia politica di Antonio Gramsci

Giovanni Pizza
Articolo pubblicato nella sezione "Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana tra ’700 e ’800"
Sono assillato
(è questo fenomeno proprio dei carcerati, penso)
da questa idea:
che bisognerebbe far qualcosa «für ewig».
Antonio Gramsci (19 marzo 1927)

Elementi per una biografia

Antonio Gramsci nacque ad Ales il 22 gennaio del 1891 da Francesco Gramsci e Giuseppina Marcias. Il suo cognome rivela antiche origini albanesi. Egli trascorse la sua infanzia in Sardegna, poco distante, prima a Sorgono (dove frequentò un asilo di suore, si manifestarono i primi segni del suo morbo di Pott e si verificò l’arresto del padre per un’irregolarità amministrativa), e successivamente a Ghilarza, sempre nell’attuale provincia di Oristano. In Sardegna si verificarono quindi i primi eventi importanti destinati a influenzare la sua vita, inclusa la frequentazione della scuola superiore nel paese di Santu Lussurgiu. Frequentò poi l’Università a Torino e anche in quegli anni fu uno studioso precoce e instancabile diventando un grande pensatore e attivista politico. Nel capoluogo piemontese Gramsci fu l’inventore dei Consigli di Fabbrica e fondatore dell’Organo che rappresenta culturalmente quel movimento: “L’Ordine Nuovo”. Apparso come settimanale a Torino nel maggio 1919, il periodico proseguì le sue pubblicazioni come quotidiano nel 1921, per poi chiudere nel 1922 e riaprire come quindicinale a Roma per un anno tra il 1924 e il 1925, il 1° marzo, in una terza serie della testata. Negli anni torinesi Gramsci aveva seguito anche gli spettacoli teatrali che si tenevano in quella città producendo interessanti recensioni e contribuì alla nascita del Partito comunista d’Italia, avvenuta a Livorno il 21 gennaio del 1921, divenendone poi dirigente di prim’ordine. Nel 1924 ideò e cominciò a dirigere il quotidiano “l’Unità” che in quell’anno uscì a Milano. Si era occupato anche di questione meridionale, ma fu poi arrestato a Roma dalla polizia fascista di Benito Mussolini l’8 novembre del 1926, nonostante l’immunità parlamentare. Dopo l’arresto e la reclusione a regina Coeli, egli fu spostato in “traduzione ordinaria” tra Napoli e Palermo, e in carcere venne a conoscenza che la sua destinazione di “confino” sarebbe stata l’isola di Ustica; nondimeno il periodo trascorso sull’isola durò poco più di un mese. Quando lasciò Ustica diretto al carcere di san Vittore a Milano, il suo viaggio durò diciannove giorni attraversando le carceri fasciste di Napoli, Caianello, Isernia, Sulmona, Castellammare Adriatico, Ancona e Bologna. Arrivato e a lungo rimasto nel carcere di S. Vittore a Milano, nel 1928 durante il processo a Roma tornò recluso a Regina Coeli. Poi fu assegnato alla casa penale speciale di Turi (in provincia di Bari). Vi arrivò sempre dopo lunghi transiti: il viaggio durò da Roma a Turi dodici giorni con sospensioni a Caserta, Benevento e Foggia. Infine, nel novembre del 1933, fu trasferito da Turi a Civitavecchia per poi essere spostato, nello stesso anno, in una clinica a Formia e, nel 1935, in una di Roma. Morì quarantaseienne il 27 aprile 1937 per emorragia cerebrale alla clinica “Quisisana” di Roma, proprio nei suoi primi giorni di libertà. Le sue ceneri vennero dapprima inumate al cimitero del Verano e poi trasferite a quello Acattolico, sempre a Roma, dove si trova attualmente.
La sua opera consiste in tre “blocchi” di scritti: 1) opere pre-carcerarie; 2) quaderni del carcere; 3) lettere dal carcere. Complessivamente queste sue scritture hanno ancora grande influenza su numerosissime discipline dalla fine degli anni Quaranta del Novecento a oggi, cioè da quando i suoi testi furono pubblicati per la prima volta dall’Editore Einaudi di Torino nel secondo dopoguerra, molti anni dopo la loro effettiva stesura (le prime edizioni pubbliche furono nel 1947 le Lettere dal carcere – che ad agosto di quell’anno ricevette il premio Viareggio e nel 1948-1951 i Quaderni del carcere nella edizione antologica curata per Einaudi da F. Platone sotto la direzione di P. Togliatti, poi superata dalla edizione a cura di V. Gerratana, del 1975 e attualmente in corso di pubblicazione per Treccani nel quadro della edizione nazionale degli scritti).
Anche gli studi antropologici ne furono molto condizionati: Ernesto de Martino, fondatore della nuova antropologia italiana, teneva i suoi libri sul comodino.


