cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

«Il peccato originale è follia agli occhi degli uomini» (Pascal)

DONATELLA PAGLIACCI
Articolo pubblicato nella sezione "Chi è senza peccato..."

«Puro non può mai essere l’attributo di un’affermazione categorica alla prima persona dell’indicativo presente singolare, alla prima persona sostanziale dell’indicativo atemporale» (Jankélévitch 2014, p. 3). Le parole pungenti e radicali di Vladimir Jankélévitch rimandano alla storia della coscienza, alla sua condizione originaria, all’anteriorità della purezza e alla posteriorità della colpa, rappresentata in senso religioso dal peccato che definito originale, non ha di fatto indicato una condizione originaria di negatività. Il prima della coscienza è la sua innocenza e il dopo la colpa. La rappresentazione di ciò è espresso nel racconto del peccato dei progenitori, i quali nati puri divennero ad un certo punto impuri destinando, da allora in poi, l’umanità a rimanere fin dal suo venire al mondo contrassegnata da una macchia che doveva essere lavata e necessariamente o ritualmente tolta. Il fatto della colpa non è senza problema e ci sollecita ad una riflessione sulla sproporzione tra il bene originario e il male radicale, per dirlo con Hannah Arendt.
Il percorso che intendiamo intraprendere in questa sede per comprendere e precisare cosa resti dell’idea e della visione religiosa del peccato originale, con la sua storia e la sua progressiva erosione, le cui conseguenze sembrerebbero del tutto evidenti nelle condizioni attuali di vita degli esseri umani, si snoda in tre punti: in primo luogo può essere opportuno ripartire da quella che è stata definita l’invenzione del peccato originale che ha trovato in Agostino d’Ippona il suo referente fondamentale. Accanto a ciò può essere d’aiuto seguire lo sviluppo della sua progressiva erosione in termini di colpevolezza, per approdare al solo termine capace di superare l’errore e di proiettarci oltre i limiti della colpa e del peccato, l’amore.


1. Tra bassezza e altezza

Invenzione o esegesi scritturistica, il peccato originale, per come è stato esposto e interpretato da Agostino d’Ippona, ha costituito un punto di riferimento per molte generazioni di credenti, uomini e donne per certi versi schiacciati dal peso di una colpa che solo un gesto d’amore estremo avrebbe potuto riportare alla situazione di partenza, cioè all’istante prima della scellerata scelta di quei progenitori dai quali tutto avrebbe avuto inizio.
È noto come il tema del peccato originale rechi con sé una varietà di altri motivi che ne hanno fatto emergere tutta la complessità e l’articolazione, conducendo i numerosi interpreti sulle soglie di non poche contraddizioni. Infatti, oltre a dover comprendere la profonda dissimmetria riguardo al destino di noi umani, sospesi tra una condizione pre e post lapsaria, Agostino si è dovuto preoccupare di fornire una serie di argomentazioni per motivare come e con quali assunti la colpa dei progenitori sia dovuta ricadere sull’intero genere umano, rendendo la condizione umana ancora più fragile e comunque sempre e incondizionatamente in debito (cfr. Garlatti 2016, p. 19).
Provando a rileggere il senso attribuito all’annosa questione del male è certo che Agostino, nell’impossibilità di attribuire a Dio la genesi del male, abbia voluto e dovuto trovare una risposta al perché, pur essendo la creatura inserita in un contesto a lei favorevole, se ne sia volontariamente e immotivatamente allontanata. Da qui, l’orgoglio umano si è manifestato come il vero responsabile e il nemico del bene, ossia la spinta più corrosiva e ricorrente. D’ora in poi niente si è manifestato in modo così nocivo come l’anteporre se stessi a tutti gli altri, Creatore compreso, rivendicando una inconsistente e illogica autosufficienza, smentita dallo smarrimento e dall’avvertimento della propria nudità dopo la scellerata scelta di mangiare il frutto dell’albero proibito.
Nel disobbedire a Dio ecco che il genere umano, mirabilmente rappresentato dalla coppia dei progenitori nel Giardino dell’Eden, rivela ciò di cui è capace: dare inizio a ciò che prima non c’era, si potrebbe dire ancora con Hannah Arendt, ossia immettere nell’ordine rassicurante e promettente un principio sovversivo; scegliere di allontanarsi da quello sguardo protettivo e confortante che il divino ordinatore rivolgeva, fin dall’inizio, su ogni natura creata, nella recondita speranza di poter essere ciascuno diverso da ciò che era e sempre più simile a Lui. Nel riconoscere la supremazia dell’Altro, la creatura, nata buona, desidera essere altro da sé, cioè manifesta un desiderio per certi versi eccessivo e contrario al suo essere limitata: elevarsi, abbandonare lo stato creaturale per assumere quello divino. Ma alla creatura non è consentito di infrangere il comando e non saranno l’orgoglio e la volontà a condurla in alto, ma solo l’umiltà e l’amore nel loro discendere verso il basso a riscattare le infermità e gli errori umani.
Questo dice il racconto della tradizione religiosa occidentale: l’essere umano, rappresentato dalla coppia genesiaca, che non avrebbe dovuto oltrepassare i limiti legati al suo non essere autosufficiente, si è sottratta al comando e, anziché liberarsi dai vincoli di una presunta subalternità e dipendenza, ha ottenuto una pena esemplare, da cui solo un altro evento sovversivo avrebbe potuto riscattarlo.
Dall’albero dell’Eden a quello del Golgota, l’umanità si scopre annodata a due legni: il primo è il legno dell’orgoglio che, nella promessa di un’elevazione, abbassa le creature riducendole a nudità oscene che hanno orrore persino dei loro corpi; il secondo è il legno dell’umiltà che, nonostante il tradimento degli amici, innalza la carne straziata sotto i colpi della frusta e dei chiodi, verso le vette dell’eterna redenzione. Tra questi due legni si dispiega la vicenda dell’umanità.
Dopo aver perso i privilegi che le erano stati riservati, la creatura umana, con pene e sofferenze, deve districarsi nei meandri di una vita che somiglia sempre più ad una corsa ad ostacoli. Per questo gli esseri umani sono guidati e quasi sorretti per un verso dalla legge per l’altro dalla Grazia, dice Agostino: «La legge infatti più che aiutare comanda, diagnostica il male, non lo guarisce, anzi il male che essa non guarisce piuttosto lo acuisce, perché si cerchi più attentamente e più sollecitamente la medicina della grazia» (Agostino, 8,9). In altri termini, gli esseri umani, dopo aver perso i privilegi che gli erano stati concessi dalle mani del Creatore, si riconoscono sempre più bisognosi di un Altro che regoli i rapporti interpersonali, ossia di una guida che li mantenga nell’orbita del bene, per sottrarli al dominio del loro egoismo che ostacola e minaccia l’uso delle loro migliori facoltà.
Il racconto biblico si focalizza sulla realtà dell’essere umano, sulla sua incapacità di controllare e contenere le spinte della volontà e su come, nonostante la sua capacità razionale, ceda alle lusinghe del tentatore, peccando. La solidità di un essere creato a immagine e somiglianza del Creatore viene, in tal senso, minacciata e indebolita dalla sua stessa superbia, che anziché innalzarlo lo fa sprofondare nell’abisso del male. Per questo motivo Agostino ci ricorda che «Ai superbi dunque lo stesso esser rinchiusi sotto il peccato più strettamente e più manifestamente è utile, perché nel fare la giustizia non presumano delle forze del libero arbitrio come se fossero forze proprie di esso, ma sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio» (ibidem).
Peccato è per Agostino l’atto con cui l’essere creaturale infrange l’ordine tra mezzi e fini, mostrando quella che diverrà l’inclinazione più ricorrente: considerare l’ordine della vita temporale come l’unico e il più importante, perché presente e promettente rispetto a quello della vita eterna, inaccessibile e vissuto come un orizzonte lontano, razionalmente inattingibile e, dunque, solo probabile.
Sentirsi sotto la lente di un Dio che, amando, guida gli esseri umani a divenire responsabili delle loro vite e di quelle degli altri, significa riconoscere che apparteniamo a quello che Charles Taylor ha definito un orizzonte morale di riferimento che si sottrae all’inventiva umana, perché modellato e prodotto altrimenti rispetto ai recinti delle nostre intenzioni e volizioni. Queste del resto sono effettivamente sempre soggette alle minacce dell’egoismo e del desiderio di prevaricazione degli uni nei confronti degli altri. La vita umana sembra doversi giocare tra questi due ordini per certi versi paradossali: quello di un bene che ci è dato come una promessa infinita e quello di un desiderio che preme a consumare e possedere tutto quanto è a nostra disposizione. L’aver scelto una sola volta per il secondo invece che per il primo è l’errore senza ritorno che pesa come un fardello sulle nostre vite e dal quale non siamo stati più in gradi di tornare indietro.