Riflessività

Certamente, nel senso strettamente canonico del termine, Gramsci non sarebbe da considerarsi un antropologo, e tuttavia egli ha profondamente ispirato l’antropologia socioculturale, soprattutto italiana. Nondimeno, si può parlare un’“antropologia di Gramsci” (Pizza 2020), non semplicemente di “Gramsci e l’antropologia”, per una ragione specifica. Il politico comunista era stato inserito in “un’antropologia” non corrispondente a “un semplice canone”, quanto a una vera e propria “pratica teorica”, proprio sulla scorta delle sue stesse parole, parsimoniose nelle definizioni dell’antropologia. Penso in particolare a quelle volte a contrastare le confusioni tra economismo storico e filosofia della prassi (sicuramente pensate contro la filosofia idealista di Benedetto Croce):

Si può dire che il fattore economico [...] non è che uno dei tanti modi con cui si presenta il più profondo processo storico (fattore di razza, religione ecc.) ma è questo più profondo processo che la filosofia della prassi vuole spiegare ed appunto perciò è una filosofia, una «antropologia», e non un semplice canone di ricerca storica (Gramsci 1975, p. 1917).

Pur essendo influenzato da innumerevoli studiosi importanti della sua epoca, in carcere e prima, in realtà attraverso le sue parole il pensiero di Gramsci vola libero “nel mondo grande e terribile” (è questa una espressione che egli usa abbastanza, traendola dal romanzo Kim di Rudyard Kipling), abbattendo muri, rendendo valicabili soglie, sempre irriducibile a quanti incarnano i confini disciplinari, talora essendone i legittimi guardiani. Se Gramsci, però, non è antropologo, men che meno allora sarà filosofo, psicologo, storico, sociologo, storico della letteratura, del teatro, dell’arte, della filosofia, dell’economia e chi più ne ha più ne metta. Come è noto, in effetti egli è stato soprattutto un grande pensatore politico comunista certamente in grado, con la sua opera, di influenzare profondamente tutte queste pratiche teoriche e anche ulteriori scienze.
Secondo me, però, Gramsci è qualificabile come praticante un’antropologia (politica) per molti specifici orientamenti della sua ricerca, quelli che gli studiosi del suo pensiero definiscono “attitudini”, tra cui: il concetto di “egemonia”, osservato non in maniera strettamente terminologica o filologica, ma aperto ad altre nozioni quali “prestigio”, “influsso”, “primato”, “supremazia” etc.; la valorizzazione nei termini di “molecolare” dei dettagli ordinari della vita quotidiana; la volontà di unire ciò che apparentemente è separato e di discernere ciò che sembra in superficie connesso; l’influenza, ancorché indiretta, che ha contribuito a curvare verso le regole dell’informalità sociale le tendenze all’astrazione della filosofia del linguaggio di Ludwig Wittgenstein (non a caso tale passaggio in Wittgenstein è definito “svolta antropologica”); la sottolineatura della centralità del corpo e dei poteri che si inscrivono nell’esperienza fisica dei fatti socio-culturali; lo studio dei complessi modi della produzione culturale; l’esercizio di una critica del senso comune, dell’abitudine e della pratica intellettuale; l’analisi delle situazioni concrete e la valutazione dei rapporti di forza vigenti che le regolano; l’esplorazione della dimensione corporea e della vita intima dei poteri; la definizione dei rapporti tra Stato e Società civile e la verifica della loro (ri)congiunzione fisica; la lotta tra egemonie, culturali, politiche, statuali e, ancora tra le numerose altre ragioni antropologiche dell’opera di Gramsci, soprattutto lo strenuo lavoro condotto intorno all’apertura plurale della nozione di persona e di cultura, che ha esercitato una critica alla psicoanalisi di Freud e alla socio-antropologia di Mauss.
Beninteso, Antonio Gramsci fu recluso, prigioniero del carcere fascista, ma ciò non vuol dire che la prigionia lo abbia influenzato solo in maniera negativa, almeno per chi ne legga gli scritti oggi. Come sottolineato da alcuni studiosi:

I più deboli o i senza-potere della tradizione postcoloniale erano in genere detti “subalterni”, un concetto tratto dai Quaderni del carcere che Gramsci [...] scrisse in prigione durante il regime mussoliniano in Italia. Forse è un azzardo, ma si può dire che in un certo senso Gramsci fu un etnografo (delle oganizzazioni), poiché “partecipò” (ancorché obbligato, di là dalla propria volontà) e “osservò” (anche se sarebbe meglio dire “fu costretto a osservare”, data la sua condizione) per lunghi periodi di “campo” (cioè in prigione). Ma con la sua scrittura egli riuscì a essere anche un osservatore e uno studioso distaccato, proprio come ogni etnografo delle organizzazioni che si rispetti. Nel suo “lungo terreno” tra i “senza potere” egli non poté fare altro che entrare in empatia con loro attraverso descrizioni e analisi nelle quali i potenti erano “l’Altro, più importante” e sicuramente i “cattivi” (Ghorashi – Wels 2009, p. 234. Traduzione mia. Ringrazio Berardino Palumbo per avermi segnalato questo testo)

Ne risulta testimoniata non solo la perdurante influenza gramsciana sulle specializzazioni dell’antropologia contemporanea, ma anche la possibilità di leggere gli scritti del politico sardo come si farebbe con quelli di un antropologo, seguendo la sua esperienza di ricerca attraverso le tappe della sua biografia. Se l’infanzia e l’adolescenza in Sardegna e l’arena pubblica della sua vicenda universitaria e politica a Torino, nel laboratorio industriale italiano, costituirono i suoi primi terreni elettivi, successivamente fu proprio la prigione il suo campo etnografico. La detenzione lo condusse a una maggiore sofferenza, ma anche a una più incisiva riflessività, e sicuramente acuì le sue già sviluppate competenze nell’uso di strumenti retorici critici e marxiani tra i quali l’ironia e il sarcasmo, che spesso, riflessivamente, si rivolgevano alla stessa esperienza della reclusione. Per esempio, in una nota del 1932 commentando un testo, in fondo anche secondario, ma a sua disposizione, sulla prigione scrive:

In un articolo di Mario Bonfantini L’arte di Carlo Bini, nell’“Italia Letteraria” del 22 maggio 1932, sono citati questi due versi (o quasi): «La prigione è una lima sí sottile, - che temprando il pensier ne fa uno stile». Chi ha scritto così? Lo stesso Bini? Ma il Bini è stato davvero in prigione (forse non molto). La prigione è una lima così sottile, che distrugge completamente il pensiero; oppure fa come quel mastro artigiano, al quale era stato consegnato un bel tronco di legno d’olivo stagionato per fare una statua di S. Pietro, e taglia di qua, togli di là, correggi, abbozza, finì col ricavarne un manico di lesina (Gramsci 1975, p. 1126).

La galera politica fu certamente per lui l’attraversamento di uno spazio/tempo fatto di studio e osservazione partecipante dettagliata. In quel contesto la sua scrittura für ewig, cioè “disinteressata” e “per sempre” (secondo i dichiarati precedenti di Wilhelm Goethe e Giovanni Pascoli), divenne una vera e propria carcerografia riflessiva.
Che l’etnografia fosse un metodo di ricerca condivisibile e collaborativo, era ormai noto da tempo. Più di altre prassi scientifiche, l’etnografia poteva servire alla costruzione di ponti tra discipline distanti non favorendo affatto la separazione fra saperi. Del resto, l’antropologia è oggi una scienza sociale dalla vocazione ancillare, votata alla consilienza, ovvero alla convergenza e all’integrazione tra differenti saperi scientifici e alla riflessività, cioè a una prassi critica nella quale osservare sé stessi, equivalente quindi alla metafora dello specchio, del riflesso. L’acquisizione di consapevolezza e il conseguente accesso a pratiche collettive di liberazione sono obiettivi strategici fondamentali. La riflessività consiste, pertanto, nel riuscire a integrare, ad esempio, l’abilità nello sviluppo di un gesto preciso con la capacità di osservarlo portando l’attenzione comune su di esso. Perseguire un fine, raggiungerlo, ottenere la perfezione della tecnica sono qualità essenziali, ma non sufficienti. A tale consapevolezza va coniugata una motivazione riflessiva. L’antropologia, in tal senso, intende contribuire a “fabbricare” persone in grado di osservare ciò che fanno, capaci, cioè, di guardare anche a sé stesse, implacabili e radicali nell’auto-scrutinio. Non è dunque l’opera di Gramsci a influenzare l’antropologia, ma è proprio lui a mettere in atto concretamente tale nesso.
Non v’è dubbio che da tempo le cosiddette scienze esatte siano in crisi. Lo mostrano le filosofie e le antropologie unite nella lotta. Cioè quelle che scrivono affinché ci si legga almeno a vicenda. E quelle che riflettono, anche ex post, sul loro metodo. Ne hanno poi tratto ragione fondativa alcune specializzazioni, tra le quali, ad esempio, le antropologie mediche o gli studi sociali delle scienze, quantomeno individuando nella speranza operativa di uscire dalla crisi attraverso la critica, una delle poste in gioco di un possibile dialogo consiliente fra saperi distanti.
Lo storico della scienza Antonio di Meo segna ora un’importantissima tappa negli studi con un libro importante, che tra l’altro getta nuove luci anche sul rapporto tra Antonio Gramsci e Giacomo Leopardi (Di Meo 2020, pp. 134-202). Se da un lato esso svolge un’efficace lettura filologica dell’opera gramsciana attraverso la contestualizzazione del pensiero di Gramsci in rapporto al capitolo quarto sui processi molecolari descritti o ipotizzati da Gramsci, e mostra la necessità di individuare le influenze sul politico sardo degli intellettuali a lui coevi proveniente da vari settori di studio, dall’altro lato, quando mette in atto una metodologia di analisi filologica, più che pertinente, essa deve provare a seguire pur sempre l’inarrivabile intuizione gramsciana della “filologia vivente”:

L’azione politica tende appunto a far uscire le grandi moltitudini dalla passività, cioè a distruggere la «legge» dei grandi numeri; come allora questa può essere ritenuta una «legge»? Anche in questo campo si può vedere lo sconvolgimento che nell’arte politica porta la sostituzione nella funzione direttiva dell’organismo collettivo all’individuo singolo, al capo individuale: i sentimenti standardizzati delle masse che il «singolo» conosce come espressione della legge dei grandi numeri, cioè razionalmente, intellettualmente, e che egli – se è un grande capo – traduce in idee-forza, in parole-forza, dall’organismo collettivo sono conosciuti per «compartecipazione», per «con-passionalità» e se l’organismo collettivo è innestato vitalmente nelle masse, conosce per esperienza dei particolari immediati, con un sistema di «filologia» vivente, per così dire (Gramsci 1975, p. 857; ivi, p.1430).

Si tratta dunque di un vero e proprio “pensiero vivente”, il quale richiede di sottolineare con maggiore forza la questione antropologica in Gramsci. In fondo la stessa parola “psicologia”, forse non può essere usata in maniera irriflessa e auto-evidente. Lo insegna Gramsci stesso, che tende sempre a depsicologizzare costantemente tutti i suoi possibili conflitti “personali”, riflettendo su quella che pare una lucida riflessione politica sui processi di incorporazione della dialettica egemonica. In realtà si deve insistere sulla suggestione antropologica del “Gramsci molecolarista” proprio perché, come ricorda di Meo, il critico letterario Giacomo Debenedetti (1947), sottolineando tempestivamente la diffusione della nozione di “molecole” negli scritti gramsciani, aveva elaborato la sua geniale intuizione sul “metodo umano” messo in atto dall’intellettuale sardo. La questione del “metodo umano” è straordinaria anche perché riesce a mettere insieme a fini pratici le suggestioni provenienti da discipline e forme espressive innumeri e diversificate. È certamente un bene andare a rilevarne filologicamente la provenienza se poi si riesce a restituire loro il flusso di vita nel quale sono state colte, cosa che certamente Gramsci sapeva fare benissimo nel suo metodo, appunto, di “filologia vivente”, che è da indicare come una vera e propria sensibilità etnografica gramsciana (Pizza 2005).