2. La ruga sulla fronte

Vladimir Jankélévitch ha bene espresso questa impossibilità di risalire alla purezza della coscienza prima di macchiarsi dell’errore fatale quando ha chiarito che nessuno «può far sì che ciò che è stato fatto non sia stato fatto, che il “factum” sia “infectum”, nessuno può annientare il fatto-d’-aver-fatto (fecisse) né, anche qualora se ne cancellassero tutte le conseguenze empiriche, annichilire la debolezza in nome della quale cedemmo un giorno al tentatore» (Jankélévitch 2014, p. 28). La macchia del primo no, della prima bugia, del primo sottrarsi al bene avvolgente, «è indelebile, incancellabile e resiste a tutte le detersioni della penitenza e della catarsi» (ibidem). Macchia originaria dunque, incancellabile e resistente, disordine sovversivo, creativo e inaspettato che mostra la geniale perfidia della creatura nel suo posizionarsi altrove e altrimenti dal luogo nel quale era stata posta e destinata. In effetti, il ricordo del male rinnova il dolore e ci inchioda ad un essere, il nostro, che rischia di rimanere sempre colpevole. L’immagine che la colpa produce di noi stessi è sempre drammaticamente negativa e il colpevole non riesce, guardando a se stesso solo come ad un reo, a vedere niente altro che l’errore. Egli, in questo modo, finisce per identificarsi con il torto commesso e, non essendo più in grado di separarsi dal negativo, rischia di credere di essere lui stesso l’errore. Per queste ragioni, non trovando più vie di scampo, si chiude in se stesso in un ripiegamento paranoide e drammatico. L’essere umano si presenta, avverte il filosofo russo, «lacerato tra il rimpianto del piacere disdegnato e il rimorso della colpa commessa, senza che l’uno consoli l’altro: l’occasione perduta, infatti, e il peccato compiuto non ammettono altra misura comune che la temporalità» (Jankèlévitch 2000, p. 87).
Il rimorso incarna il residuo di un peso che incombe come «presenza, una presenza ossessiva e che ci tortura senza pietà; anziché attardarsi compiacentemente nell’evocazione del proprio passato, la cattiva coscienza fa di tutto per sbarazzarsene, perché non sopporta più questo spettro, questo testimone di una detestabile eredità spirituale» (ivi, p. 88).
In sostanza Jankèlévitch è rimasto ossessivamente arroccato sull’eternità dell’esser fatto del fatto e dell’istante che lo ha voluto, pensato, intenzionato, come un che di irreversibile e irrevocabile. Il peso della colpa incombe e, come tale obbliga, ed è con questo obbligo che ci dobbiamo rapportare per risollevarci dal baratro nel quale sempre la colpa rischia di farci sprofondare, incatenandoci ad un essente stato del quale vorremmo, tutti in un modo o nell’altro, liberarci. L’individuo percepisce se stesso, la propria esistenza in rapporto ad una verità inaggirabile e vincolante in cui c’è il fatto della colpa, una colpa per certi versi inamovibile e anteriore alle scelte soggettive di ciascuno, una colpa che è un ostacolo che forse potrebbe anche essere superata per accedere ad un ordine superiore. In tale prospettiva, ammette Foucault: «c’è stata la colpa, c’è stato un male, c’è stato un vizio, una macchia, e il problema della morale, del comportamento morale, della condotta morale è di sapere come si potrà cancellare questa macchia» (Foucault 2014, p. 114).
Distanziandoci dalla colpa e dal rimorso, che soffoca e mostra un io asfittico e incapace di entrare in dialogo con se stesso, è possibile scoprire qualcosa di nuovo e di ulteriore, perché vi è sempre un irriducibile positivo nell’essere umano che, senza liquidare del tutto la colpa, consente di passare dal piano della colpa a quello della responsabilità.


3. L’amore vince la colpa

Si tratta a questo punto di seguire il percorso che la creatura compie passando dalla liberazione dalla colpa alla liberazione della colpa.
Il peccato, come detto, è paragonabile ad una macchia, che infesta e minaccia, per dirlo con le parole di Jankélévitch, la purezza della coscienza, cioè «la purezza superlativa, quella che non si può professare senza contraddirsi, una bianchezza assolutamente incolore e una trasparenza assolutamente diafana» (Jankélévitch 2014, p. 4). Tale purezza trasparente e diafana sembra essere anche astorica oltre che indicibile, infatti ammette il filosofo russo, solo «sull’essere impuro c’è molto da dire, e persino tutto da dire» (ivi, p. 7) e tale da rimandare necessariamente ad altro: l’impuro. La vita umana è densa di chiaroscuri riflessi di un’immagine deturpata e stravolta che nel tempo si sbiadisce in modo irreparabile. Come un’opera d’arte esposta agli agenti esterni che ne alterano la purezza, così la coscienza dell’uomo, nata pura, rischia di essere lesionata per sempre, deturpata e impossibilitata a tornare all’originaria purezza, a quella condizione verginale espressa dal venire fuori dalle mani di un divino ordinatore, che nel mostrarla al mondo l’ha anche consegnata al suo dovere di mantenersi con la stessa tonalità morale che la caratterizzava nei suoi primi istanti di vita.
Così il peccato introduce un disordine ove non c’era, esso è sinonimo di interruzione e alterazione irriducibile e la creatura «in preda al male del ritorno (νόστος) immagina un’età dell’oro e di cristallo, un’epoca in cui l’oro non era ancora adulterato dalle leghe dell’essere, né di cristallo ancora offuscato dalla respirazione della coscienza, né l’acqua pura del diamante ancora intorbidata dalla minima bolla» (ivi, p. 13-14). Si noti, osserva Kant nella Metafisica dei costumi che «il male è entrato nel mondo, non a partire dal fratricidio (Caino), ma piuttosto a partire dalla prima menzogna (perché contro il primo è la natura stessa a ribellarsi) e che attribuisca al mentitore originario il ruolo di creatore di ogni male e padre di tutte le menzogne. La ragione peraltro non è in grado di offrire nessuna spiegazione di questa tendenza dell’uomo alla furberia (esprit fourbe), che deve comunque averla preceduta» (Kant 2006, pp. 477-479). Se dunque la ragione non riesce a rendere ragione del perché l’uomo abbia scelto di mentire e di dare inizio così a qualcosa di nuovo nella storia dell’umanità, ci troviamo spiazzati e posti dinanzi ad un evento tanto umano quanto incomprensibile e inaccessibile al dominio della ragione.
L’immaginario ritorno ad un passato creaturale, antecedente al dominio imposto dal male, è denso di interrogativi la cui radicalità intrappola il pensiero che rimane impietrito, quasi non ci fosse via d’uscita, perché di questo si tratta di un atto gratuito e assolutamente immotivato, una sfida di fronte alla quale la razionalità si trova sotto scacco, nelle cui secche a volte s’incaglia. Perché se è vero che «non c’era ragione perché la purezza assoluta cessasse un giorno di essere pura, cioè si alterasse e divenisse qualcosa d’altro» (Jankélévitch 2014, p. 21), è altresì drammaticamente vero che «la purezza deve cambiare direzione senza ragione, cioè da sé e spontaneamente» (ibidem).
Il gesto impuro che ha interrotto per sempre la possibilità dell’eternità costituisce per Jankélévitch un risveglio della creatura «dalla sua incoscienza edenica da una cattiva ispirazione, spontaneamente e a un certo momento ha voglia della cosa proibita, e si accorge che può disobbedire liberamente» (ibidem).