Oltre il folclore

In questa sede non è il caso di parlare del Gramsci che ha fornito alle nozioni di “cultura popolare” e di “folclore” nuova linfa vitale, citando (soprattutto) l’antropologo italiano Ernesto de Martino e Alberto M. Cirese, nonché le influenze che questi maestri ben ricavarono dalla lettura delle opere del politico sardo, così da poter delineare uno specifico statuto canonico dell’antropologia italiana. Se, da un lato, è stato certamente doveroso farlo, dall’altro lato è qui preferibile offrire un’immagine antropologica, forse un po’ inattesa, del politico sardo, che guarda agli usi di Gramsci che sono stati fatti dall’antropologia.
In fondo l’antropologia è una scienza sociale metodologicamente “libera” nella quale accade, forse più che nelle altre pratiche di conoscenza, che l’equilibrio fra teorico ed empirico dipenda pienamente da chi lo incarna. Quello che qui vorremmo determinare è un certo straniamento della figura di Gramsci, una sua lettura in controluce, che lo avvicini all’antropologia contemporanea da versanti che non sono prevalentemente quelli culturalistici, che non riguardano, cioè, le convenzionali partizioni disciplinari tra i settori scientifici, ma che hanno piuttosto a che fare con tematiche che articolano comunque in unità minimali il suo pensiero e la sua pratica. E cercano di farlo utilizzando lo stesso lessico “speciale” prodotto dal politico sardo.
In verità, l’antropologo non può considerare Gramsci un teorico del “folclore”. Né l’ispiratore di analisi sulla “cultura popolare”. Nemmeno si può affermare che sia responsabile di quella sorta di antagonismo concettuale tra “egemonia” e “subalternità”, da considerarsi come una scissura arbitraria, un paradigma oppositivo usato talora nell’antropologia e nella storiografia sociale italiana per classificare le “differenze culturali”, a dispetto di quello che accade alla nozione “dopo Gramsci”. Gramsci offre dunque parole diverse, aperte alla complessità che ci circonda, aderenti al carattere antropologico contemporaneo della sua proposta teorico-culturale e pratico-politica, più vicine alla sua stessa capacità di orientare specifici itinerari politico-scientifici, anche nell’antropologia del nostro Paese.
Le riflessioni, che Gramsci ci ha lasciato e che sono da prediligere, riguardano: il corpo proprio, che resiste, si trasforma o è trasformato, preso tra rapporti di forza e abitudine. Così emerge dal Quaderno 22, oppure le sue riflessioni sullo Stato, inteso come un’istituzione che pensa, vive culturalmente e realizza una vicinanza con le moltitudini; in un caso egli così descrive tale istituzione:

«Stato» significa specialmente direzione consapevole delle grandi moltitudini nazionali; è quindi necessario un «contatto» sentimentale e ideologico con tali moltitudini e, in una certa misura, simpatia e comprensione dei loro bisogni e delle loro esigenze (Gramsci 1975, p. 2197).

Anche riguardo alle procedure critiche di denaturalizzazione della persona che investono “animalità”, “abitudini di ordine” o “seconda natura”, Gramsci scrive:

La storia dell’industrialismo è sempre stata (e lo diventa oggi in una forma più accentuata e rigorosa) una continua lotta contro l’elemento «animalità» dell’uomo, un processo ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti (naturali, cioè animaleschi e primitivi) a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell’industrialismo. Questa lotta è imposta dall’esterno e finora i risultati ottenuti, sebbene di grande valore pratico immediato, sono puramente meccanici in gran parte, non sono diventati una «seconda natura» (Gramsci 1975, pp. 2160-2161).