Il peso della colpa viene scaricato sul terzo, altra mossa abile della creatura che colloca fuori di sé la genesi della malizia. Non Adamo e nemmeno Eva, dunque, non la prima coppia umana, ma il serpente, ovvero una bestia strisciante e immonda è il vero artefice del seducente desiderio di oltrepassare i confini del divieto, perché di per sé «l’uomo non è impuro in modo congenito, ma lo è diventato: di nascita, l’uomo è al contrario un piccolo angelo» (ivi, p. 33). Allocare fuori di sé la responsabilità della colpa, tuttavia, non solleva del tutto la creatura che rimane per sempre inchiodata al male.
Questo dunque è il peccato dell’uomo: rinunciare alla propria dignità, abbassarsi e seguire le adulanti parole di un seduttore che, irrompendo dall’esterno, sottomette il volere della creatura al suo piacere, non una volontà retta che teneramente accompagna e sorregge, guida e ammaestra la creatura, ma una già pervertita e strisciante volontà, vile e appartenente al regno della polvere diviene la legge a cui sottomettersi. Come naviganti stregati dal canto delle sirene anche gli esseri umani cedono e si abbassano a seguire la voce della terra e non quella del cielo. Il fatto è, osserva Kant, che «Chi si fa verme, non può poi lamentarsi di essere calpestato» (Kant 2006, p. 491).
Ecco che la ragione pensa ad una via di fuga dinanzi ad una simile sconfitta dell’umano, un’ancora che consenta alla creatura di risollevarsi con le sue proprie forze. Possiamo leggere in questo senso la scoperta kantiana della dignità come l’alternativa possibile di ordine razionale, mediante la quale gli esseri umani sono chiamati a riconoscersi come fini e non come mezzi, consegnati alle volontà e agli arbitri altrui. Afferma, infatti, Kant: «L’umanità nella propria persona è l’oggetto del rispetto che l’uomo può pretendere da ogni altro uomo, di questo rispetto, inoltre non deve mai privarsi. Egli può e deve, dunque, valutarsi con un metro che è piccolo e grande al tempo stesso, a seconda che si consideri come essere sensibile (in base alla sua disperazione morale). Poiché però non deve considerarsi soltanto come persona che ha dei doveri impostigli dalla ragione, la sua scarsa importanza come uomo-animale non può recare danno alla coscienza della sua dignità quale uomo-ragione, e in quest’ultima veste non deve negarsi l’autostima morale» (ivi, p. 487).
L’essere umano, da solo con il semplice esercizio della sua ragione, seppure coadiuvata dalla volontà, non è tuttavia in grado né di risollevarsi né di risalire la corrente della colpa, rendendosi conto del suo essere limitato e dell’infinità di cui è parte e di cui egli non è che un granello infinitamente piccolo rispetto all’infinitamente grande. Dinanzi a questa sproporzione, infatti si rende conto di essere, come avverte Pascal, solo «un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, un qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto. Infinitamente lontano dall’abbracciare gli estremi, la fine delle cose e il loro principio gli sono invincibilmente nascosti in un impenetrabile segreto, ed egli è ugualmente incapace di vedere il nulla da cui è stato tratto e l’infinto dal quale è inghiottito» (Pascal 2002, p. 140).
Sospeso tra totalità e nullità, l’essere umano vive in bilico e sperimenta una costante ed ineliminabile desolazione che, quasi come un sigillo, affligge ogni vivente umano, tanto che, afferma Kierkegaard: «Non vive un solo uomo il quale non sia un po’ disperato, che non porti in sé un’inquietudine, un turbamento, una disarmonia, un’angoscia di qualche cosa ch’egli non conosce o che non osa ancora conoscere, un’angoscia di una possibilità dell’esistenza o un’angoscia di se stesso, in modo che come il medico parla di una malattia che cova nel corpo – cova anch’egli una malattia, cova e porta con sé una malattia dello spirito, la quale ogni tanto, a guisa di un lampo mediante e insieme a un’angoscia incomprensibile per lui stesso, fa sentire che c’è dentro» (Kierkegaard 1972, p. 630).
Pur volendo derubricare il senso religioso della colpa, gli esseri umani vivono tutti e indistintamente nell’impossibilità di sottrarsi alla disperazione e all’insignificanza, dovuta per lo più all’incapacità di accettare la possibilità del limite.
Le pretese dell’attuale società tecnocratica non fanno che alimentare in modo spasmodico la convinzione di poter superare ogni limite, compresi quelli della colpa e del peccato. Non possiamo, infatti, non considerare l’importante affermazione di Remo Bodei quando ammette che «Sono stati i grandi progressi della civiltà europea e nordamericana a partire dal Settecento ad accreditare l’idea di un progresso illimitato, non frenato da catastrofi periodiche, di un antidestino che consente all’uomo di modificare quel che prima riteneva immodificabile» (Bodei 2016, p. 68).
Questa pretesa assolutizzazione dell’uomo lo ha ricondotto, risospinto costantemente dinanzi al proprio limite e ai propri errori. Proprio la fallibilità della ragione e l’impossibilità di voler porre limiti al desiderio hanno condotto ad una «mutazione antropologica profonda, che ha capovolto tradizioni millenarie e che incide ora sulla vita quotidiana di miliardi di persone, distanziandola da quella dei loro antenati» (ivi, pp. 101-102). Quale via si profila per un possibile superamento della colpa che non rinunci al riconoscimento dell’errore? Forse una risposta proviene dalla riflessione di Kiekegaard nel suo ammettere che l’uomo, credendo di dover comprendere per poter vincere il male, cerca di fuggire, per «sottrarsi quanto più a lungo possibile a questa marcia verso la morte» (Kierkegaard 1973, p. 98) e così facendo rimane impigliato nella trappola del negativo; l’amoroso, avverte il filosofo danese, con una specie di “follia divina”, non guarda il male davanti ai suoi occhi e copre con l’amore la negatività del peccato. Questa lezione è impartita dall’amore, mediante l’essere stesso dell’amoroso, la testimonianza di vita di un uomo, che è venuto a donare la vita per essere criterio e modello, e donando se stesso domanda di essere accolto e contemplato. Il Volto di un uomo che parla al cuore dell’uomo passa attraverso la malvagità e la perfidia dei suoi persecutori, in questa assenza di clamore c’è lo stile che ciascuno dovrebbe assumere dinanzi al male. Si annuncia un diverso modo di intendere la vittoria: è la vittoria dell’amoroso sul disamorato, dell’amore sulla coscienza tragica della colpa.
L’amore ha la possibilità di neutralizzare il potere trainante verso il basso esercitato dal peccato. Contro lo sforzo del voler essere, davanti a Dio, disperatamente se stessi, rinunciando cioè a vivere nella relazione con colui che ponendo il rapporto ci interpella e ci richiama alle nostre responsabilità, l’amoroso vince sulla resistenza e sulla diffidenza del disamorato. Con la sua vittoria l’amoroso non intende umiliare il vinto, ma guadagnarlo all’amore. C’è una sola condizione che assicura al vinto di non essere sottomesso al vincitore: questa è l’apertura al terzo. Aprendosi al terzo il vinto non sarà umiliato e il vincitore non sarà preso da orgoglio. Nell’orizzonte del terzo si realizza la riconciliazione e si ripristina il rapporto che tanto l’amoroso quanto il disamorato devono continuamente mantenere con colui che precede e fonda ogni rapporto.
Aprendosi al terzo, l’uomo ha la possibilità di riconoscersi fragile e impotente, bisognoso di essere soccorso e sollevato dalla propria miseria. In tale prospettiva, l’amore è la resistenza passiva dinanzi al male, è lo scoglio sul quale si infrange il negativo del peccato e la possibilità di inaugurare un nuovo e diverso ordine dopo il disordine del peccato.