Occorre guardare inoltre a una possibile lettura critica di stampo gramsciano degli attriti contemporanei tra ambiente naturale ed esseri umani; alla disarticolazione del linguaggio e all’analisi di metafore e altre figure linguistiche, che spesso Gramsci propone esaminando nessi di problemi e adottando un “metodo umano” pienamente antropologico, poiché risulta in grado di discernere somiglianze e differenze in un’incessante analisi critica del rapporto tra corpi e istituzioni.
Sono questi solo alcuni dei temi e problemi di ispirazione gramsciana che risultano centrali nel programma dell’antropologia contemporanea, avendo come fine quello di attivarsi in vista di un obiettivo strategico: la proposta di una dialettica critica che sappia orientare i processi di trasformazione nella società. Un’antropologia che non serva solo a conoscere, ma anche a orientare l’azione nel mondo. Occorre il riconoscimento di questa forza antropologica nella metodologia pratico-teorica, critica, e quindi politica, di Gramsci. È da ribadire, ad esempio, soprattutto a proposito della nozione gramsciana di “molecolare”, un ponte concettuale e linguistico nuovo, lanciato per unificare teoria e pratica, nel tentativo di esercitare una qualche forma di azione sulla coscienza contraddittoria collettiva e abitudinaria che caratterizza gli esseri umani. L’antropologia dovrebbe guardare all’opera di Gramsci, alla sua stessa biografia, come a un processo psicofisico di acquisizione dettagliata dell’autoconsapevolezza, fondato su un’analisi critica dei rapporti tra il corpo e lo Stato, per accostarsi al «pensiero vivente» del politico sardo, denso di evocazioni che sembrano allontanarsi dalla linea “folclorica” che ha a lungo caratterizzato il dibattito antropologico italiano.
Fuori dal nostro Paese, e soprattutto in campo britannico, per molti decenni storici, politologi, filosofi, sociologi, più o meno connessi per simpatia o adesione al rapporto politica-cultura così come questo si andava forgiando nelle organizzazioni messe in atto in Europa dai Partiti comunisti, hanno studiato Gramsci come il teorico di una politica in divenire, da farsi. A partire da pertinenti riletture delle sue complesse scritture andava emergendo come il politico sardo fosse il praticante di un’utopia mai intesa come ciò che è destinato alla non realizzazione, ma solo come ciò che non è ancora realizzato e che, con un ottimismo organizzativo e volontario, potrebbe invece esserlo. Nondimeno, Gramsci è stato anche colui che da ragazzo ha elaborato una teoria della cultura rinnovata e operativa, critica e riflessiva, connessa a un implacabile auto-scrutinio fisico, anticipando, genialmente, le critiche ai culturalismi contemporanei prodotte nell’antropologia contemporanea.
Nel suo ben noto articolo apparso sul quotidiano “Il Grido del Popolo” il 29 gennaio 1916 e più volte ripubblicato, dal titolo Socialismo e cultura, Gramsci scrive ad esempio:

Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici, di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. [...] La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. [...] E tutto imparare senza perdere di vista lo scopo ultimo che è di meglio conoscere se stessi attraverso gli altri e gli altri attraverso se stessi.

Sono riflessioni dalle quali si evince una vera e propria vocazione: quella critico-culturale del Gramsci antropologo.


Bibliografia ragionata

Su Gramsci disponiamo di tutte le opere sue, le cui edizioni si vanno sempre perfezionando, e di un’immensa mole di scritti da parte di esegeti internazionali su moltissimi aspetti della sua produzione.
Per una efficace introduzione alla sua figura si veda Santucci A.A. (2005), Antonio Gramsci 1891-1937, Sellerio, Palermo.
Si vedano inoltre online sia le voci enciclopediche sia la bibliografia gramsciana consultabile digitalmente sul sito della Fondazione Gramsci Onlus, attiva dal 1950.
Inoltre, si possono vedere gli studi segnalati dalla International Gramsci Society, in particolare si rimanda al seminario telematico sull’importante libro di A. Di Meo, coordinato dal presidente della Società internazionale G. Liguori, che ha visto, oltre a Di Meo, la partecipazione di autorevoli studiosi italiani quali M. Biscuso, F. Frosini, C. Meta e M. Mustè.
Per quanto riguarda il lessico e i concetti, si veda Liguori G. - Voza P. (a cura di, 2009), Dizionario gramsciano 1926-1937, Carocci, Roma.
Sul dibattito filosofico e politico si veda Liguori G. (2012), Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche, 1922-2012, Editori Riuniti, Roma.


Bibliografia

Crehan K. (2016), Gramsci’s Commons sense. Inequality and Its Narratives, Duke University Press, Durham.
- (2010), Gramsci, cultura e antropologia, a cura di G. Pizza, Argo, Lecce (ed. or. 2002).
Dei F. (2018), Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, il Mulino, Bologna.
Di Meo A. (2020), Decifrare Gramsci. Una lettura filologica, Bordeaux, Roma.
Ghorashi H., Wels H. (2009), Beyond Complicity: A Plea for Engaged Ethnography, in S. Ybema, D. Yanow, H. Wels, & F. Kamsteeg (eds.) 2009. “Studying everyday organizational life”, Organizational Ethnography. Studying the Complexities of Everiday Life. London, Sage, pp. 231-252.
Gramsci, A. (1975), Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 4. Voll.
Palumbo B. (2018), Lo strabismo della DEA. Antropologia, accademia e società in Italia, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo.
Pizza G. (2020), L’antropologia di Gramsci. Corpo, natura, mutazione, Carocci, Roma.
- (2005), Antropologia medica. Saperi pratiche e politiche del corpo, Carocci, Roma.
Tosi Cambini S., Frosini F. (eds.; 2017), Gramsci and Anhtropology: A Round Trip, numero speciale della rivista “International Gramsci Journal”, 2, 3.


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