Se tra amore e peccato c’è un’invincibile ed eterna inimicizia (cfr. Cerasi 2005, p. 135), è proprio mediante l’amore che l’uomo ha la possibilità di mettere a distanza il peccato. Chi ama, nella forma indicata da Kierkegaard, se non può annullare il male commesso, riesce almeno a rimuoverlo, perché pone il peccato dietro le spalle e, con il suo credere, rende invisibile il visibile. Alimentando l’amore, l’amoroso copre e soffoca la moltitudine dei peccati e tiene sotto scacco il male. In verità l’amore è l’unico che può intraprendere una lotta impari, affinché l’altro possa essere guadagnato all’amore, il che porta a scoprire il valore dirompente della relazione con l’alterità, mediante la quale veniamo risollevati dalla nostra impotenza e riscattati dalle tenebre del peccato.
Se la ragione non riesce né a comprendere né a vincere la resistenza del peccato, l’amore possiede un diverso ordine e misura che risiede nella sua dismisura logica. È qui che lo spirito pascaliano trova il suo senso nel mostrare la via d’accesso e la smisurata potenzialità dell’amare: «Il cuore ha il suo ordine; l’intelletto ha il suo, che procede per principi e deduzioni; il cuore ne ha un altro. Non si dimostra che bisogna essere amati, esponendo ordinatamente le cause dell’amore: sarebbe ridicolo» (Pascal 2002, p. 220). Da qui si tratta altresì di riconoscere, con Ricoeur, il carattere sovra-morale dell’amore come «forma di sospensione dell’etica» (Ricoeur 2003, p. 44). Il raggio d’azione del peccato è neutralizzato dal silenzio dell’amore, che perdonando trionfa sul male. Il male in tal modo non possiede più l’ultima parola sulla vita dell’uomo e sulla sua destinazione finale. Aperto alla speranza, l’amore risana la coscienza tragica della colpa e assume in Kierkegaard il volto radioso della misericordia. Proiettandosi oltre la fragile consistenza dell’orizzonte temporale, l’amore vince sull’egoismo individuale, da cui è scaturito il primo male. Aprendosi allo sguardo folgorante di un terzo che non è la parola di verme strisciante, ma il Volto di qualcuno che si dona e concede il suo amore e nel quale risplende il riflesso dell’eternità, l’amore dona senso e slancio, potere e possibilità della riconciliazione. È grazie all’amore che gli esseri umani possono sperimentare la possibilità di una risalita dall’abisso del male per sporgersi, dissetarsi e attingere alle sorgenti del bene. I gesti concreti e storici, come l’essere presso l’altro nel momento estremo della sua sofferenza e del suo venire meno, sono atti che scaturiscono da questa capacità di donarsi, icone di un darsi che vince l’orgoglio e la superbia riconducendo la coscienza alla sua possibilità di essere pura.


Bibliografia

Agostino, La grazia di Cristo e il peccato originale, 8,9.
Bodei R. (2016), Limite, il Mulino, Bologna 2016.
Cerasi E. (2005), “Con gli occhi chiusi”, in I. Adinolfi e V. Melchiorre (a cura di), Nota Bene. Quaderni di studi kierkegaardiani. L’edificante in Kierkegaard, 4 (2005), il melangolo, Genova.
Foucault M. (2014), Del governo dei viventi, Corso al Collège de France, Feltrinelli, Milano.
Garlatti F. (2016), Natura lapsa e peccati di ignoranza nell’antropologia di Agostino, ETS, Pisa.
Jankélévitch V. (2014), Il puro e l’impuro, Einaudi, Torino.
- (2000), La cattiva coscienza, Edizioni Dedalo, Bari.
Kant I. (2006), Metafisica dei costumi, Bompiani, Milano.
Kierkegaard S. (1973), Peccato, perdono, misericordia, Gribaudi, Torino.
- (1972), La malattia mortale, in Opere, Sansoni, Firenze.
Pascal B. (2002), Pensieri, Mondadori, Milano.
Ricoeur P. (2003), Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia.
Taylor Ch. (1993), Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano.



E-mail:



torna su